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 Il principe Artù (favola)
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Renato Attolini
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Inserito - 08/01/2004 :  21:56:41  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Renato Attolini Invia un Messaggio Privato a Renato Attolini

Il principe Artù, unico erede di una gloriosa dinastia che da secoli regnava nelle terre di Cam, passeggiava meditabondo e solitario nei prati circostanti il castello reale. Fare lunghe camminate e perdersi negli immensi boschi aspirando a pieni polmoni l’aria frizzante di quei luoghi baciati dalla natura era il suo passatempo preferito sin da bambino, soprattutto quando qualcosa gli rimuginava nel cervello.Pensava alla sua vita, al suo nome scelto dai suoi genitori, Re Franz e la Regina Morgana, in onore del più celebre monarca sperando che un giorno potesse emulare le sue gesta. Pensava che aveva proprio tutto: bellezza, ricchezza, potenza. Un giorno avrebbe governato lui quel regno, non poi così grande, ma che gli sembrava enorme. Spesso si chiedeva. “Sarò all’altezza d’essere chiamato <Sua Altezza>?” per poi rispondersi. “Siamo realisti, non lo sarò mai!”. Questi giochi di parole lo divertivano tanto, ma nessuno li apprezzava al di fuori di lui. Qualche volta aveva provato a farli, durante i cerimoniosi banchetti reali, ma aveva incontrato solo lo sguardo gelido dei suoi genitori e l’accondiscendenza benevola ed ossequiosa dei cortigiani, per cui ci aveva rinunciato. Sovente si sentiva incompreso, inadatto al ruolo che ricopriva e più di tutto era cosciente che stava percorrendo un cammino già tracciato da altri. A tal proposito, quel giorno un pensiero l’opprimeva più degli altri ed era quello del suo futuro matrimonio. Com’era consuetudine fra quelle nobili genti non aveva scelto lui la sua sposa ma gli era stata imposta da ragioni di stato che gli sembravano oscure ed incomprensibili. La prescelta era una bellissima principessa di un regno assai lontano del quale non sapeva quasi niente, se non che era abitato da gente molto povera ma era ricchissimo di minerali preziosi. Con ogni probabilità, pensava, questo c’entrava qualcosa col suo matrimonio. Aveva incontrato la principessa Marisol in più di una occasione e lei si sera immediatamente invaghita. Era un tipo dal temperamento focoso e dal carattere oppressivo ed invadente e più lei gli stava alle costole, più lui cercava d’allontanarsi senza riuscirci. Il giorno dopo ci sarebbe stato a corte un ricevimento in cui si sarebbe dato ufficialmente l’annuncio delle nozze fra Artù e Marisol. Il solo pensiero pesava come una montagna sul suo animo. Non vedeva più nessuna via d’uscita!
Arrivò il fatidico momento ed il palazzo brulicava di gente d’ogni specie giunta a fiumi per la gran festa: nobili, cavalieri, giullari, maghi e fate. Artù con al braccio Marisol si aggirava dispensando sorrisi di circostanza e cordiali cenni col capo a tutti coloro che s’inchinavano al loro passaggio. La sua mente vagava miglia e miglia lontano, ciò nonostante la sua attenzione fu attirata da una fatina bionda con gli occhi azzurri come il mare che lo fissava con assoluta devozione. Le dispensò un sorriso caldo e sincero accarezzandole dolcemente il viso e suscitando lo sguardo furioso e geloso di Marisol.
Ad un certo punto Re Franz fece un gesto con la mano e tutti tacquero. “Mie Dame, signori Cavalieri, miei nobili amici….”esordì. Il discorso che seguì fu lunghissimo: ringraziamenti, convenevoli e poi l’annuncio del fidanzamento del principe Artù. Gli applausi e gli evviva esplosero fragorosamente ovunque. “ E adesso” concluse il Re “La parola al futuro sposo ed al futuro Sovrano”. Artù si guardo attorno: tutti lo fissavano ansiosi ed impazienti, pendendo dalle sue labbra. Non sapeva bene cosa dire, gli venivano in mente solo idiozie o frasi fatte che la sua indole sincera mai gli avrebbe fatto pronunciare. Incontrò lo sguardo della fatina: lei lo fissò e gli sussurrò qualcosa che non riuscì a capire. Subito dopo si sentì molto meglio e notevolmente più forte.
“Cari amici…” cominciò, schiarendosi la voce. Quel che disse poi gli risultò strano persino alle sue orecchie, era come se un’altra persona stesse parlando al posto suo, nondimeno era quel che sentiva dentro.
“Cari amici, sono assolutamente contento di vedervi qui tutti. Sono altrettanto assolutamente desolato di darvi una grossa delusione, soprattutto a voi, miei cari genitori e a te cara Marisol” disse guardando in faccia ad uno le persone che aveva nominato. Tra il pubblico non volava neanche una mosca: tutti zitti, agghiacciati lo ascoltavano.
“Il fatto è che……..non sono pronto per sposarmi. Il fatto è che….Marisol” le disse fissandola negli occhi “Marisol, mia cara, io non ti amo! E pertanto non me la sento di sposarti!”.
Dopo un attimo di silenzio, si scatenò il putiferio. Tutti parlavano, gridavano esterrefatti. La Regina ebbe un malore e fu subito soccorsa. Re Franz cercò di riportare la calma, ma invano. Marisol era allibita. Fissò Artù, livida in viso, per alcuni istanti. Poi esplose. “TU….TU….” gridò mentre lo indicava con la mano tremante e i lunghi capelli neri ondeggiavano come se sospinti dal vento. ”TU…TU, COME HAI POTUTO FARMI QUESTO!!!!! Non sono mai stata così umiliata in vita mia! TU…TU, PAGHERAI A CARO PREZZO LA TUA INFAMIA!!!” ormai da livida era diventata paonazza in volto. “Tu, maledetto, lurido verme!” la sua voce, ora poco più di un sussurro, era fremente, sdegnata “Tu, non sai, non puoi sapere che nel nostro paese, tutte le donne, siano esse nobili che popolane, imparano fin da piccole l’arte della stregoneria.” Chiuse gli occhi, aprì le braccia, rivolgendo il capo verso l’alto e gridò nuovamente. “ORA, IN VIRTU’ DEI MIEI MAGICI POTERI E CON L’AIUTO DELLE FORZE DEL MALE, CONDANNO TE, PRINCIPE ARTU’, AD ESSERE TRASFORMATO IN CARNE ED OSSA IN QUELLO CHE SEI GIA’ NELL’ANIMA: UN CANE!”. Tutti urlarono spaventati, la Regina che si era ripresa da poco, svenne nuovamente e con lei anche il Re. Un urlo si levò più alto degli altri. “NOOOOO!!!!!!!!” Era la bionda fatina che avanzò minacciosamente verso Marisol. “NOOOO!!! MALEDETTA STREGA!!!”
In Artù, nel frattempo, si stava verificando una strana metamorfosi. Si sentiva sempre più debole e più piccolo: le sue mani, le sue gambe si stavano trasformando.
La fatina si rivolse prima verso Marisol, poi verso Artù. “IO NON HO LA POTENZA DI QUESTA STREGA, NON POSSO ANNULLARE IL SUO MALEFICIO. POSSO PERO’ MODIFICARLO. UDITE TUTTI QUANTI: ARTU’ RIMARRA’ UN CANE FINO A QUANDO NON S’INNAMORERA’ VERAMENTE E SINCERAMENTE DI UN ALTRO ESSERE UMANO. A QUEL PUNTO TORNERA’ AD ESSERE IL PRINCIPE ARTU’!”
Al suono di queste parole, Marisol proruppe in una sarcastica risata. “Povera illusa! Quello non è capace d’amare nessuno. Forse s’innamorerà di una cagna come lui. Rimarrà un cane per l’eternità!” Dopodiché se n’andò, altezzosa e sprezzante, urtando tutti coloro che si trovavano incautamente sul suo passaggio.
Artù alzò gli occhi e quel che vide lo lasciò sgomento: tutte le persone attorno a lui erano diventate più alte, mentre se abbassava lo sguardo la terra era incredibilmente più vicina, il suo corpo non lo vedeva più, le sue mani erano sparite ed al posto delle gambe c’erano delle zampe. Cercò di urlare, ma dalla sua gola uscì solo un guaito. In preda al panico, scappò via, seminando il terrore generale. Passò per caso davanti ad un grande specchio e finalmente capì: l’immagine riflessa non era più la sua, ma al suo posto c’era quella di un cane, orecchie lunghe e pelle chiazzata, un bel esemplare di cane ma pur sempre un cane. Marisol si era vendicata, il sortilegio si era compiuto!
Fuggì via dal palazzo, correndo per quei prati dove fino al giorno prima passeggiava tranquillamente, quando ancora era un uomo. La disperazione e il rimorso per il dolore che aveva arrecato ai suoi genitori gli attanagliavano il cuore! Che cosa avrebbe fatto, adesso? Quale sarebbe stato il suo futuro? Domande alle quali non sapeva trovare una risposta. Giunse la notte ed Artù era infreddolito ed anche affamato. Si mise al riparo di un albero e cominciò a piangere. Che strano suono aveva il suo pianto! Sembrava più che altro un ululato. La luce di una candela brillò nell’oscurità e udì il rumore di passi pesanti si avvicinavano a lui. La paura lo faceva tremare più del freddo. Intravide il volto baffuto d’uomo possente che teneva in mano un grosso bastone. Artù non tentò neanche di scappare: se quello era il suo destino, la morte, tanto valeva che si compiesse. Meglio farla finita e subito. Dopo qualche istante che gli sembrò eterno e quando ormai era preparato al peggio sentì una voce baritonale che gridava.
“Marianna, corri, vieni a vedere!”
Artù vide una seconda candela che fendeva il buio e la sagoma di un donnone che correva ansimando. Quando s’avvicinò la sentì prorompere in un’esclamazione:
“Oh, povero caro! Guarda, Cecco, com’è bello! Vieni, tesoro, vieni da Mariannuccia tua!”
Artù si trovò catapultato in alto come una foglia sospinta da un uragano, ma non era una brutta sensazione: due braccia enormi lo tenevano stretto ad un petto gigantesco mentre una voce stridula, tutta il contrario della corporatura dalla quale proveniva, lo coccolava teneramente. “Povero piccolo! Sei tutto infreddolito! Vieni dentro al caldo che ti prepariamo subito una bella zuppa.”.
Fu quello l’inizio di una nuova vita per Artù. Erano finiti per sempre i tempi dei banchetti, delle cerimonie di corte, delle feste danzanti. Non più vestiti costosi in pura seta, non più sontuose camere e lenzuola di finissimo lino. Al loro posto una casetta nel bosco, due contadini, grossi come una montagna con un cuore pari alla loro stazza, che lo trattavano come se fosse loro figlio e tanta, tanta libertà. C’erano altri cani nelle vicinanze ed Artù fece presto amicizia con loro. Il giorno passava rincorrendosi l’uno con l’altro nei campi ed alla sera quando rientrava erano feste a non finire: Cecco e Marianna gli facevano trovare sempre una scodella col cibo caldo e lui prima di ingurgitarlo si avventava su loro leccandogli le facce e suscitando le loro grasse risate.
Questa nuova dimensione non era male tutto sommato, ma una cosa lo turbava: il pensiero dei suoi genitori. Spesso si avvicinava al palazzo e non visto s’intrufolava dentro. Sentiva i discorsi e i commenti dei cortigiani che parlavano ancora di quello che era successo quel giorno famoso e ciò che udiva gli faceva accapponare la pelle. Quanta falsità, malignità nelle loro parole! Girovagava per le stanze dove tempo prima tutti s’inchinavano al suo passaggio. Adesso, invece, cercava di non farsi notare riuscendoci quasi alla perfezione, giacché conosceva ogni remoto angolo del castello. Il suo scopo era quello di vedere almeno un attimo i suoi genitori. In questa ricerca, assisteva involontariamente a scene che mai si sarebbe aspettato che si verificassero fra quelle mura, aveva udito cose che non avrebbe mai voluto sentire. Poi qualcuno si accorgeva di lui e lontanamente pensando che fosse il principe diventato cane lo cacciava via. E così diventava sempre più difficile vedere i suoi. Solo una volta di sfuggita li scorse in lontananza. Mio Dio, com’erano invecchiati! Più che camminare sembrava si trascinassero, appoggiandosi l’un con l’altro ed il loro sguardo era triste, vuoto. Lacrime di rimorso gli scesero dagli occhi mentre un dolore lancinante gli squarciò il petto. Perché, perché, si domandò? Perché doveva finire così? Da quel momento le visite al castello si fecero sempre più rare, fino a scomparire del tutto.
Un giorno che giocava nei prati vide una persona che gli si faceva incontro: era la bionda fatina! Artù le corse incontro festoso e lei lo abbracciò teneramente: “Mio principe, mio dolce principe. Che gioia rivederti!” gli sussurrò mentre lo accarezzava dolcemente. “Vedrai, io ti libererò dall’incantesimo e staremo insieme per sempre.” Artù manifestò la sua contentezza scodinzolando allegramente.
Le visite della bionda fatina divennero un’abitudine quotidiana. Artù tralasciò la compagnia dei suoi amici, passando tutto il tempo con lei. Lei lo faceva sentire bene, gli parlava, lo accarezzava, si dedicava completamente a lui.
Un giorno gli disse: “Mio principe, devi sapere che non appena tornerai uomo, in quel momento ti verrà chiesto di fare una cosa e dovrai farla subito per sconfiggere definitivamente il sortilegio.” Artù non capì molto bene, ma non gl’importò. Quello che adesso gli stava a cuore era stare vicino alla sua fatina: ormai non poteva più fare a meno di lei.
Passò ancora parecchio tempo ed Artù sentiva crescere dentro di sé non solo un sentimento nuovo, sconosciuto, ma anche il desiderio di tornare uomo.
Arrivò finalmente il momento in cui si rese conto di essersi completamente innamorato della fatina. In quel preciso istante avvertì un’intensa emozione e sentì il suo corpo pervaso da una sensazione stranissima, come se un vulcano si fosse impossessato di lui.
Le sue membra, i suoi arti furono invasi da un turbinio di fremiti e palpiti: capì che qualcosa si stava trasformando nel suo essere.Vide piano piano che quel simpatico e giocondo cane stava tornando quello che era un tempo: un uomo, un principe. Questo fa l’amore, si disse! Guardò la fatina e le sorrise, ma in quel mentre una voce, dolce ma decisa , gli parlò: “Ecco sei ritornato quello che eri, l’amore ha spezzato l’incantesimo, adesso se vuoi che questa trasformazione si realizzi per sempre, avvicinati ala fatina e baciale per tre volte sulla bocca, dopodiché sarai uomo finché avrai vita, ma attento!, se non lo farai subito tornerai cane e non avrai più nessuna possibilità di cambiamento!” Artù s’avvicinò allora alla fatina e le prese le mani, la guardò negli occhi e le porse le labbra per baciarla, ma in quell’attimo fu distolto dal gioioso abbaiare di due cani che si rincorrevano giocando in un prato. Si ricordò di quelle corse gaie e spensierate, della libertà sfrenata di cui godeva, ma soprattutto si ricordò delle brutture, delle meschinità e delle cattiverie di cui era capace il genere umano ed alle quali aveva assistito, semplice spettatore, senza neanche poter parlare ed esprimere tutta la sua disapprovazione, perché a quelli come lui non era stata donata la parola. Quante volte, si ricordò, si era chiesto perché definivano bestie quelli come lui e non quegli esseri a due zampe che tanto si vantavano della loro intelligenza e superiorità e poi erano capaci delle più infide bassezze? Pensò anche a Cecco e Marianna due dei pochi umani degni di quel nome, che lo avevano accolto in casa come un figlio, senza chiedergli e imporgli nulla. Pensò anche alla fatina che lo aveva amato davvero e si sentì in colpa. La guardò, le chiese perdono con gli occhi, lasciò le sue mani e non la baciò.


   
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