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Renato Attolini
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Inserito - 06/03/2008 :  19:51:27  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Renato Attolini Invia un Messaggio Privato a Renato Attolini

Il 52° piano del grattacielo, uno dei tanti, vanto e gloria di Manhattan, era completamente occupato da una delle più rinomate agenzie di brokers di New York. La sala principale, quel giorno, era addobbata con festoni multicolori ed un grande striscione: “Ci mancherai, Alan”. Alcuni tavoli imbanditi con leccornie d’ogni tipo, bibite e cocktails alcolici ed analcolici, facevano mostra al centro del locale, circondati da impiegati e dirigenti che s’ingozzavano allegramente, trangugiando bicchieri uno dopo l’altro. Il vociare festoso fu interrotto da alcune voci che intonarono una richiesta:
“Discorso! Discorso!”
Alan Mancuso, di chiare seppure lontane origini italiane, si fece largo fra i presenti mostrandosi falsamente schivo e ritroso. Aspettava un incoraggiamento maggiore che puntualmente arrivò.
Si schiarì la voce e tenendo fra le mani un calice di champagne incominciò a parlare:
“Cari collaboratori, dovrei dire amici, ma non voglio sembrare troppo sentimentale.”.
“Non le sei mai stato, Alan!” gridò qualcuno.
Risate generali. Alan levò il calice sorridendo e proseguì:
“In questo giorno così importante per me, il mio pensiero è per tutti voi che avete reso grande questa società col vostro lavoro, dall’ultimo archivista al dirigente più alto in grado…..vale a dire me.”.
Risate ed ovazioni.
“ La nostra società ha cominciato ad operare a Wall Street nel lontano 1929…”
Una voce lo interruppe:
“Non è stato un grande inizio, vero Alan?”
Risate ancora più fragorose si levarono nel salone.
“Certamente!” Alan si unì al coro d’ilarità, ma poi cambiò tono improvvisamente e l’uditorio capì che era finito il momento di scherzare. “Era l’anno della grande crisi e d’allora il nostro gruppo ne ha dovuto affrontare parecchie ancora. Dopo la guerra ci sono stati momenti assai difficili e di recente cito solo il “Lunedì nero” del 1987 e l’attacco alle Twin Towers.”
Il riferimento a quella ferita ancora aperta ed insanabile della storia americana ammutolì ancora di più i presenti.
“Ma…..” L’attenzione era ormai totale “la nostra società si è sempre distinta per la serietà e per la dedizione nel proprio campo, grazie anche alla completa abnegazione di chi l’ha condotta prima di me e di chi ne prenderà le redini adesso che io vado in pensione. Continuate così, ragazzi!” la voce gli s’incrinò per l’emozione e terminò con enfasi la sua orazione pronunciando una frase ad effetto: “Dio benedica l’America e tutti voi!”
Un boato ed un uragano d’applausi fecero eco a queste parole. Tutti si fecero intorno al vecchio capo che li lasciava, abbracciandolo, dandogli poderose pacche sulle spalle e da parte delle donne baci sulle guance e a volte anche sulla bocca.
Alan quella sera, ancora frastornato dai festeggiamenti, prese la metropolitana per l’ultima volta destinazione Long Island dove viveva con la moglie. Un’epoca fondamentale della sua vita finiva per sempre e si apriva per lui un futuro sereno e tranquillo fatto di solo riposo. L’euforia vissuta nella giornata si stava stemperando lasciando spazio alla malinconia, ma soprattutto ad una sensazione a lui nota e di cui ne avrebbe fatto volentieri a meno: il terrore. Alan ancora una volta stava per affrontare il suo nemico più spietato e terribile: la notte.
Da quasi quarant’anni, da quel maledettissimo 16 marzo 1968 un incubo ricorrente tormentava i suoi sonni. Allora era un giovane marine mandato in Vietnam e quel giorno si trovò insieme ai suoi commilitoni impegnato in una missione speciale: snidare ed uccidere tutti i vietcong asserragliati nel villaggio di My Lay nel distretto di Son My. Comandavano le truppe il tenente William L. Calley ed il famigerato capitano Ernest Medina che passò tristemente alla storia. Particolare non trascurabile fu il fatto che di vietcong non ce n’era neanche l’ombra ma solo donne, vecchi e bambini. Fu un massacro orribile, ne morirono trucidati 347. Alan rivisse nella sua mente l’eccidio anticipando di poche ore il suo incubo. Se l’inferno si fosse materializzato sulla terra, non poteva essere molto diverso da quelle scene.
Arrivò a casa accolto come sempre a braccia aperte dalla moglie alla quale raccontò i dettagli del party offerto in suo onore. Consumarono una cena frugale e poi Alan ultimò i preparativi per un viaggio che aveva programmato da tempo. Aveva sempre detto a sua moglie che non appena fosse andato in pensione si sarebbe immediatamente concesso una settimana tutta per lui per andare a pesca, il suo passatempo preferito. Sistemò gli indumenti nella valigia e poi s’infilò nel letto. Sapeva cosa l’attendeva e non poteva farci nulla. Anni di psicofarmaci, di sedute dall’analista erano servite solo a fargli spendere un mucchio di soldi. Pativa, come tanti reduci, la sindrome “Vietnam”. Aveva ascoltato, da bambino, i racconti di quelli che erano tornati a casa dalla seconda guerra mondiale e sentendo le loro storie se li era immaginati come tanti eroi, e prometteva a se stesso che un giorno anche lui avrebbe fatto lo stesso. Stavolta però chi era tornato dal Sud Est asiatico, non aveva molta voglia di narrare aneddoti sulla guerra. In maggior parte erano persone con gravi problemi psicologici di difficile guarigione. La paura delle imboscate, del nemico (“Charlie” come lo chiamavano i marines) che si parava dinanzi a loro all’improvviso o alle spalle sempre quando meno se lo aspettavano, li faceva vivere in una situazione di tensione perenne anche adesso che avevano fatto ritorno. Emblematico fu l’episodio, anche se non si sa se fosse veritiero o una leggenda metropolitana, di quel reduce che sentendosi coprire gli occhi con le mani da qualcuno gli rifilò una gomitata in piena gola, uccidendolo sul colpo. Solo dopo s’accorse che si trattava della sua fidanzata che voleva fargli una sorpresa. Alan soffriva come gli altri e forse anche di più. Di giorno la sua era una vita assolutamente normale, né più né meno di tante altre persone. Si era costruito una solida posizione economica entrando come semplice broker in quella società dove in seguito aveva fatto una brillantissima carriera fino a diventarne il presidente. Sicuro di se, rapido nelle decisioni si era guadagnato la fiducia incondizionata dei clienti e l’affetto unito anche al rispetto e timore dei suoi colleghi e dipendenti. Non conosceva ostacoli di sorta e niente o nessuno al di sotto o al di sopra lo poteva mettere in difficoltà o minimamente spaventare. Di giorno. Ma nel momento in cui cominciavano a calare le tenebre, cambiava tutto completamente. Quando sia pure a fatica gli occhi cominciavano a chiudersi piombava in un mondo lontano, trasportato nel tempo e cominciava a percepire come fossero assolutamente reali i momenti vissuti quarant’anni addietro. Udiva distintamente la voce del tenente Calley che urlava: “Sterminateli tutti!”, sentiva riecheggiare sinistramente i colpi sparati dagli M-16. Vedeva le granate vomitate dai M-203 esplodere con tonfi assordanti, mentre tutt’intorno gli abitanti di quel povero borgo scappavano in preda al panico più assoluto cercando un impossibile riparo. Li guardava cadere uno ad uno falcidiati dalle raffiche di proiettili o dilaniati dagli scoppi delle bombe. Si rivide nella tuta mimetica, possente nella sua statura, avanzare facendo fuoco all’impazzata. Come in un film si vide entrare in quella capanna dove una giovane donna cercava di nascondersi. Vide i suoi occhi spalancati per il terrore, vide le sue labbra che tremavano, udì la sua voce incomprensibile nella sua lingua che però non lasciava scampo ad alcun dubbio: chiedeva pietà. Vide se stesso lanciarsi su quel corpo abusandone selvaggiamente incurante delle urla agghiaccianti e del suo pianto. Quando ebbe terminata la sua infame azione, si ricompose e in quel attimo si rese conto di ciò che aveva fatto. La donna urlava istericamente dimenandosi per terra e lui non sopportava quella visione.
“Smettila! Smettila!” le gridò ma lei niente, singhiozzava ancora più forte. Fu così che prese la sua “automatica.45” e le sparò un colpo, uno solo, per farla tacere. Dopodichè fuggì via.
Da quel preciso momento le sue notti non furono più le stesse. Per sempre. Quelle scene atroci lo accompagnavano fino all’alba e se riviveva attimo per attimo quello che avvenne quello stramaledetto 16 marzo 1968 a My Lay distretto sud-vietnamita di Son My, erano le urla di quella donna e quel terribile colpo di pistola, più di qualsiasi altro rumore per quanto forte potesse essere, che lo facevano sobbalzare nel letto, madido di sudore e tremante d’angoscia. Tutte le notti, nessuna esclusa.
La mattina successiva, mise la canna da pesca, gli stivali, un pesante giubbotto ed una piccola valigia nel bagagliaio dell’auto, salutò affettuosamente sua moglie che gli augurò buon divertimento e partì. Poco dopo arrivò all’aeroporto JFK dove parcheggiò l’auto in uno dei tanti silos, prese la valigia lasciando tutto il resto e si diresse al gate dove l’attendeva il volo per Saigon, prenotato tempo prima. Il viaggio fu molto lungo, ma Alan non vi badò, immerso com’era nei suoi pensieri. Andava incontro al suo passato, ad un tormento che non gli dava tregua, senza che avesse alcuna speranza se non quella di trovare qualcosa, nemmeno lui sapeva bene cosa, che potesse lenire in qualche modo quel dolore. Sbarcò all’aeroporto di Saigon, ribattezzata dopo l’unificazione fra Nord e Sud, Ho Chi Minh City. Si accorse immediatamente del cambiamento enorme, e non poteva essere diversamente dopo quasi quarant’ anni, che aveva fatto quella città e quel paese in generale.
Si mise d’accordo con uno dei tanti tassisti che l’avevano assediato e pattuito il prezzo si fece portare a My Lay che era distante dalla città molti chilometri o perlomeno così gli sembrarono. Gli diede il bentornato non più un povero villaggio di contadini ma una cittadina abbastanza moderna, ricca di negozi e ritrovi. Girovagò per tutto il giorno in una specie di pellegrinaggio, alla guisa di un assassino che ritorna sul luogo del delitto. Così infatti si sentiva. Alla sera, stanco e depresso si recò in un alloggio dove passare la notte. Il giorno seguente riprese il suo cammino senza meta e senza scopo, passando di bar in bar e incrociando centinaia di sguardi non più ostili come un tempo ma benevoli e sorridenti. Si sentiva svuotato d’energia, apatico, si chiese mille volte che diavolo ci facesse in quel luogo senza trovare una risposta. Il clima era caldo e afoso e si sentiva la gola secca per cui entrò nell’ennesimo locale e ordinò al barista una birra. Lo squadrò incuriosito perché a differenza degli altri non aveva i tipici caratteri somatici dei vietnamiti o quantomeno solo in parte, inoltre aveva un volto che sembrava avesse già visto chissà dove. Stanco della solitudine cercò d’intavolare con lui una conversazione, in inglese ovviamente, lingua che quasi tutti gli addetti ai pubblici esercizi parlavano ormai abitualmente.
“Mi perdoni la curiosità, ma lei è vietnamita al cento per cento? A guardarla bene non si direbbe.” Chiese con noncuranza.
“Lei non è la prima persona che me lo chiede. A dire il vero io sono nato qui, mia madre è di queste parti, ma mio padre era americano.” Gli rispose il barista, affabilmente.
“Americano?” si sorprese Alan.
“Si certo, purtroppo non l’ho mai conosciuto. Conobbe mia madre durante la guerra, e come lei mi raccontò ebbero una splendida storia d’amore. Fu ucciso in combattimento prima che io nascessi.”.
Si commosse un po’ mentre parlava e concluse, alzando le spalle. “Mi scusi, ma mi succede sempre, quando racconto questa storia.”.
Alan lo studiò bene: in effetti doveva avere sui quarant’ anni per cui tutto coincideva. Stava quasi per chiedergli se sapesse il suo nome, dopo tutto lui aveva combattuto da quelle parti per cui era anche possibile che lo conoscesse ma in quel mentre fece la comparsa una donna anziana che stava portando un vassoio pieno di bicchieri, avvicinandosi al bancone. Si bloccò fissando Alan, rimase muta per un lunghissimo istante e poi si portò una mano alla bocca trattenendo un urlo e così facendo fece cadere il vassoio con un gran fragore. Il barista notevolmente irritato le gridò qualcosa in vietnamita e poi si rivolse ad Alan:
“Chiedo scusa, signore. Mia madre me ne combina sempre di tutti i colori.”.
“Non fa nulla.” Rispose Alan turbato. Che cosa aveva visto in lui quella donna per spaventarsi così? Si chinò per aiutarla e nel farlo incrociò i suoi occhi. Mio Dio! Erano gli stessi, belli, grandi e terrorizzati di quella ragazza che ossessionava le sue notti. Ma non poteva essere lei, l’aveva uccisa, questo non se lo dimenticava certo.
Nonostante ciò le disse con voce tremante: “Tu?”
La donna sostenne il suo sguardo fieramente e gli rispose.
“Si, io!” e gli fece cenno col capo di sedersi ad un tavolino distante dal bancone dove poco dopo lo raggiunse.
Si sedette con gli occhi colmi d’odio feroce.
Alan era più che turbato, era annichilito.
“Credevo d’averti ucciso!”
“Credevi, povero stupido americano, ma mi hai solo ferito di striscio. Non dovevi essere un gran tiratore, era più facile colpirmi che sbagliare. Sono una delle pochissime sopravvissute a quell’orrendo massacro. Come avrai capito ho anche imparato il tuo idioma, a quei tempi non avrei saputo neanche da che parte cominciare, anche se non mi sarebbe servito a niente, vero, brutto bastardo!Cosa sei tornato a fare? Vuoi terminare la tua opera?”
Alan scosse la testa.
“Come hai fatto a riconoscermi?”
“ Anche se sei invecchiato e cambiato, con quell’orribile cosa che mi hai fatto, ti avrei individuato fra un milione di persone.”. La sua voce fremeva di un sentimento rancoroso represso per troppi anni.
Il barista osservava la scena da lontano un po’ perplesso e lanciò una frase a sua madre in vietnamita che gli rispose. Alan intuì, seppure non aveva capito una sola parola, che lei lo stava rassicurando che tutto era a posto, che stava solo facendo due chiacchiere con un turista.
“Lui è mio….” Chiese Alan titubante. Adesso capiva a cos’era dovuto quell’aspetto così familiare.
“NO!” la donna quasi gridò “E’ mio, solo mio! E’ stata ed è tutta la mia vita. All'inizio volevo abortire, mi ripugnava l'idea di essere incinta a causa di un atto ignobile ma poi ho cominciato ad accettarlo e poi sempre di più. Quando, crescendo, mi ha chiesto di suo padre, gli ho detto una pietosa bugia. Mai doveva sapere che era un essere abietto. Ho avuto un esistenza difficile, se vuoi saperlo, la guerra è finita trent’anni fa, ma io me la porto ancora dentro. Questo paese, il mondo è cambiato, ma non per me. Tutto questo grazie a te, lurido schifoso figlio di una cagna!”
Alan chinò il capo mentre gli occhi s’inumidirono.
“Ho passato tutti questi anni, non dormendo neanche una notte per il rimorso di quello che ti avevo fatto.”.
“Sai una cosa? Io invece li ho passati sognando d’incontrarti un giorno, a faccia a faccia con te, per poterti infilare un coltello nel petto. Se sei vivo oggi, lo devi a mio figlio, non lo avrei mai fatto davanti a lui.”. La sua ira fredda non si placava.
Alan cercò d’asciugarsi le lacrime che cominciavano a rigargli il viso.
“Non ho neppure la forza ed il coraggio di chiederti perdono, ma se solo potessi tornare indietro per cancellare quello che ho fatto…”
La voce della donna improvvisamente diventò un po’ più dolce.
“Io ormai sono vecchia. Forse chissà potrei anche perdonarti e se glielo chiedi anche il tuo Dio lo farà sicuramente, perché entrambi vediamo del sincero pentimento nei tuoi occhi. Il fatto stesso che sei qui lo dimostra. Non sei certo venuto in gita. Ci sono però due persone che mai e poi mai ti potranno perdonare.”.
Alan alzò il capo.
“E chi sono? Dimmelo, ti prego.”
“Una è mio figlio. Mai ti perdonerebbe, se solo sapesse, ma non è necessario che lo sappia. Ha già sofferto sua madre che lui tanto adora, non è il caso che soffra pure lui.”.
“E l’altra?”
“L’altra sei tu! Ho come l’impressione e non credo di sbagliarmi, che la tua pena te la porterai fino alla tomba. Non è solo quello che hai fatto a me quello che ti opprime, ma tutto ciò che tu ed i tuoi amici avete compiuto quel terribile giorno. Torna a casa, yankee. Torna a casa e cerca di ritrovare la pace, quella pace che tanti giovani del tuo paese come del mio hanno trovato qui tanti anni fa, per sempre.”.
Alan la fissò ancora una volta negli occhi, quegli occhi che non aveva mai dimenticato. Salutò frettolosamente senza guardarlo in volto, il barista, il figlio che non sapeva d’avere, che lo seguì con lo sguardo fino a che non uscì dal bar. L’indomani si recò di buon’ora all’aeroporto di Ho Chi Minh City, prese il primo volo disponibile per New York, lasciandosi alle spalle un passato che adesso era ancora più difficile dimenticare.


   
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