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 IL GIORNO DELL'ABISSO
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zanin roberto
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Italy
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Inserito - 17/09/2006 :  19:46:29  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a zanin roberto

IL GIORNO DELL'ABISSO

L'acqua del fiume Frento scendeva lenta, non aveva la forza del Tevere, ne la maestosità dell'Eridanio ma addolciva con il suo fresco alveo la valle piatta che degradava al mare Adriatico. L'estate del 216 a.c. era afosa e umida, le cicale continuavano a intercalare il loro frinire regolare e sereno,il giallo dell'arsura chiazzava i campi di dorate fienagioni mentre il profumo degli eucalipti aromatizzava la stagna atmosfera.
Annibale si era destato quel mattino del 2 agosto con la certezza che il Fato avrebbe scritto una pagina indimenticabile sul libro della storia. A pochi stadi c'era il nemico, la più grande armata romana mai vista prima, forte di 80000 uomini si stava schierando agli ordini dei consoli Terezio Varone e di Emilio Paolo, coadiuvati da Servilio Gemino e da Minucio Rufo, per dare battaglia campale all'invasore cartaginese che si era spinto nell'Apulia.
Il generale punico aveva più volte sperato di affrontare le legioni in campo aperto, dove già in altre tre occasioni le aveva sbaragliate,finalmente l'impudenza, di chi si sente più forte, aveva ceduto alla tattica del disimpegno e del logoramento più volte auspicata dal senato.
La guerra che Annibale aveva scatenato sul suolo Italico era ora all'apice, il giuramento di odio eterno a Roma, fatto su preghiera del padre,si stava compiendo. Nella Daunia dalle verdi colline con il profumo del salso che saliva dall'Adriatico si fronteggiavano le due potenze del Mar Mediterraneo, Roma che si difendeva da una invasione devastante e i cartaginesi che assaporavano la capitolazione della città latina ormai imminente e matura. Il volo alto di rapaci e l'abbaiare sinistro di cani randagi pronti a dilaniare ogni avanzo organico commentavano un'alba che toglieva il respiro con la sua gravosità. Fatta una rapida riunione con i suoi comandanti, tutti si affrettarono a schierarsi, a prendere la giusta posizione. I romani con l'entusiasmo di Varone, sicuro della vittoria, si erano caricati moralmente come non mai,già pregustavano la spartizione del bottino, degli schiavi, la fine di un'incubo che li aveva tormentati per due anni e la gloria della patria, contando su una superiorità numerica di tre a uno.
Dal cielo, dall'alto, guardando con gli occhi acutissimi di un rapace, si poteva distinguere il fiume con le sue acque azzurre, sulla sua sinistra il grosso quadrato monolitico dei quasi 70000 soldati romani con le due ali di cavalleria, comandata dal console Paolo, il centro era comandato da Gemino e Rufo, mentre Varone aveva il comando delle fanterie sulla sinistra. Di contro i cartaginesi si erano posizionati a mezzaluna, con la convessità a guardare i romani, ad arco di cerchio convesso, le forze puniche erano 40000 fanti e 10000 cavalieri numidi e alleati Celti e Iberi. Comandava la cavalleria numidica, nord africana, Annone mentre la cavalleria degli Iberi e Celti la comandava Asdrubale, Annibale giostrava la fanteria del centro.
Sentire il boato dei gladi sugli scudi era un'atroce messaggio che i legionari mandavano all'avversario, brividi, panico, viscere che si alienavano ma di contro l'aspetto selvaggio dei Celti ignudi fino alla cintola e dei Lidi dalle facce scure con tremende cicatrici, non rassicuravano certo di più.
Il mattino si era inoltrato verso l'arsura, il sole picchiava inclemente sugli uomini e i raggi rimbalzavano riflessi dalle armature metalliche, il sudore colava copioso, la bocca si seccava, un vento intrigante, il Volturno, dispettoso, soffiava in faccia ai romani, polvere e stoppie, sollevando turbinii fastidiosi, non a caso Annibale aveva posizionato i suoi con le spalle al sole e al vento.
L'equilibrio durò poco, i cavalli spronati si gettarono al galoppo, i frombolieri iniziarono il lancio di dardi, gli arcieri scagliarono frecce a oscurare il cielo, le formazioni legionarie si incunearono con la potenza dell'urto possente, la resistenza non era tenacissima, l'arco teso dello schieramento cartaginese si flette, con lenta, impercettibile, studiata, inesorabile ritirata il centro diventa da convesso a concavo ma non si spezza. Il fragore degli urti, le grida disperate dei morenti, le tremende lacerazioni, le inclementi scene di crudeltà si susseguono, ferro contro ferro, lance che saettano a conficcarsi nei petti e nelle schiene,gli scudi rimbombano di fendenti e l'eccitazione mista alla paura si palesa con acuti voci inumane.
Annibale ormai ha innescato la sua trappola mortale..........
inesorabilmente il fronte romano si allunga, si allunga, si allunga, ad un certo punto sui fianchi si presentano d'ambo i lati, le terrificanti formazioni dei Lidi che sono pronte a chiudersi come una implacabile ganascia, da dietro la cavalleria numidica più numerosa, dopo aver disperso la più inesperta cavalleria romana, chiude la fanteria in un accerchiamento da manuale.
Vista con gli occhi di quel volatile, tutto sulla scacchiera è un gioco geometrico, perfetto, esemplare, una scacchiera che non concede rivincite o rinunce. Ogni spazio è ottimizzato, ogni tempo è rispettato.
Si compie il più colossale massacro della storia antica. Il 2 agosto del 216 a.c. in quella che tutti conoscono come la battaglia di Canne, cadono oltre 50000 soldati romani, due consoli, i questori, 29 tribuni, 80 senatori, la più grande disfatta della storia di Roma.
Quando il mattino successivo Annibale va sul campo di battaglia, a perdita d'occhio si trova in un mattatoio che in qualche modo lo intristisce, ammira il coraggio e l'abnegazione di quei legionari e si chiede se dopo questo successo finalmente Roma si arrenderà. Mentre l'odore pungente, dolciastro, della morte avvolge la piana, egli cammina tra i caduti e trova un cavaliere romano disarcionato e avvinghiato a un ispanico, si sono dati la morte contemporaneamente, ognuno per un ideale, con onore, con estremo coraggio.Il generale è con i suoi pensieri, riflette, si sente raggiante per la splendida vittoria, ma anche responsabile d'una missione che esige scelte dure e dolorose. Nell'antichità difficilmente si raggiungevano i 40 anni, la vita era durissima, meglio tentare la sorte con la carriera militare, dove si mangiava bene, si guadagnava bene ma che esigeva a volte il sacrificio massimo della vita.
Il galoppo veloce e concitato del suo comandante di cavalleria, Maarbale, lo distoglie dalle sue riflessioni, raggiuntolo scende con irruenza da cavallo, si presenta al suo generale inginocchiandosi con reverenza poi si stringono in un abbracccio liberatorio, un nuovo Dio si è aggiunto all'Olimpo, Annibale però è imperscrutabile.
Maarbale complimentandosi per il genio tattico del suo duce, si fa ardito nell'euforia della vittoria, serve una coppa di vino dell'Apulia appena predato e brinda al successo.
Le insegne romane catturate sono accatastate in una grande tenda bianca dai colorati stendardi svolazzanti, Maarbale chiede ad Annibale con la sfrontatezza del potente:
- " Dammi l'ordine di partire subito alla volta di Roma, con la
cavalleria, grande figlio di Amilcare, nuovo Baal, in cinque
giorni la raggiungo e vi entro prima che vi giunga la notizia del
loro disastro, ti preparo un banchetto per il tuo trionfo,
eccelso e divino mio comandante

Annibale è fermo, deciso, sicuro di se, determinato e più che mai regale, non piega lo sguardo, non sospira profondamente, non cede nessuna emozione, disse solo : " No ! "
Il suo ufficiale allora seccato, irato per la non condivisione del progetto, offeso per la indiretta poca stima tattica e strategica rispose con una frase che rimarrà famosa:
- " VINCERE SCIS HANNIBAL, VICTORIA UTI NESCIS "
- " SAI VINCERE ANNIBALE MA NON SAI SFRUTTARE LA VITTORIA "
Lo sguardo del genrale avrebbe gelato l'animo più impavido, il silenzio cadde mistico sull'accampamento, un gelo marziale vibrò nella grande tenda di Annibale, nessuno osava parlare e mentre il numida se ne andava svilito, un ululato sordo di lupi squarciò l'equilibrio impalpabile, di Maarbale non si senti più parlare.
Annibale fece raccogliere le fedi nuziali dei morti romani e le inviò a Cartagine, in segno della grande vittoria. Roma non fu assediata e resistette per anni fino all'epilogo di Zama con Scipione vincitore.
Le pire sanificarono l'aria, i campi punteggiati da ulivi, inebriarono di nuovo con il profumo della natura l'atmosfera e il corso della storia prosegui inarrestabile. Quel genio di cartaginese aveva la speranza di far capitolare Roma, non di distruggerla, ma la suo eccelso intelletto di stratega, faceva resistenza un popolo che nel suo dna aveva la "virtus" che trascinava all'eroismo e al sacrificio fino a formare un vasto impero.


di Zanin Roberto

   
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