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Renato Attolini
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Inserito - 27/08/2010 :  17:29:38  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Renato Attolini  Replica con Citazione Invia un Messaggio Privato a Renato Attolini
Non sarà quello che comunemente si definisce un diario, perché avrei dovuto annotare giornalmente emozioni, vicissitudini e quant’altro mentre mi limiterò, sia per comodità mia sia per non annoiare troppo quei pochi che avranno la bontà di leggermi, a condensare per periodi di tempo che non avranno una dimensione predefinita. Un’unica osservazione: ci potranno essere delle contraddizioni da quanto affermato in un certo momento ad un altro successivo essendo questo non un decalogo ideologico ma un insieme di esperienze ed emozioni e come tali assolutamente variabili.
22 GIUGNO 2010, PARTENZA E ARRIVO A LIMA.
Detto questo arriviamo finalmente al giorno della partenza. Mesi e mesi di riflessioni, di ripensamenti di obiezioni sono alle spalle. Ci troviamo all’aeroporto di Milano Linate dal quale dopo un paio d’ore giungiamo a Madrid dove facciamo scalo. La cosa che mi sorprende maggiormente è che per andare da un “gate” o per dirla alla spagnola da una “ventanilla” all’altra bisogna prendere una specie di metrò che ci conduce all’imbarco per Lima impiegando circa 25 minuti. Spero ardentemente che nell’aereo ci siano tanti bambini, cosicché se la mia piccolina dovesse dare segni d’irrequietezza non sarebbe comunque la sola e l’eventuale fastidio degli altri passeggeri verrebbe spalmato con altri. Il mio desiderio è esaudito, ma come contropartita mi tocca sopportare una bimbetta che da dietro prende a calci il mio sedile per tutto il viaggio. Ad ogni modo la mia preoccupazione si rivela eccessiva perché la mia figlioletta si spazientisce solo alla fine del lunghissimo viaggio e ad ogni modo quando comincia a correre per i corridoi dell’aereo, con l’affannato sottoscritto dietro che la segue a fatica, riceve dai compagni di viaggio che ancora non dormono, solo benevoli sguardi di simpatia spesso conditi da un sorriso. D’altronde la maggior parte dei passeggeri sono peruviani e a me personalmente non mi è capitato spesso d’incontrare gente che ama i bambini come loro.
Il nostro vicino di posto è un signore spagnolo di Alicante, quel tipo di compagno di viaggio che augurerei a tutte le persone alle quali voglio bene, gentilissimo e disponibile.
Finalmente arriviamo al “ Jorge Chavez” di Lima dopo non so se 12,13 o 14 ore di viaggio alle quali vanno aggiunte le 2 del volo Milano-Madrid più la permanenza di circa 3 in quest’ultima città. Siamo nella patria di Raquel, la mia compagna e al 50% in quella di mia figlia. Mio cognato ci aspetta e dopo gli abbracci di rito ci porta a destinazione. Durante il tragitto percorriamo una lunga strada che costeggia il mare e la mia attenzione viene attirata da alcune segnalazioni che indicano la via di fuga in caso di Tsunami. Una leggera inquietudine mi pervade. Quando arrivo ho un solo desiderio prima di rifocillarmi e riposare: una bella doccia. Ma un’amara sorpresa mi attende: a causa di una perdita di petrolio (e dai!) nel vicino fiume hanno chiuso l’acquedotto. Sono già nel panico e se non fosse per mia figlia mi farei riportare subito all’aeroporto. Mia suocera, che ci ospita, se la ride. “Perù no quiere que te laves.” mi dice e mentre tutti ridono io abbozzo un sorriso stentato.
Arriva la cena, una specialità del posto: “Pollo alla brasa” con patate fritte. Ora se vi piace il pollo, dimenticatevi quello che normalmente mangiamo in Italia: questo è di un’altra dimensione. Sì lo so, stiamo parlando di pollo non di astice o aragosta ma quando vi capiterà di venire qua ed assaggiarlo allora capirete. Non per niente in questo paese hanno istituito il giorno nazionale del “pollo alla brasa” che si celebra da quest’anno la terza domenica di Luglio. Per dare un’idea potrebbe essere paragonato a quello “spiedo” nostrano con la differenza che qui è cotto al calore della brace accesa e non nei forni elettrici e in più gli animali sono ruspanti e crescono nei cortili anziché negli allevamenti.
Quando il giorno dopo arriva l’acqua caccio un urlo di gioia quasi animalesco.
Nel pomeriggio del giorno seguente andiamo a trovare una vecchia zia di mia moglie. Mio cognato si offre di accompagnarci e mentre viaggiamo per la città in un traffico che a dir caotico non rende la più pallida idea, svanisce in me la più remota possibilità che io possa affittare una macchina. Sono quasi 40 anni che guido, ma qui non girerei neanche in bicicletta. Il frastuono che si sente per le strade è quasi assordante, di poco inferiore a quello delle vuvuzelas sudafricane dei mondiali di calcio. Suonano il clacson le centinaia e centinaia di moto-taxi (qui chiamati taxi-cholo perché a guidarli sono quasi sempre ragazzi) per richiamare l’attenzione dei possibili clienti, lo suonano i tassisti per lo stesso motivo e quando uno di loro si ferma per far salire i passeggeri quelli dietro strombazzano per la frustrazione di non essere stati i prescelti e perché lascino libera la via; parimenti autobus di linea e auto normali. Si suona per tutto e spesso a sproposito e mentre da noi i diti medi fionderebbero l’aria qui tutto passa nell’indifferenza generale. Permane il dubbio che se qualcuno volesse avvisare di un eventuale pericolo (motivo per il quale è stato inventato il clacson), in che modo ce se ne accorgerebbe? Come se non bastasse, giusto per aumentare la confusione di quel tanto che basta, i controllori affacciati alle porte dei micro-bus urlano le destinazioni che il veicolo raggiunge, invitando la gente a salire con ampi gesti delle mani.
Ad un semaforo mentre per noi scatta il verde, dall’altro lato una ragazza (che da lì a poco definirò con altri termini) attraversa la strada parlando al cellulare (tutto il mondo è paese…), ci vede si blocca, decide di tornare indietro, mentre noi ci fermiamo per farla passare. L’esitazione è fatale: due macchine dietro di noi che come scopriremo dopo si stanno facendo dispetti da mezz’ora impattano l’una con l’altra e una di esse finisce contro la nostra. Della serie “tra i due litiganti il terzo ha la peggio”: è mio cognato che lamenta i danni più gravi. Passano ore fra recriminazioni, intervento della polizia, verbali vari, esami a pagamento del sangue per i conducenti per verificare il loro eventuale stato d’ebbrezza (e il palloncino dov’era?), presso una clinica convenzionata con la stessa polizia (coincidenza? Mah!). Mio cognato che è l’antitesi del piantagrane e del rissaiolo, mi comunica che farà mettere a posto per conto suo la macchina senza aspettare l’esito della vicenda. Quando, dietro mia domanda, vengo a sapere quanto gli costerà la riparazione, gli dico che in Italia il carrozziere questa cifra gliela chiede solo per fargli un preventivo di spesa. Dalla sua faccia angustiata gli scappa un sorriso.
Riprendiamo il nostro viaggio per la casa della zia di Raquel. Più passa il tempo, più lo stato delle strade peggiora e l’asfalto ormai ha lasciato spazio allo sterrato e neanche in piano: buche enormi sbucano all’improvviso e qui ci vorrebbe più che un SUV un carro armato. Arriviamo a destinazione e lo stomaco mi si attorciglia allo spettacolo che si presenta ai miei occhi: come definire quel quartiere dove mi trovo? Favela, baraccopoli? Beh, forse esagero, verrò a sapere che esistono zone più disastrate, nondimeno il pensiero che in quelle casupole dove non esiste bagno, cucina o comunque io non li ho visti, dove il pavimento è al “rustico” per usare un’espressione amaramente sarcastica, il letto è costituito solo da un vecchio materasso, ci vivono essere umani attorniati da decine e decine di cani allo stato brado, mi riesce quasi insopportabile. Mi sento triste e non perché poco prima l’Italia è stata eliminata dai mondiali di calcio, ma perché penso alle parole che proferì un giorno un giocatore della nostra squadra, Andrea Pirlo. Egli disse testualmente: “A questi livelli, un milione di euro in più o in meno d’ingaggio l’anno, non fa molta differenza.”.
Ebbene se tutti i calciatori, tennisti, corridori di Formula Uno, cestisti della NBA, nababbi vari etc, rinunciassero ognuno a un milione d’euro all’anno, per loro cambierebbe poco, ma con quei soldi si potrebbero costruire case, anche popolari, strade, strutture e tante cose ancora. Ma questa è demagogia, forse, e la demagogia non ha mai portato da nessuna parte.
Ciò nonostante la vecchia zia ci accoglie con allegria, affetto e trova pure la voglia di scherzare senza neanche un accenno alle sue condizioni. La sua dignità m’insegna la differenza che passa fra l’essere poveri e l’essere miserabili.
Lima è un agglomerato di circa otto milioni di abitanti alle quali se si aggiungono anche i cani, che come detto poc’anzi vivono per strada, il numero cresce in modo esponenziale e presenta molteplici aspetti, da quelli sopra descritti a quelli più moderni dei nuovi centri commerciali che nulla, ma proprio nulla, hanno da invidiare a quelli europei o nordamericani, anzi rimango stupito dall’efficienza e dall’organizzazione che mettono in mostra, forse noi dovremmo un po’ imparare da loro. All’ingresso addetti alla sorveglianza ti smistano per i vari parcheggi in mezzo dei quali si trovano torrette di notevole altezza dalle quali si può controllare tutta l’aera sottostante, mentre all’interno i vari negozi sono costantemente tenuti sotto osservazione da parecchi agenti della sicurezza interna. La micro - delinquenza purtroppo è una grossissima piaga con la quale fare i conti quotidianamente. Decisamente sconsigliato andare in giro con valori in evidenza: i “piranhitas” sono in agguato. Sono giovanissimi delinquenti che prendono il nome dal voracissimo pesciolino, che assalgono e depredano di tutto in pochissimo tempo la preda lasciandola quasi nuda.
Ci troviamo dopotutto nel cosiddetto “terzo mondo”, ma non se ne ha troppo l’impressione, quando si prende il “metropolitano” il nuovo servizio di bus cittadino dove ad ogni fermata s’incontrano ragazzi e ragazze col giubbotto giallo recante la scritta “Orientador” che c’indicano il punto esatto nel quale dobbiamo fermarci e ripetono incessantemente di far scendere gli altri passeggeri prima di salire e nelle ore di punta anche con l’ausilio di megafoni fanno formare nella attesa delle ordinate file che sanno più d’anglosassone che di sudamericano. Oltretutto il trasporto è gratuito fino alla fine del mese di Luglio in quanto essendo un servizio nuovo il comune di Lima lo sta offrendo a livello promozionale. Sui bus ci sono sedili di colore rosso riservati a persone anziane e donne incinta o con bambini molto piccoli al seguito e l’indicazione, che è sottolineata anche con targhette scritte in inglese, è assolutamente rispettata. Sulle strade di grossa percorrenza si susseguono cartelli che sconsigliano vivamente l’attraversamento ai pedoni se ci tengono alla loro vita e mai consiglio fu così disinteressato in quanto non è un modo di dire: le auto passano a velocità sostenuta (quando non sono bloccate per gli intasamenti) e non rallentano minimamente se un pedone incautamente ha l’ardire di attraversare la carreggiata che rischia quindi molto seriamente di essere investito.
Questo consiglio è ripetuto anche per le vie del centro da ragazzi mascherati con le facce dipinte di bianco che recano cartelli che invitano ad usare i passaggi pedonali e con tanto di fischietto coadiuvano la polizia.
Il “pueblo”, termine che sta per quartiere, dove mi trovo è una via di mezzo fra le zone lussuose e quelle poverissime: è abbastanza modesto, ma non manca nulla.
Ci si saluta tra tutti e pure io che sono straniero vengo accolto con simpatia in quanto sono insieme a Raquel cresciuta qui e che tutti conoscono. Il negoziante vicino a casa quando sa chi sono s’intrattiene amabilmente a parlare con me, mi chiede di me dell’Italia, mi presenta la sua simpatica moglie. Per non parlare delle affettuose attenzioni che sono riservate ovunque alla mia piccolina. Il calore che questa gente trasmette comincia a farmi effetto e in me si fa strada l’idea che mi trovo in un posto a dimensione decisamente umana, come ormai pochi ce ne sono in Italia e nel mondo.
Questa convinzione si rafforza quando la prima domenica che passiamo qui, mia suocera ci porta a una “peña”. Questa è una riunione in un luogo pubblico, con tanto di cibo e musica locale, il cui ricavato è devoluto per una causa che può essere un aiuto ai malati piuttosto che un altro motivo, sempre però a scopo di beneficenza.
L’intrattenitore fra una canzone e l’altra eseguita da tre musicisti di una certa età che tanto mi ricordano i cubani “Buna Vista Social Club” fa le dediche e i saluti a richiesta e una simpaticissima amica di mia suocera si fionda da lui con un foglietto con i nostri nomi. Mi sento imbarazzato, quando, citato insieme al resto della famiglia, mi alzo in piedi per rispondere all’omaggio, ma lo sono ancora di più, quando mi si mette in mano il microfono per ringraziare (tiro mancino di mia suocera). Non è quello che dico nel mio passabile spagnolo o quello che risponde il presentatore che suscita l’ilarità generale quanto il legame improvviso e sincero che vi si è creato. Quando vado via questa persona di cui non so neanche il nome, salutandomi mi abbraccia.
LARCOMAR.
Che Lima fosse una città piena di contraddizioni me n’ero già accorto, ma questa idea diventa certezza piena quando un pomeriggio prendiamo il taxi per andare a fare un giro a Larcomar. Dalle strade scarsamente illuminate e dalle case di massimo due piani, un’attaccata all’altra di Barranco passiamo in meno di un quarto d’ora a delle “avenidas” rifulgenti di luci che costeggiano palazzi modernissimi, alberghi a 5 stelle (uno di questi come mi dice mio nipote è non si sa se di Arnold Schwarzenegger
o Sylvester Stallone) e locali pieni di persone intenti a consumare i loro drink. Siamo a Miraflores, una specie di Beverly Hills. Entriamo in questo che definire centro commerciale è ampiamente riduttivo, dove si trova di tutto dai cinema multisala, ai McDonald’s, ai lussuosi negozi di ogni genere di marca europea, anche e soprattutto italiana. Faccio molta fatica a trovare nei volti della gente raffinata vestita elegantemente che frequenta il posto, i tratti somatici e gli stereotipi caratteristici dei peruviani, per cui potremmo essere tranquillamente a Parigi o a Londra, se non in Via Monte Napoleone a Milano o in via Condotti a Roma. Guardo i prezzi dei prodotti, dei cibi e delle bevande e questa sensazione è viepiù rafforzata. Anche da noi nelle metropoli c’è grande differenza fra il centro e le zone periferiche ma qui è assolutamente stridente, è praticamente un abisso. Ritorniamo a Barranco nella confusione di questo nostro popolare quartiere e i cartelli con i prezzi del cibo d’asporto (poco più di 2 euro per un quarto di pollo, una bella porzione di patatine fritte e un piatto d’insalata) ci segnalano che siamo in un altro mondo, seppure come detto primo, non molto distante da quello scintillante appena visitato.
FELIZ CUNPLEAÑOS.
Mi trovo a passare il mio compleanno in questo paese. Chiedo a Raquel se organizziamo qualcosa e lei mi risponde con noncuranza che si farà un pranzo con tutta la famiglia, un po’ di musica, le solite cose niente di speciale, solo che posticiperemo la riunione all’indomani in quanto mio cognato è di servizio. A me sta bene anche perché la sera della vigilia siamo stati fino alle due di notte a ballare, a mangiare stuzzichini con la torta perciò è come se avessimo già festeggiato. Arriva il giorno stabilito e noto dal mattino un certo movimento di gente che viene portando tutto ciò che serve per una festa anzi per una “fiesta“. La casa vive di un movimento frenetico e ovviamente all’ora di pranzo è tutto ancora in alto mare. La cosa non mi sorprende per nulla perché se da noi s’invita qualcuno, in genere si stabilisce un’ora, le tredici per esempio e se si tarda anche solo di dieci minuti, le scuse sono d’obbligo. Per questa gente non è così, gli orari sono abbastanza indicativi e non si è così rigidi sui termini: pranzo, cena li si chiami come si vuole, ci si trova e basta. Io nel frattempo come festeggiato non devo assistere ai preparativi per cui mi sono rifugiato al piano di sopra. Quando alle sette di sera è tutto pronto, scendo nella sala dove dovrebbe svolgersi quella che si era definita una riunione solo per i familiari stretti. La prima cosa che mi colpisce è vedere sulle scale un tizio per me sconosciuto davanti ad una specie di consolle per DJ al quale sono allacciati degli altoparlanti che avrebbero ben figurato all’ultimo concerto di Vasco Rossi a San Siro. Da precisare doverosamente che la casa non è grandissima, non è un buco ma neanche è di dimensioni enormi.
La sala pullula di palloncini colorati e festoni vari e la tavola è imbandita con tartine varie, mentre in cucina pentoloni pieni di “arroz con seco di pato” (sarebbe riso con anatra in umido) e piatti di patate con huancaina (salsina piccante) sono lì pronti per essere serviti. Cominciano ad arrivare gli invitati che mi vengono regolarmente presentati e mentre i baci (uno solo come d’abitudine qui) e i “mucho gusto” si sprecano, il dubbio che non sia proprio un incontro ristretto comincia ad insinuarsi in me. C’era d’aspettarselo, conoscendoli. Mentre io preparo il “Cuba Libre” per gli ospiti in attesa di stappare il pregiato spumante portato dall’Italia, un paio di dozzine di “cerveza” (birra) sono allineate come tanti soldatini. Solo che all’attacco non andranno loro, ma saranno invece assaltate e non verranno fatti prigionieri. Si mangia, si beve, si balla, ma le sorprese evidentemente non sono finite. Ad un certo punto suonano alla porta ed entrano tre individui ognuno con una sacca appresso contenente quello che scoprirò dopo. Professionalmente con serietà, le svuotano e tirano fuori, microfoni, spartiti e strumenti musicali. Guardo con gli occhi sbarrati Raquel che se la ride beatamente: ha organizzato tutto lei. Prova, prova, un dos, tres e il capobanda comincia l’intrattenimento, chiama me e tutta la famiglia che dobbiamo parlare al microfono, facendo i saluti e i dovuti ringraziamenti. Adesso sì che può cominciare il vero divertimento, eh già. Come da richiesta gli orchestrali suonano “Dos gardenias para ti”, ma non conoscono le parole perciò tocca a me cantarla col conseguente strazio per le orecchie dei presenti.
Quando stappiamo lo spumante prendo ancora la parola per dire che un compleanno così non l’ho mai passato in tanti anni di vita. Ed è la verità.

VIAGGIO A PISCO.
Sarà per l’infezione intestinale che mi costringe a letto con una febbre che sfiora i 40 gradi e dalla quale mi riprendo con molta fatica, sarà per il clima freddo e molto umido che mi sta facendo crescere i funghi nelle ossa (da precisare che in Perù l‘inverno è meno rigido, ma si soffre molto di più, complice anche la mancanza di riscaldamento nelle case) sarà per tanti motivi, ma una certa stanchezza si sta impadronendo di me. Comincia a mancarmi l’Italia, dopotutto modificando il titolo di un film di molti anni fa “This land is not my land”, questa non è la mia terra. Le notizie che provengono dal mio paese mi parlano di un caldo insopportabile con la gente che boccheggia ed io, intabarrato fino al collo, mi trovo ad immaginarmi colà a disputare una partita di tennis dalle 2 alle 3 del pomeriggio sotto un sole cocente e dopo, anziché rinfrescarmi, farmi mezz’ora di sauna finlandese.
Con questo esercizio mentale cerco d’infondermi un po’ di calore almeno a livello psicologico, però con scarsi risultati. Della cucina italiana non sento tanta nostalgia, mi sono sempre adattato a quella del paese che mi ospita anche e soprattutto per curiosità, ciononostante l’immagine della mia pizza preferita con la mozzarella filante e il pomodoro sugoso aleggia come un fantasma.
Guardo il resto della mia famiglia: mia moglie e la maggiore sono contentissime di stare qui, la piccolina si trova a suo agio come un pesciolino nell’acqua, la nota stonata sono dunque io. Me ne rammarico, ma non riesco a fare altrimenti.
Mentre cerco di rimettermi in piedi, mio cognato telefona per dirci che gli hanno rubato la macchina, appena sistemata dopo l’incidente. Questo povero uomo, davvero sfortunato, la cerca ovunque anche recandosi nei posti dove si vende refurtiva, ma senza trovare nulla. Lo chiama la polizia, un paio di giorni dopo per dirgli che l’hanno trovata a Pisco, zona sud del paese, 4/5 ore da Lima. Sembra una bella notizia e anche per fare una gita lo accompagniamo per andarla a recuperare. Ci fermiamo a Cañete dove lasciamo le donne da alcuni parenti e con altri uomini, muniti d’attrezzi, ci muoviamo per la nostra destinazione. Il viaggio, non lunghissimo, si snoda per una strada che costeggia il Pacifico con le sue grosse onde che lambiscono le spiagge, punteggiate qua e là da verdi palme che conferiscono al paesaggio un aspetto caraibico. Il sole fa capolino e mi accorgo che sono due settimane che non lo vedo e comincio a scaldarmi, anche e soprattutto dentro. Arriviamo in questa città che porta ancora i segni del devastante terremoto di tre anni fa e dalla quale partono le escursioni per le linee di Nazca, anche se quello al momento è l’ultimo dei nostri pensieri e percorrendo strade per la maggior parte sterrate arriviamo al commissariato dove è depositata l’auto. L’impressione come la vedo è quella di un pugno nello stomaco: i ladri l’hanno praticamente smantellata in decine di pezzi che non hanno fatto in tempo a vendere o a trasferirli su altre auto perché sono stati colti in flagrante. La carrozzeria sembra lo scheletro di un animale preistorico ritrovato dopo millenni. La costernazione lascia il posto alla sorpresa, quando sento i commenti degli altri compagni di viaggio che all’unisono concordano sul fatto che comunque si può rimettere a posto, rimontando il tutto. Non posso non pensare che da noi qualsiasi meccanico, in quelle condizioni, ci sconsiglierebbe vivamente quest’operazione e forse avanzerebbe pure dei dubbi sulla nostra salute mentale se glielo chiedessimo. Ma qui no, qui siamo in un altro paese, un paese, come detto, che vive di contraddizioni, e dove soprattutto si sopravvive facendo i conti quotidianamente con una malavita così ampia e diffusa che non si riesce, non dico a combattere ma quantomeno ad arginare. E’ un fenomeno che prende di mira non solo i ceti medio-alti ma anche i più diseredati nel nome di una guerra fra poveri, mai dichiarata, ma sempre viva e cruenta che conta anche numerose vittime sul campo e che mai terminerà. Basta leggere un qualsiasi quotidiano per rendersi conto che ogni giorno sono riportate notizie di morti assassinati per rapina e/o altri motivi e lettere di cittadini impauriti che chiedono protezione dalle baby-gang che imperversano per le strade seminando il terrore. Viene puntato il dito anche contro il “serenazgo” che sarebbe il poliziotto di quartiere, armato di tutto punto con tanto di cane lupo al seguito che spesso volge lo sguardo altrove, quando c’è da intervenire. La corruzione è dilagante e non è raro dover dare qualcosa sottobanco alla polizia per ottenerne l’intervento. Ad ogni modo per farsi un’idea del clima che si respira a Lima basta fare un giro fra i venditori ambulanti che espongono la loro mercanzia sui marciapiedi del centro: accanto ai classici CD masterizzati, portafogli, cinture etc. si possono trovare tirapugni, coltelli dalla lama che squarterebbe un bue, quelle specie di catene di ferro che si fanno roteare e di cui non saprei il nome, insomma il kit indispensabile per una corretta rissa da strada.
LA BUROCRAZIA PERUVIANA.
In Italia ci lamentiamo e quasi sempre a ragione delle lungaggini burocratiche che spesso paralizzano le attività. L’apparato burocratico viene paragonato, con un’appropriata similitudine, ad un grosso pachiderma animale noto oltre che per la sua mole, per la sua lentezza. Vi posso assicurare che al confronto di quella peruviana ha la leggiadria di una gazzella. Purtroppo Raquel, e di riflesso io, l’ha sperimentata più di una volta sulla sua pelle.
Giusto per citare un episodio (ce ne sarebbero tanti) prima di partire all’agenzia di viaggi ci fanno presente che una legge appena introdotta per uniformarsi agli standard internazionali, considera nulli i passaporti scritti a mano (come si usava fino a poco tempo fa) che quindi vanno rifatti con la stampigliatura elettronica. La maggiore, che ha la nazionalità peruviana, è in queste condizioni per cui ci consigliano di andare al consolato del Perù a Milano dove la doteranno di un salvacondotto col quale provvedere al rifacimento del passaporto nello stesso paese.
Ora detto così non sembrerebbe esserci nulla di particolarmente strano, soprattutto a chi non ha la minima idea di cosa significhi recarsi in quel Consolato per farsi rilasciare un documento.
Gli uffici, ubicati in zona Piazzale Maciachini, aprono alle 9 del mattino ma se non si è lì almeno per le 6 si rischia seriamente di non essere presi in considerazione. C’è gente che per prudenza fa la fila già dalle 4, all’aperto e con ogni clima e quindi anche sotto le intemperie. Un paio d’ore prima dell’apertura la coda è già considerevole e mezz’ora prima quando un addetto del Consolato esce per dare i ticket d’ingresso raggiunge le centinaia e più di persone.
“La civiltà di una nazione si misura anche dalla lunghezza delle code che impone al proprio popolo” sentenziò qualcuno ma non andate a cercare l’autore perché sono io.
Le informazioni che le impiegate forniscono sono non di rado frammentarie e anche inesatte. Una volta alla mia compagna che doveva legalizzare un documento a Lima presso la nostra ambasciata, anziché scrivere d’Italia, scrissero di Spagna. Se ne accorse solo in un secondo tempo per cui dovette rifare il tutto pagando 2 volte, anche se l’errore non era suo.
Comunque alla ragazza gli viene fornito questo salvacondotto (costo 28 euro) e con quello, accompagnata dalla madre, una volta a Lima va all’ufficio preposto per il rinnovo, dove comunicano che ci vuole anche l’atto di nascita in originale risalente a non più di 6 mesi e quello presentato, guarda caso, è più vecchio. Al Consolato per quanto ovvio non era stato fatto il minimo accenno a questo particolare. Non ne capiamo la necessità perché siamo già in possesso di un documento ufficiale rilasciato da una rappresentanza diplomatica, ma dobbiamo attenerci a questa perlomeno curiosa regola. Per cui bisogna rifarlo nella città natale che, guarda ancora il caso, dista 18 ore di pullman o 2 ore di aereo dalla capitale. Tramite conoscenze in loco ce lo mandano via agenzia (costo 20 euro circa) e così in dieci giorni arriva. Con il passaporto, il salvacondotto, l’atto di nascita ci si reca nuovamente dove fanno i rinnovi, ma stavolta dicono che l’atto di nascita, si va bene, ma essendo di persona residente all’estero va fatto legalizzare in un altro ufficio (costo 6 euro circa). Ho inserito anche il costo di queste operazioni perché l’impressione comune, che condivido, è che tutti questi intoppi li fanno per estorcere il più possibile denaro ai cittadini. A tutte queste spese ovviamente vanno aggiunte quelle dei trasporti, bus, taxi (che tutto sommato costano poco perlomeno rispetto ai nostri) perché bisogna considerare che Lima è quattro volte Roma per cui recarsi da un quartiere all’altro alle volte ci si impiega anche più di un’ora. Come se non bastasse la quasi totalità dei documenti prodotti oltre che il visto dell’ufficio competente deve riportare anche una legalizzazione effettuata da un notaio, ragion per cui se si va al quartiere di Miraflores si trovano studi notarili con la scritta bella in vista ad ogni angolo di strada.
Le cose comunque non cambiano se si deve fare un documento da spedire in Italia. Alla nostra ambasciata ci si mette in coda anche all’una di notte. Per usare un’espressione tipica di queste parti: “Que barbaridad!”
LA TELEVISIONE PERUVIANA.
Una cosa di cui non sento assolutamente la mancanza è la televisione italiana con i suoi programmi-spazzatura, i talk-show e le trasmissioni cosiddette sportive dove tutti urlano e litigano come se fossero in una bettola, anzi peggio. Intendiamoci non è che quella di questo paese sia il non plus ultra, ma quantomeno è improntata da un’aria familiare che risulta assolutamente gradevole.
Ho avuto la possibilità di seguire qualche partita dei mondiali di calcio e le telecronache condotte in maniera competente e imparziale dai due speaker attiravano la mia attenzione coinvolgendomi con il loro calore ed entusiasmo. L’urlo che seguiva alla segnatura di un gol era della stessa intensità sia che a realizzarlo fosse stato il Ghana o la Costa d’Avorio che il Brasile o la Spagna. Non esistendo gli spot-flash era lo stesso telecronista che cambiando di voce faceva la réclame ad un prodotto. Poteva anche permettersi di mandare in diretta gli auguri di buon compleanno a suo fratello con un forte abbraccio senza che questo provocasse stupore, indignazione o polemiche come sarebbe successo da noi. A proposito una piccola e magra consolazione per i colori azzurri: prima della finalissima la TV peruviana ha decretato il gol del nostro Fabio Quagliarella contro la Slovacchia come il più bello di tutta la rassegna iridata.
Siamo in Sudamerica, la patria riconosciuta delle telenovelas alle quali è dedicato un intero canale che da mattina a sera trasmette questo genere di trasmissione. Io personalmente le ho sempre detestate, nondimeno sarà per l’atmosfera contagiosa mi sono ritrovato a seguirne qualche spezzone (non di più, sia chiaro). Mi sono sempre chiesto però come facessero a farne così tante, così diverse e con tante puntate. Poi vivendo qui ho trovato la risposta: è sufficiente andare di casa in casa e chiedere come si è sviluppata la vita di chi ci abita. Ogni famiglia ha una storia così “articolata” e spesso complicata che potrebbe benissimo essere portata sul piccolo schermo e quando si è finito il giro basta ricominciare tanto nel frattempo la situazione si è evoluta.
Persino le pubblicità con la loro leggerezza riescono a strappare più di un sorriso e, particolare che mi ha sorpreso, quando il protagonista non è un attore ma un professionista o semplicemente un comune cittadino è riportato in sovrimpressione oltre che il suo nome e cognome anche il numero della sua DNI, che corrisponderebbe alla nostra carta d’identità e senza l‘esibizione della quale non ti praticano nemmeno lo sconto nei supermercati, o il codice attribuitogli per la sua attività. Molte di loro sono caratterizzate da un forte spirito autarchico, quando, per esempio, invitano a consumare prodotti o a servirsi di banche e imprese locali in modo che il paese possa crescere e progredire. “El Perù que avanza” è uno slogan ripetuto ossessivamente ovunque e d’altronde il sentimento patriottico è molto sentito nel popolo e viene alimentato anche dalla propaganda governativa. Il 28 Luglio si celebra l’indipendenza dalla Spagna avvenuta in quel giorno del 1821 e già un paio di settimane prima le strade le sono imbandierate e in ogni dove si notano cartelli con la scritta “Feliz Fiestas Patria”. Finanche i bus e le auto recano la loro bella bandierina nazionale sventolante. Una settimana prima sfilano le scolaresche in corteo con il corpo docente in testa e in ogni dove sono organizzate manifestazioni d’intrattenimento di vario tipo.
VIAGGIO A CHOSICA.
Il freddo sta diventando insopportabile, almeno per me, e non so cosa darei per stendermi a prendere il sole crogiolandomi al caldo. Il mio desiderio sembra venga esaudito perché un vicino di casa col quale stavamo chiacchierando del più e del meno ci parla di Chosica, piccola cittadina a poco più di 2 ore da Lima che gode di un clima estivo durante tutto l’anno e nella quale si possono trovare club e impianti sportivi con piscina all’aperto dove poter sguazzare allegramente. Lui ci va spesso con i suoi amici e ne parla in termini entusiastici. La notizia se da un lato mi rallegra dall’altro mi lascia alquanto perplesso. Mi chiedo, infatti, com’è possibile che a poca distanza da un luogo all’altro ci sia un cambiamento così radicale di tempo, ma comunque sia per cambiare aria che per fare una gita decidiamo di andarci, anche perché ormai i funghi nelle mie ossa aspettano solo di essere raccolti e questa potrebbe essere una buona occasione perché si asciughino.
Partiamo in taxi una mattina da Lima con un tempo che lascerebbe ben poche speranze: cielo grigio uniforme, cappa opprimente di smog e umidità, temperatura ai minimi stagionali.
Percorriamo una specie di tangenziale passando fra quartieri così malmessi che il Bronx al confronto è come Manhattan e imbocchiamo l’autostrada. Dopo un’ora abbondante di cammino non è cambiato assolutamente nulla: tempo orribile era e tempo orribile rimane e la sensazione che ci sia stato un malinteso comincia a insinuarsi in me. Non voglio pensare di essere stato preso in giro, ma certo qualcosa non quadra. La strada ad un certo punto comincia ad essere in salita e mano a mano che si sale il cielo inizia lentamente a squarciarsi e qualche timida pennellata di azzurro comincia ad intravedersi. Quando finalmente arriviamo a Chosica non vi è più traccia di nubi e di grigio e il sole splende lassù in alto. Fa caldo e sembra di essere in piena estate. Certo che questo paese non finirà mai di stupirmi: mai visto niente di più bizzarro.
Anche qui però, sia pure su dimensioni più ridotte rispetto alla capitale, il traffico è caotico e la sinfonia di clacson non conosce pause. La domanda che sempre mi ero posto e cioè come si fa in quel frastuono ad avvisare qualcuno di un pericolo o di una manovra errata trova finalmente risposta: non ci si riesce. Infatti, ad un semaforo un grosso camion che ci sta davanti sta retrocedendo senza accorgersi di noi e il tassista nonostante suoni disperatamente all’impazzata non ottiene alcun effetto perché il suo segnale allarmato si perde nella confusione generale. Fu così che il pesante mezzo dopo aver calpestato e danneggiato il cofano del taxi ripartì beato e tranquillo per i fatti suoi. Qui comincia un inseguimento, stile “Le strade di San Francisco” o “Starsky e Hutch”. C’imbattiamo in una pattuglia della polizia che, dopo aver ascoltato quanto è successo, ci dice di rivolgerci ai dei loro colleghi più avanti i quali poi ci diranno la stessa cosa. Infine il nostro autista riesce a raggiungere e costringe a fermarsi il camion e con i conducenti comincia un’animatissima discussione. All’improvviso arriva con passo svelto e cipiglio autoritario una massiccia poliziotta che però dopo essere stata messa al corrente dei fatti se ne va subito dopo invitando i contendenti a sbrigarsela fra di loro. Raggiunto a fatica un accordo sul risarcimento cui si dà luogo immediatamente, si riprende la nostra gita. Arriviamo così un po’ stressati a un “Grand Hotel” nel quale entriamo dopo aver pagato un ticket d’ingresso di 5 soles (poco meno di 2 euro). La mia perplessità (ormai è diventata cronica) sull’esiguità dell’importo è suffragata dallo stato di conservazione degli spogliatoi e delle adiacenti docce prospicienti la piscina. Per un attimo ho una sorta di flash-back e mi è sembra di ritornare ai tempi del servizio militare anche se in tutta franchezza i bagni della caserma dove mi trovavo erano messi decisamente meglio. Mentalmente mando un pensierino non troppo gentile al vicino di casa. Ad ogni modo sono in costume da bagno, il tempo è splendido, anche se tira un po’ di vento e il freddo di Lima sembra davvero lontano e tutto sommato questo è quello che conta. Posso fare finta di essere in Italia dalla quale arrivano sempre di più notizie di un caldo torrido e gioiosamente mi tuffo in acqua rischiando la paralisi in quanto è talmente gelida che si potrebbe metterci le bevande a raffreddare. Bastano però poche bracciate e tutto passa e mi godo appieno questa parentesi estiva nell’inverno peruviano.
Al ritorno per evitare problemi prendiamo un micro-bus: 3 ore per arrivare a casa fra una moltitudine di gente assiepata che aumentava ad ogni fermata, ma ormai ci sto facendo l’abitudine e di questo non so se compiacermi o preoccuparmi.


CUSCO, MACHU PICCHU - IL PERU’ TURISTICO.
Ci sono tanti bellissimi luoghi da visitare in questo paese, ma il problema che sono distanti da Lima moltissimi chilometri e solo pochi sono raggiungibili per aereo oltretutto a costi considerevoli per di più differenziati per i peruviani e gli stranieri (ovviamente più elevati per quest’ultimi). L’alternativa è usufruire del servizio pullman, ma per raggiungere la località prescelta ci si impiega un tempo enorme.
Per evitare questo disagio alla piccolina, decidiamo di comune accordo che andremo solo io e la maggiore e la scelta ovviamente non poteva che cadere sul Machu Picchu, meta famosa in tutto il mondo. In pratica venire qui e non visitarlo e come andare in Italia e non vedere Roma, Firenze o Venezia oppure Parigi in Francia.
Partiamo dai 170metri sul livello del mare di Lima con destinazione Cusco altezza 3250 metri, tempo stimato di percorrenza del tragitto circa 20 ore con un bus moderno e dotato di tutti i confort, dai sedili reclinabili a 160 gradi, alla televisione circuito interno che trasmette film uno di seguito all’altro, al servizio snack e sosta nel ristorante per la cena o prima colazione secondo l’orario di partenza inclusi nel prezzo. Le misure di sicurezza adottate ci fanno capire che ci troviamo in un paese ad alto rischio: prima d’imbarcarci oltre all’esibizione del passaporto, ci vengono prese le impronte digitali, veniamo ripresi con una videocamera e controllati col metal detector. Ad ogni modo a livello di confort è meglio dell’aereo con la differenza che quest’ultimo viaggia diritto per la sua rotta, mentre col bus ci si accorge subito alla partenza, quando l’hostess dice di allacciare le cinture di sicurezza che il viaggio non sarà poi così gradevole. Infatti a parte le prime sei-sette ore con la strada in piano e in rettilineo, s’incomincia a ballare quando il mezzo affronta in salita le curve che a volte sono così angolate che se non fosse per la cintura che ci lega al sedile si rischierebbe di finire in braccio al passeggero dell’altra corsia e non di rado cade il bagaglio a mano posto in alto negli appositi spazi. Guardando fuori del finestrino si viene percorsi da un brivido: la strada è stretta al punto che due mezzi se s’incrociano si sfiorano e inoltre rasenta il bordo spesso non protetto dal guarda rail dal quale iniziano strapiombi profondi molte centinaia di metri. Non sono rari gli incidenti nei quali perdono la vita delle persone come recentemente è capitato a quattro giovani spagnoli proprio da queste parti. Per buona sorte il buio copre molto la visuale e comunque si è distratti dalla visione delle pellicole quasi tutte di prima visione, anzi qualcuna addirittura deve essere ancora proiettata al cinema nonostante l’impresa di trasporti assicuri che i DVD sono assolutamente originali e di condannare la pirateria. Asì es Perù!
Arriviamo stravolti a Cusco, città dichiarata patrimonio culturale dell’umanità dall’Unesco, e immediatamente ci si rende conto di respirare, rispetto alla capitale, un’altra aria. Non mi riferisco solo a quella tersa e rarefatta dovuta all’altitudine accompagnata da un cielo azzurrissimo e da un caldo così intenso che sembra il mese di Giugno in Italia ma all’impronta decisamente turistica di questo luogo. Veniamo accolti da un simpatico autista che ci stava aspettando e che guidando in modo abbastanza spericolato (e qui le cose non cambiano) ci conduce al nostro albergo. Il tempo per sistemarci per un piccolo riposo e veniamo prelevati da un pulmino e condotti, insieme con altre persone, ad un giro turistico della città.
La prima visita la facciamo ad un monastero dove sono esposti reperti risalenti all’epoca Inca, ma quella che mi affascina maggiormente è quella successiva alla cattedrale della città. Già vista da fuori si viene colpiti dalla particolare bellezza e maestosità ma è all’interno che si possono ammirare opere d’arte e gli altari realizzati, come ci spiega la guida, in legno di cedro, piallati e finemente ricoperti di oro a 18 o 24 carati. Ci soffermiamo davanti a un crocefisso nel quale un sofferente Gesù di un colore molto scuro è venerato dall’intera popolazione perché a lui è legata una storia o leggenda che dir si voglia. Come riportano le iscrizioni il 31 marzo 1650 la città di Cusco fu devastata da un terribile sisma che ebbe la durata di tre orazioni (un’infinità) e non accennava a smettere. In questo lasso di tempo i sopravvissuti riuscirono a prelevare il Cristo e a portarlo fuori della cattedrale implorandolo di far cessare il terremoto che stava distruggendo tutto. Di colpo tutto si acquietò e da quel momento al crocefisso cui fu dato il nome “El señor de los temblores” (Il Signore dei terremoti) è oggetto di venerazione da tutti i fedeli che ogni anno, alla ricorrenza dell‘avvenimento, lo espongono sull’affollatissimo sagrato affinché gli sia reso omaggio.
Una piccola statua è dedicata a Sant’Antonio da Padova che è il protettore dei cuori solitari o meglio “single” per usare un’espressione moderna e diffusa e al quale ci si affida per incontrare l’anima gemella. Basta lasciare una petizione scritta per chiedere la grazia ed, in effetti, alcuni foglietti di carta si possono vedere ai suoi piedi.
Infine ci viene mostrato l’affresco rappresentante “L’Ultima Cena” ed io m’incuriosisco avendo ben presente l’opera di Leonardo da Vinci, la cui copie stampate sono presenti qui in molte case. Questa è la versione locale ad opera del pittore Mario Zapata che ha voluto darle una forte impronta peruviana ben evidenziata da due particolari: al posto dell’agnello nel piatto sulla tavola c’è il cuy che è un animale tipico di questi posti molto simile al nostro criceto e, secondo il parere generale molto gustoso (io non riuscirei a mangiarlo) e poi la rappresentazione di Giuda con il viso di Francisco Pizzarro, il conquistatore spagnolo accolto con onore e rispetto ma che con i suoi armigeri distrusse e depauperò il paese delle sue immense ricchezze e quindi considerato come un vile traditore.
Ci rechiamo dopo a visitare dei resti di cittadelle Inca, ma ormai la stanchezza sta prendendo il sopravvento e riusciamo solo a renderci conto che ci troviamo ad un altezza superiore ai 3700 metri.
Il mattino seguente sveglia presto e partenza col treno per Machu Picchu, però ci dicono che una frana ha interrotto la ferrovia ragion per cui dobbiamo andare in pullman sino a Ollantaytambo e da lì proseguire col treno. Questo è un piccolo paesino turistico dove hanno imparato bene la lezione, in quanto nei bar prospicienti la stazione (presa d’assalto dai viaggiatori che dovevano salire a Cusco) i prezzi sono paragonabili a quelli di Piazza Navona a Roma. Un così chiamato cappuccino servito in bicchiere di carta accompagnato da una specie di brioche costano quasi 6 euro. Non avendo fatto colazione ci limitiamo solo alla bevanda calda non sapendo che poi sul treno ci verrà offerto da cortesi ed efficienti addetti al servizio uno snack incluso nel prezzo. Piccolo particolare i posti sono tutti a sedere, numerati e riservati. Ci addentriamo nella selva passando tra una fitta vegetazione e dopo 4 ore arriviamo a Agua Caliente, ultima fermata dalla quale poi si prende il pulmino che dopo 20 minuti circa ci porta finalmente(è il caso di dirlo) al Machu Picchu. Una guida ci aspetta per mostrarci quella che è considerata una delle 7 meraviglie del mondo ed in effetti visitandola non si può che concordare. La definizione di questo insediamento è alquanto indefinita, si preferisce optare per una specie di tempio, completo comunque di abitazioni e costruito dagli Inca prendendo la pietra direttamente dalla montagna e trasportando solo la sabbia. Impariamo che questi antichi abitanti erano esperti di astronomia e ingegneria e che gli spagnoli non ci vennero mai perché come ci è spiegato, non senza una punta di orgoglio, sulla punta della cima più alta dove sventola una bandiera peruviana, i conquistatori avrebbero posto una croce, come loro abitudine e segno d’imposizione religiosa. Quello che comunque affascina maggiormente è lo scenario naturale: dai sentieri stretti e impervi si possono ammirare le maestosità di queste montagne e di verdi vallate che a precipizio arrivano fino in fondo dove si vedono le case e la ferrovia della stazione d’arrivo piccole come formiche. Dopo meno 3 ore di camminate e saliscendi, terminiamo l’escursione e rifacciamo il percorso inverso per ritornare all’albergo. Facendo una considerazione, abbiamo fatto fra andata e ritorno 2 giorni di viaggio con vari mezzi per visitare un posto per poche ore ma riteniamo che ne è valsa la pena e se poi aggiungiamo la permanenza a Cusco che è veramente una città molto bella e altrettanto caratteristica, non possiamo che essere soddisfatti.
LA RELIGIONE IN PERU’.
I peruviani sono per la maggior parte cattolici, ma ci sono anche forti componenti dei Testimoni di Geova, evangelisti e seguaci della Chiesa avventista del 7° giorno. Ad ogni modo seguono tutti la loro religione con tanta fede e trasporto. Quelli che propagandano il loro credo bussando alla porta delle abitazioni spesso trovano piccoli cartelli con scritte del tipo: “Este es un hogar catolico. Gracias por respectar nuestra fè” apposti da chi non è interessato ad ascoltare altre campane e non vuole essere disturbato.
Un esempio di grande partecipazione oltre a quello appena descritto riferito a quello che avvenne a Cusco è, con molte analogie, la venerazione per “El señor de los Milagros” che richiama ogni anno milioni di fedeli a Lima con un’imponente processione. L’origine di questa celebrazione religiosa, la più importante per questo popolo, risale al 1651, quando un immigrato angolano, dipinse la raffigurazione di Cristo crocefisso su una parte d’argilla della chiesa di Pachacamilla, sita in un quartiere povero la “Ciudad de los Reyes” Quattro anni dopo un violento terremoto, rase al suolo la città, seminando morte e distruzione ma risparmiando miracolosamente il muro con l’effige del Cristo. L’evento così inspiegabile, accompagnato da una serie di guarigioni miracolose e innumerevoli grazie, spinge una confraternita di schiavi a venerarne l’immagine davanti alla quale ogni notte i fedeli si riuniscono per pregare ed elevare la fede al Signore con balli e canti. La Chiesa ufficialmente non tollera questo comportamento e tenta d’abbattere il muro ma inutilmente: ogni tentativo risulta vano perché sembra che una forza misteriosa ne impedisca la distruzione. Questo fatto non fa che accrescere la devozione dei fedeli che diventano sempre più numerosi per cui il Clero è costretto ad officiare la prima messa in onore del Cristo in Croce a cui, il 14 Settembre 1671, si dà il nome di “El Santo Cristo de los Milagros” o “El Señor de las Meravillas”. Nell’ottobre del 1687 si svolge la prima processione in suo onore nello stesso tempo che Lima è colpita da un altro terribile terremoto. Né questi né quelli successivi riusciranno però a distruggere quel muro. Si decide così che ogni fine ottobre, El mès Morado, si organizzi una processione dedicata a “El Señor de Los Milagros”.
In coincidenza si svolgono in tutto il mondo, Italia compresa con Milano e Roma, analoghe manifestazioni laddove sono presenti comunità peruviane in gran numero.
LA CUCINA PERUVIANA.
Dai discorsi che si sentono in giro sembra proprio che questo sia l’argomento principale di conversazione fra la gente e la conferma viene dal fatto che a Lima almeno 6/7 negozi su 10 siano a carattere alimentare sia che si tratti di vendita al dettaglio che di ristoranti di varie dimensioni anche piccole baracche di legno dove si cucina e si asporta di tutto e di più. Anche in televisione imperversano trasmissioni del tipo “La prova del cuoco” su ogni canale e ad ogni ora ed anche in programmi di altro genere non mancano mai gli accenni culinari.
Ad ogni modo la cucina peruviana è ricca di cibi particolarmente gustosi e saporiti nella maggior parte dei quali è presente la carne, specialmente il pollo. Di quello fatto “alla brasa” si è già detto, lo ritroviamo poi in un altro piatto “principe” molto diffuso l’“arroz con pollo”, cioè insieme al riso cotto con peperoni, piselli e coriandolo (erbetta tipica sudamericana) frullato, nell’”aji de pollo” dove la carne viene sfilacciata a mano dopo la cottura e condita con una salsa piccante. Altri tipici piatti sono “arroz con pato” nel quale l’anatra sostituisce il pollo, “seco de cabrito” agnello lasciato in infusione con la birra scura insieme a verdure varie e poi cotto nello stesso liquido dopo che è stato filtrato. Ricette marinare sono il diffusissimo “Chebiche” (esistono addirittura delle “Chebicherie” ristorantini specializzati in questo cibo) dove il pesce crudo è lasciato a macerare nel limone con aglio e cipolla e mangiato così e la “Jalea” gustosa frittura di calamari, gamberoni e quant’altro.
Un discorso a parte merita il riso che viene servito in bianco e accompagna la quasi totalità dei piatti.
“Last but not least” come direbbero gli inglesi, in ultimo, ma non per questo la meno importante, anzi, è la famosissima “huancaina” salsina che prende il nome dalla città di Huancayo, a base di formaggio morbido, cracker, olio e l’“aji amarillo” piccantissimo peperone del posto che viene frullato (con gli altri ingredienti) insieme al latte per stemperare un po’ il sapore estremamente forte. Una volta pronta la si versa su patate bollite adagiate su un piatto d’insalata e servite come “entrada” ossia antipasto. La si può usare tranquillamente anche sulla carne e sul riso. Una volta la mia compagna l’ha messa sugli spaghetti al tonno che avevo cucinato e io da buon italiano ho gridato allo scandalo e alla eresia. Poi per curiosità ho assaggiato questo strano connubio e devo dire che non è affatto male.
Questi descritti sono solo alcuni piatti, quelli che reputo i più conosciuti, ce ne sarebbero tanti altri, ma ci vorrebbe un libro intero.
RITORNO A CASA - CONSIDERAZIONI FINALI.
E’ arrivato alfine il momento di fare ritorno. In verità ne sono parecchio contento, per una serie di motivi, clima in testa, ma non solo. Ho avuto parecchie difficoltà di adattamento, ma da una parte mi mancherà un po’ questo strano e contraddittorio paese che per certi versi è anche più avanzato di noi ma per tanti altri evidenzia un gap incolmabile. Non potrò mai dimenticare la calorosa accoglienza l’affetto e l’attenzione che mi hanno riservato i parenti della mia compagna ma anche la simpatia che mi hanno mostrato tante persone. Molte cose mi hanno fatto sorridere come la televisione in alcune banche che trasmette “Candid camera” per intrattenere i clienti in coda (quando ci sono andato io potevano far vedere anche “Via col vento” data la lungaggine delle operazioni), al modo di chiamarsi fra di loro quando non si conoscono con epiteti tipo “amigo/amiguita” o spesso, secondo la corporatura, flaco o gordo. Questi ultimi tradotti stanno rispettivamente per smilzo o grasso e non posso fare a meno di pensare che da noi se ci si rivolgesse così a uno sconosciuto nella migliore delle ipotesi verremmo invitati a una maggiore educazione, quella stessa educazione che unita a una certa affabilità è presente in moltissime persone del posto che ti salutano e ti rivolgono la parola con garbo anche se non ti conoscono.
Tante cose non mi sono piaciute, la malavita assai diffusa, l’andare in giro sempre con la preoccupazione che ti possano aggredire e derubare oppure come ho visto con i miei occhi l’estrema povertà di alcuni sobborghi e di villaggi sperduti nelle campagne o nelle montagne dove la gente lava ancora i panni al fiume o alle fontane.
Tutto viaggia comunque a ritmo di “cumbia” (tipico ballo locale) e anche di salsa e merengue, di telenovelas, di gossip sui personaggi famosi che riempiono con titoloni le pagine dei giornali, mentre magari alla morte nella selva di 40 bambini per il freddo è dedicato solo un trafiletto.
Volverè? No sé! Tornerò? Non lo so, francamente non lo so e se dovessi consigliare questo viaggio non saprei cosa dire, questo è un argomento troppo soggettivo. C’é chi ama l’avventura, il rischio ed è disposto a sopportare anche dei disagi, c’è chi ama vedere posti nuovi senza rinunciare al confort, insomma c’è troppa diversità di gusti. Se un amico però mi chiedesse un parere disinteressato, gli direi di andarci ma, se ha una buona disponibilità economica, con un tour organizzato dall’Italia così in un breve tempo riuscirebbe a visitare quasi tutti i luoghi più importanti e meravigliosi di questo paese venendo trattato benissimo in quanto gli addetti al turismo peruviani sono gentilissimi e molto efficienti. Penso che tornerebbe con l’impressione di essere stato in un mondo apparentemente fantastico che in verità non è o perlomeno solo da una parte della medaglia. Per chi come me ha vissuto per la maggior parte del tempo il rovescio, o per meglio dire la vita reale di tutti i giorni apprezzerà e terrà in maggiore considerazione quello che ritroverà una volta tornato nel nostro paese.
Comunque si guardino le cose ogni viaggio con i suoi aspetti positivi e negativi è un’esperienza che arricchisce culturalmente e che aiuta ad ampliare i propri orizzonti. L’emozione provata visitando un luogo si rafforza nel ricordo, che spesso diventa nostalgia, conservandosi nel tempo e rinnovandosi guardando una fotografia, un filmato o ascoltano il suono di una lontana litania.

   
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