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 IL GALLO CHE VINSE ROMA
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zanin roberto
Senatore


Italy
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Inserito - 05/01/2006 :  00:06:53  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a zanin roberto
IL GALLO CHE VINSE ROMA

(Anno 390 a.c., ore 15.00 pomeridiane del 21 luglio, tre giorni prima nei pressi d'un fiumiciattolo, l'Allia, l'esercito romano è stato sonoramente battuto.)


L'orda disordinata dei Galli guarda le mura di quella città, sentita nominare tante volte nei racconti dei mercanti che vendevano loro il vino, cosi buono e cosi infido che molte volte li faceva cadere addormentati ai piedi dei loro grandi fuochi.
Li comandava un impavido capo, Brenno che ha nel suo orgoglio la punta più alta del suo ardire. Non ci sono soldati sugli spalti, ne le grandi porte sono chiuse,i romani sicuramente hanno tramato un inganno, nonostante abbiano subito una disastrosa sconfitta pochi giorni prima. Un gruppo a cavallo è fermo sulla porta, scrutano interrogativi il loro comandante, poi ad un cenno i Galli oltrepassano l'ingresso con evidente timore.
Non ci sono persone e il silenzio sembra generale, cani randagi si uniscono al drappello in avanscoperta che avanza lentamente e con circospezione.
Un vecchio pastore vestito con pelli di capra esce da una stalla e si blocca stupito a guardare quegli uomini dai cappelli rossi annodati a treccia, rimane paralizzato finchè una spada roteata con fulmineità non gli stacca la testa dal collo.
Il gesto crudele e inutile era dettato da paura, non da furia assassina, un paio di ragazzini mettono il naso fuori dalla finestra di casa, subito strappati alla vista, dai genitori che ne stoppano l'ingenua curiosità.
Le vie lastricate sono vuote, i carri ai lati della strada con i carichi di foraggio e prodotti agricoli sono abbandonati, le fontane cittadine sono una attrattiva per i barbari, fermano i cavalli, scendono e si dissetano come tanti ragazzini dopo il gioco. Si guardano increduli, sanno che potrebbero essere oggetto della risposta romana e che il loro eventuale sacrificio risparmierebbe la vita ai loro fratelli.
I palazzi in marmo bianco sono solenni, le colonne doriche e le enormi scalinate del centro rapiscono il loro sguardo. Sono passate un paio d'ore quando il grosso dell'esercito gallo entra in una Roma semideserta.
Dove sono le truppe che difendono la città ?
Brenno nel suo cavallo avanza solenne, si fa sempre più probabile l'idea che i romani si siano dati alla fuga, in maniera codarda, abbiano lasciato la città indifesa ... o forse hanno escogitato un tranello che però non lo troveranno impreparato.
L'occupazione di vie e piazze continua con lenta determinazione, ecco ora la sede del senato, del potere di questa gente. Come in un flash, gli viene alla memoria quando bambino assisteva alle cerimonie nei fitti boschi della Gallia,dei sacri alberi, dove i druidi imploravano la clemenza delle divinità nordiche.Alla dura vita del nomadismo stagionale, alla lunga marcia di conquista oltrealpi fino al delta del fiume Eridano, in quella dolce pianura dove il grano sembrava oro, dove il clima mite e i commerci erano le caratteristiche di un vero paradiso.
Scese da cavallo, scortato da un paio di armati alti e possenti che lo affiancarono solenni, il silenzio era sempre incombente. Entrò nell'edificio che ospitava il senato. All'interno sedevano una dozzina di vecchi barbuti, con la tunica bianca di lino e lo sguardo severo, fermi nei loro scranni, ognuno immerso nei propri pensieri, la testa alta e fiera, con le mani incrociate sulle ginocchia.
Il rimbombo dei passi era come il martellare sull'incudine, le rozze figure guerriere avanzavano pronte ad intervenire.
Si sparpagliarono in tondo, al centro il capo gallo, si sforzò di coniugare una frase in latino, Brenno disse spavaldo:
- " Romani, ho conquistato la vostra città !...Voglio obbedienza e la consegna di tutte le vostre armi!...Io sono il vincitore!" lo disse con soddisfazione, sentendo la propria voce rimbalzare in quell'edificio cosi acusticamente potente, pieno di eco, sicuro di aver fatto impressione a quegli che dovevano essere senatori del governo romano.
Aspettò un interminabile minuto, fermo, una risposta di sottomissione.I vecchi senatori, ne avevano viste tante, avevano decretato guerre, stipulato trattati di pace, emesso leggi, guidato emergenze, sedato motti popolari, e ora avevano deciso di sacrificarsi per trattenere un pò il nemico mentre il fuoco sacro del tempio seguiva le vestali a Caere e gli ultimi valorosi difensori organizzavano la resistenza sul Campidoglio. Brenno intui che quel silenzio generale parlava più d'ogni discorso, sapeva che quello era un popolo che aveva nell'orgoglio una caratteristica peculiare, fece un passo in avanti, scrutò quello che sembrava essere il più anziano dei senatori.
Si girò verso uno dei suoi ufficiali e cercò un suggerimento, questi percepito l'imbarazzo sguainò la spada con un stridente rumore metallico ma quelle persone sembravano di marmo, come divinità a cui il trascorrere terreno non importasse niente.
Non traspariva alcuna paura, ne incertezza, quasi non respiravano e il loro battito rimaneva nel pulsare impercettibile. Il gallo spazientito avanzò ancora seguito dallo sguardo di Brenno, si accostò all'anziano romano, gli prese la lunga barba bianca e la tirò con uno strattone, non per impertinenza ma perchè ormai erano alla berlina, il sospetto che qualcosa di divino albergasse in loro era ora messo alla prova.
L'anziano senatore era abituato ad un rispetto assoluto e la sua reazione fu solo il frutto di una tradizione che voleva la totale invulnerabilità del ruolo ricoperto. Afferrò il bastone che gli serviva per appoggiarsi nel suo stentato camminare e lo picchiò con tutta la sua forza sulla testa del maleducato gallo.
Brenno si irrigidi di colpo, voltò l'angolo di osservazione e subi il colpo come uno schiaffo razzista. Senti tutta la riluttanza e l'ostilità nello sguardo penetrante del vecchio. Il luogotenente alzò la spada e in preda ad uno scatto d'ira infilzò al petto il senatore che cadde con un fievole lamento mentre gli altri non pronunciavano verbo, uno dopo l'altro caddero tutti in quella mattanza più per cercato martirio che per ineluttabile destino.
I fuochi crepitavano ovunque con furore, il denso fumo si propagava a fumigare quella inerme città, su sul colle del Campidoglio le lacrime dei sopravvissuti forgiavano nuove energie, nei momenti dello sconforto e della disperazione questa gente sapeva trovare la speranza, ad altri popoli sconosciuta.
Le asce demolivano, le razzie erano devastanti, ma i templi stranamente furono risparmiati, quasi temessero ripercussioni negative, scoppiarono pestilenze ma la rocca resistette.
Nella periferia però si andava organizando un nuovo esercito che trovato un vecchio generale esule, ora prendeva coscienza ed entusiasmo.
- " VAE VICTIS " Guai ai vinti! rammentò Brenno sei mesi dopo, venuto a patti con i romani per 1000 libbre d'oro di riscatto, ma barando sulla bilancia con pesi truccati, alle loro proteste.
Dagli spalti d'una torre di cinta, piovve una dozzina di frecce vicino al luogo della pesatura e si senti nitida una voce impavida rispondere:
-" NON AUREO, SED FERRO, RECUPERANDA EST PATRIA " Non con l'oro ma con il ferro si riscatta la patria.
Drappelli di cavalleria diedero la caccia agli isolati sfacciati che avevano avuto l'impudenza di reagire. Non gli trovarono mai, se ne erano andati ma mantenevano acceso l'ideale della riscossa.
Avuto il bottino Brenno tolse l'occupazione di Roma e se ne andò, aveva ottenuto quello per cui era partito e mentre galoppava fiero verso l'Apulia gli ritornò in mente lo sguardo del vecchio senatore mentre moriva, sorrise e voltandosi indietro invidiò per un attimo quella forza d'animo, avrebbe sentito ancora parlare sicuramente di Roma.
La polvere sollevata dall'orda gallica si spandeva a nuvola poi placida si posava sulle foglie degli alberi e sull'erba, tanto minacciosa e soffocante in aria quanto inoffensiva a terra, di Brenno non si seppe più nulla, un fulmine che poteva distruggere Roma e che invece si dimentica come l'improvvisa tempesta che l'ha generato.
Le mani dei romani erano affacendate a ricostruire e in cielo un azzurro terso indicava che gli dei erano ben disposti a donare ancora fortuna a quella gens testarda e indomita che si era piegata ma non spezzata.

di Zanin Roberto

   
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