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 Sognando l'africa
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July
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Inserito - 03/08/2005 :  13:45:06  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a July
Sognando l’Africa

La notte scorsa, ho sognato di tornare in Africa…

Viola sussultò.
Si era appena beatamente assopita nel silenzio tombale del vecchio edificio un po’ diroccato che fungeva da guardia medica, quando il campanello squillò.
Non era stata una giornata pesante, a dire il vero: qualche medicazione, un bambino con l’orticaria, un’anziana signora con la febbre, e i soliti tre o quattro pazienti che nella settimana avevano scordato di farsi ricettare i farmaci d’urgenza dal proprio medico curante.
Così Viola aveva trascorso la domenica in maniera abbastanza serena, sfruttando gli sprazzi di tempo per studiare; una volta che le visite si erano fatte più rade, la sera, aveva acceso il televisore; e poi, di tanto in tanto, si era messa a sognare.

Sognare l’Africa.

Ricordava come in un film la trafila fatta l’anno prima per arrivarvi. Il viaggio in aereo, l’arrivo sotto il sole cocente, il frastornante tragitto all’interno di un pullman straripante di persone, nella strada bianca, sconnessa e sassosa, che li avrebbe condotti al villaggio.
Le case, che non erano case, ma capanne, erano sempre vuote, mentre le strade brulicavano di gente; di mamme coi bimbi piccoli in braccio, con le guance incavate e le gambette smagrite che uscivano dalle balze colorate delle gonne; di vecchie coi fazzoletti in testa; di bambini che correvano, scalpitanti, verso di lei, non appena la vedevano.
Non poteva dimenticare il colore piceo della loro pelle nuda, gli addomi sformati, il segno delle coste che solcava i loro piccoli toraci; ma, soprattutto, l’immensità dei loro occhi. Quegli occhi grandi e scuri, che si posavano su di lei domandandole tutto, ma allo stesso tempo inesorabilmente muti.
Ricordava il loro sguardo grato quando li curava, i loro baci affettuosi, il loro accento tropicale mentre le parlavano di loro.
Ma ora queste mille sfaccettature non erano che ricordi, seminascosti negli anfratti del suo cuore, che di tanto in tanto facevano capolino dentro lei per ricordarle cos’era la vita. Si, perché laggiù, Viola aveva avuto la sensazione di cominciare a vivere per la prima volta.

Del resto, che cos’è la medicina qui da noi?

Era la domanda che una volta si era posta.
E aveva concluso che non era niente.
Un insieme di operazioni imparate a memoria che sanno fare tutti, che fanno tutti e che se pure non si facessero, non cambierebbe nulla. Si, perché non è la malattia, da sola, a uccidere l’uomo; è la debolezza del fisico, l’invalidità delle difese immunitarie. E’ la mancanza di cibo; anche poco, che invece abbonda, in maniera quasi vergognosa, nelle tavole dei paesi che stanno bene.

Viola pensava a queste cose, e intanto camminava verso la porta.
Aprì.
Era William, un ragazzo noto a tutti i medici di guardia; sapevano che era tossicodipendente, come sapevano che era innocuo.
Era alto, magro, e portava impresso sul braccio destro un enorme tatuaggio a forma di sirena. Indossava un paio di jeans e una canotta nera che doveva aver gia contato almeno quattro primavere.

“Buonasera.”
“Ciao, William.”

Viola lo fece entrare, e lo condusse nell’ambulatorio. Appoggiato al muro, sulla destra, c’era il lettino; al centro della camera era collocata una vecchia scrivania in legno, sulla cui superficie erano allineati i timbri ed i ricettari della Guardia.

“Cosa c’è, William?” domandò Viola.
William esitò.
“Allora, cosa c’è?” domandò nuovamente, con un sorriso, Viola.
“Mi servono soldi.” Fu la breve risposta.
“Cosa?” Viola aggrottò le sopracciglia.
“Ho detto che mi servono soldi.”
La voce di William si era fatta più pesante.
“E vieni chiederli qui? Chiedili ai tuoi genitori.”
“No. Non me li daranno.”
“Bè, allora non so che dirti.”
Una frase semplice, che doveva avere lo scopo di liquidarlo. Invece, non fu così…

William fece correre la mano destra nella tasca posteriore dei calzoni, alla ricerca di qualcosa che Viola aveva omesso di notare nonostante la sagoma sporgente …

“Arrivederci – annunciò con aria contrariata Viola, alzandosi per accompagnare alla porta il paziente – ti accompagno.”

Con la rapidità di un fulmine, il ragazzo mostrò la mano che teneva dietro la schiena, dopo aver estratto dalla tasca un coltello….

Viola vide la lama luccicare nell’aria, e per un attimo ebbe l’impressione di cadere. Si appoggiò alla scrivania, deglutì. William si stava avvicinando a lei, ed ella si ripeteva che non doveva avere paura.
Non le avrebbe fatto nulla di male, non era il tipo.
E intanto i suoi passi, lenti e pesanti, simili a quelli di una pantera nera, si facevano strada verso di lei, e accorciavano la distanza frapposta a loro.

“Metti via quell’affare, William. Bada che non scherzo.”
“Ho bisogno di soldi.” Rincalzò lui.
Ora le era proprio vicino. Viola era appoggiata al margine della scrivania, e si chiedeva se facesse o no sul serio. Cercava di scrutare nei suoi occhi verdi, alla ricerca dell’adolescente che tante volte aveva aiutato, ma esso sembrava non esserci più. L’unica cosa che leggeva, in quegli occhi, era odio. Odio allo stato puro. E rabbia.
“Se…se te ne vai subito – Viola esitò, perché si accorse che la voce le tremava – ti prometto che non dirò niente. Non ti denuncerò, non…”
“Vuoi darmi i soldi!!??”
La voce di William, impregnata di disprezzo, fu quasi come uno schiaffo librato nell’atmosfera carica di tensione. Viola sobbalzò, e d’istinto fece uno scatto in direzione della porta.

Ma fu solo un attimo.
William la afferrò per un braccio, ed ella oppose resistenza. Sentì il dolore trafiggerle la carne prima ancora di accorgersi del luccichii dell’arma brandita verso di lei…

“Ho detto che voglio i soldi!!”

Parole intrise di cattiveria che riempivano la stanza come trame di un’enorme, sudicia ragnatela, e Viola le udì, mentre lentamente prendeva atto dell’inesorabile gesto
la lama che si calava sulla sua bianca pelle
non era possibile, no, non stava capitando a lei…
là, proprio là, nella dolce curva fra i suoi seni
era il peggio del peggio moltiplicato all’infinito
e sprofondava nella carne
fu come essere trapassata da una valanga di ghiaccio…
e poi spezzava lo sterno
freddo, gelido come il ghiaccio…
e il sangue sgorgava, copioso, imbevendo la camicetta nera e diffondendosi tramite rivoli sulla pelle candida
e poi successe un’altra volta, e un'altra volta ancora
i pensieri si affollavano come immagini confuse e annebbiate nella mente stordita di Viola, che ormai non distingueva più il sogno dal vero. I volti sorridenti dei bambini dell’Africa le si pararono innanzi, come un velo pietoso steso sopra la coltre di orrore
fino a quando il dolore ebbe la meglio, e la tramortì.

Viola piombò per terra, con lo sguardo perso nel vuoto.

Gli abitanti del paese si ammucchiavano come mosche attorno all’edificio dalle mura percorse da crepe, il cui giallo sbiadito era reso ancor più tetro dall’uggiosità del cielo. La polizia si faceva largo tra la folla, facendo il possibile per porre il veto al passaggio dei curiosi.
Non appena David riuscì varcare la soglia della guardia medica, una ventata di odore nauseante lo travolse: era l’odore del sangue invecchiato di due giorni, misto a quello della polvere del pavimento sul quale aveva ristagnato.
Ma quando vide lei, sdraiata sul pavimento in una pozza rosso scuro, col petto attraversato da un’orrenda breccia scavata con crudeltà feroce, e gli occhi vitrei spalancati in un’espressione di stupore, e il sangue che le si rapprendeva fra i capelli castani, si arrestò.
Fu come ricevere una tempesta di pugni, calci, schiaffi e quant’altro.
Tutti assieme.
Duri, spietati.
Lei era lì, esanime. I suoi sogni, le sue speranze, la sua stessa vita, erano stati demoliti da un destino crudele, o da una mano spietata, chissà…

….Sognava di andare in Africa…

….e chissà cos’hai pensato, povera Viola, mentre te ne andavi. Forse avrai pensato ai tuoi amici africani, o forse a tua madre, o ai tuoi fratelli, o forse ai mille volti che ti hanno sorriso quando nel tuo lavoro hai teso loro una mano pietosa...

…e di dedicarsi anima e corpo agli altri…

….e di colpo non esisteva più niente, attorno a lui. Né i muri, né i mobili, né il soffitto; erano stati tutti quanti ingoiati dal nulla, dopo esser stati derubati della loro forma e dei loro contorni. Persino il tempo aveva cessato il proprio ineluttabile scorrere.
Lentamente, come un automa, si chinò, e prese fra le sue la manina gelida di Viola.

FINE

Giuliana carta

   
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