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 La cosa più bella della mia vita
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July
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Inserito - 19/06/2005 :  11:35:11  Mostra Profilo  Replica con Citazione Invia un Messaggio Privato a July
La cosa più bella della mia vita

La porta si aprì, ed un ventaglio di luce dispiegò le sue trame, sottili e brillanti, sul pavimento avorio tenue, forse un po’ troppo sobrio, della piccola stanza che dava sul cortile. L’odore dell’aria che ristagnava da settimane, e quello della polvere accumulata nelle fessure fra le pianelle, e sulle superfici della mobilia, erano lì pronti ad avvolgere quanti coloro si fossero addentrati nel minuscolo pezzo di mondo, la colombaia orfana che da tempo impreciso trasudava dolore, null’altro che dolore. Clarissa si affacciò, e con un’occhiata, fulminea e profonda assieme, abbracciò le immagini intrise di ricordi – lontani, amati ricordi – alle quali di lì a poco avrebbe detto silenziosamente addio.
Per sempre.
Aveva tanto soppesato quella decisione, e ne era passata di acqua sotto i ponti da quando l’aveva per la prima volta partorita, per poi rimuginarvi attorno con una modalità quasi ossessiva.
Aveva dato tempo al tempo, ma il tempo l’aveva tradita; o, perlomeno, questo era ciò che Clarissa, in cuor suo pensava, pentita di aver confidato che il destino, o Dio, o più semplicemente gli anni a venire, le avrebbero restituito la felicità dapprima strappatale con una violenza feroce. Ma adesso, di quella felicità passata, non le rimaneva che una pietosa memoria, racchiusa dentro l’armadio verde, verde pastello, dalle cui ante il cerbiatto bambi la scrutava, coi suoi occhi grandi e inquieti che da sempre le ispiravano un misto di tenerezza e pietà.
Tutto era incominciato sette anni prima. Clarissa aveva trent’anni, faceva il medico in un Pronto Soccorso ed era sposata con Marco. Suo marito faceva l’ingegnere, ed erano sposati da sei anni; un anno dopo il matrimonio era nata la loro figlia, alla quale avevano dato nome Miranda, per poi ribattezzarla, due giorni dopo, Randie.
Clarissa ricordava, come dentro un film, il giorni in cui Randie era nata; gli occhi pieni di calore di Marco, le sue parole spezzate, confuse, immerse fra i vagiti provenienti dalla nursery, un tentativo goffo, e assieme dolce, di esprimere la propria gioia; le rose, dono affettuoso dei parenti e degli amici, che riempivano gli sfondi bianchi dell’ospedale.
E’ la cosa più bella della mia vita, pensò Clarissa, ed era talmente felice che temeva che la felicità le potesse volar via di mano da un momento all’altro, e dissolversi in aria, come una bolla di sapone. Ma ancora non immaginava, certo, l’amara sorpresa che l’aspettava; lo scherzo macabro, il tiro mancino che la vita le avrebbe giocato. Il peggiore dei suoi incubi, avrebbe pensato un giorno, e poi ancora dieci, cento, mille volte peggio….
E nel frattempo Randie cresceva.
Come per magia Clarissa, seduta sulla sponda del letto, chiudeva gli occhi e vedeva le immagini della sua bella bambina che giocava con lei, o che dormiva, o che faceva il bagnetto; e semmai un volto aveva rivelato il cuore affranto di una madre, quello era il suo volto in quei momenti, pieni di amarezza e di solitudine.
Randie cresceva, e aveva gli occhi castani come quelli del padre, i capelli ramati come quelli della madre e come costei, il volto spruzzato di lentiggini. Una volta le aveva chiesto perché gli altri bambini dell’asilo avevano il volto pulito, senza quelle strane macchie che avevano loro due, e Clarissa era rimasta un po’ turbata. La bimba gliel’aveva chiesto mentre ella la vestiva con una tutina stampata a elefantini, e mentre lo diceva i suoi occhi erano grandi e pieni di perché, inquietanti proprio come quelli di bambi. Allora, Clarissa le aveva detto che le raccontava un segreto; il segreto era che quelle macchie altro non erano che i coriandoli che le fate lanciavano, la notte, sui visi delle bambine fortunate. Il viso di Randie si era illuminato, e Clarissa si era sentita pervadere da una sensazione di calore del tutto inusuale. E aveva pensato che era buffo come, con i bambini, potevi far felice loro e te allo stesso tempo, con un gesto piccolo così, qual’era appunto quell’innocente frottola delle fate.
Clarissa smise di poter usufruire dei permessi speciali per le neo-mamme, decise di assumere una baby sitter. La scelta cadde su una ragazza straniera, Ovedis, che la conquistò per i suoi modi gentili e il suo carattere solare. Così, mentre lei faceva i turni in Pronto Soccorso, Ovedis giocava con Randie.
Randie voleva molto bene a Ovedis, e anche Marco e Clarissa finirono con l’affezionarsi a lei. Così decisero di invitarla a cena il giorno del 6° anniversario del loro matrimonio.
Quella sera, Clarissa affettava la lattuga per l’insalata, e dal forno elettrico giungeva il profumo delle lasagne, mentre Marco apparecchiava e Randie giocava in giardino con la bicicletta. Era una sera di inizio settembre e le giornate cominciavano ad accorciarsi. L’aria era ancora calda, ma una brezzolina fresca cominciava a smuoverla dal suo tepore inerte.
Ovedis giunse da sola, vestita con un tubino nero che ne valorizzava il vitino sottile, coi capelli bruni raccolti sulla nuca e una catena d’oro bianco che le ornava il petto scoperto. Clarissa ricordò di essersi chiesta come facesse a possederla, viste le ristrettezze economiche in cui la ragazza versava; si chiese se fosse un regalo dei suoi datori di lavoro precedenti, e se fosse il caso di farle anche lei un bel regalo.
Chiacchierarono un pò, mentre finivano di preparare la cena.
Poi Marco si affacciò in cortile per chiamare Randie.
“Randie, amore. La cena è pronta.”
Randie non rispose. Ovedis e Clarissa uscirono fuori, e videro la bicicletta rossa rovesciata sull’asfalto, seminascosta dall’oscurità che calava. Clarissa aveva il cuore in gola: non era mai capitato che Randie si allontanasse senza prima avvertire lei o il padre.
Marco si precipitò verso l’interruttore generale, e uno dopo l’altro i lampioni allineati nel cortile si accesero come lucciole.
Tutt’intorno, vi era la campagna. La casa era circondata da una siepe, e la dimora più vicina distava cento metri da loro.
“Randie, dove sei?” gridò Marco.
“Randieee! Per l’amor del cielo, rispondi!!”
Marco e Ovedis si voltarono verso Clarissa, la quale senza accorgersi aveva cominciato a piangere. Marco corse verso di lei e l’abbracciò.
“Va a chiamare la polizia, Ovedis!” ordinò Marco.
“No è troppo presto? – domandò la ragazza – Perché non cerchiamo ancora noi?”
Marco si fermò a pensare, ma ben presto, il corso dei suoi pensieri venne interrotto dalla voce di Clarissa, che ridotta a un filo sottile, mormorava:
“La mia bambina…rivoglio la mia bambina…”
Le ore che seguirono, per Clarissa, furono come un sogno. Negli anni a venire, avrebbe sempre serbato, di quei momenti di angoscia successivi alla scomparsa di Randie, ricordi nebulosi, slavati, quasi un amalgama di visi, immagini e voci tra loro stranamente intrecciate. Marco che usciva, frenetico, con la pila in mano e il volto preoccupato, ma non ancora devastato, Ovedis che le accarezzava i capelli sussurrandole di calmarsi, e poi la polizia che arrivava, le domande dei poliziotti, infine, l’orrenda frase.
“Apriremo un’indagine, signora. Sua figlia è scomparsa.”
Gli occhi verdi di Clarissa si erano sgranati in un’espressione di efferata selvaggia, le sue braccia si erano inarcate come le zampe di un animale della giungla; mamma lupa infuriata alla quale qualcuno aveva strappato dal grembo il cucciolo che teneva stretto a sé.
Di colpo, le erano tornate alla mente le parole di Ovedis, che con una calma placida – si, era vero, calma lo era sempre stata, ma era forse quello il momento di mantenere la calma? - aveva in qualche modo ritardato l’arrivo della polizia. E ricordò gli articoli di cronaca che parlavano di ragazze straniere che derubavano, e a volte uccidevano, i propri datori di lavoro; e dicevano tutte le volte che queste persone erano ragazze insospettabili; e intanto la gente veniva decurtata dei suoi averi, e picchiata e uccisa, e chissà quant’altro ancora, alla faccia di chi come lei si fidava e le accoglieva in casa come sorelle.
Volse uno sguardo pieno d’odio e di rancore verso Ovedis, la quale rabbrividì sentendosi osservata con tanto astio, e domandò con voce acuta:
“Cosa hai fatto alla mia bambina?”
L’attenzione generale si puntò verso di lei. Sul viso della giovane baby sitter comparve un’espressione dilaniata dallo stupore…
“Io non ho fatto niente….” Mormorò Ovedis.
“Cos’hai fatto alla mia bambina!!!?- inveì Clarissa con ira funesta – Marco voleva chiamare la polizia, e tu hai detto che era presto! Volevi solo ritardare le ricerche!!”
“Calmati, Clarissa – intervenne Marco – Lei era qui con noi….”
“C’è qualcuno alleato con te, straniera!”
Clarissa si lanciò, furibonda, sopra Ovedis, e le mollò un ceffone. Ovedis vacillò, rischiò di cadere su un lato, ma Clarissa la trattenne afferrandola per un braccio. Ovedis sentì le unghie della donna che l’aveva accolta in casa propria come una sorella conficcarsi nella sua carne olivastra; il dolore fu come una spina che le si infilava nel cuore, ed un gemito le si levò a spirale dalle labbra carnose.
“Dimmi dov’è mia figlia, o ti ammazzo…” minacciò Clarissa.
Subito sentì due braccia – forse quelle dei poliziotti - cingerle i gomiti. Con la forza venne allontanata da Ovedis. Vide le lacrime comparire sugli occhi della straniera, e la osservò mentre lentamente si portava la mano sulla guancia offesa; su quella guancia, arrossata, che in preda alla rabbia ella aveva colpito, traboccante di odio. Ma neppure questo servì a placare la furia devastante che in quel momento Clarissa sentiva si divampare dentro e che sentiva scorrerle nelle vene come uno stallone selvaggio.
Poi, avvertì come la presenza di un velo che le si stendeva innanzi, e le immagini della gente che l’attorniava divennero in un istante vaghe e slavate. Non seppe mai se successe per la rabbia o per il dolore, i sensi vennero meno, e cadde svenuta.
Le ricerche proseguirono per tutto il giorno successivo, e per quello dopo, e per quello dopo ancora. Ma non ci fu nulla da fare.
Era come se Randie fosse stata ingoiata dal ventre oscuro della notte.
Ci fu un’inchiesta, Ovedis fu tra gli indagati, ma non ne venne fuori nulla. Nulla che la potesse incriminare.
Clarissa si ammalò di depressione, e per quasi un anno fu assente dal lavoro. Non riuscì, per quasi un anno, ad entrare nella stanza della figlia, e la prima volta che lo fece, dopo tanto tempo, si rannicchiò e pianse per ore; pensò che non era possibile soffrire così tanto, si domandò se da qualche parte, anche lontano, sua figlia sentisse ciò che provava, e si ricordasse di lei; com’era possibile provare un sentimento così forte per qualcuno senza che questo qualcuno potesse, in qualche modo, percepirlo.
Si alimentò di ricordi.
Il ricordo delle colazioni assieme, del profumo dei biscotti e del latte caldo, di lei e Randie che facevano il bagno, e poi Randie che le asciugava i capelli col phon, e Marco che arrivava e le baciava entrambe.
E mentre pensava a tutte queste cose, le rimbalzava in mente, con angoscia esasperante, una domanda: c’era qualcuno in qualche angolo del mondo, anche lontano, che aveva visto una bambina dai capelli castani e il volto zeppo di lentiggini – i coriandoli delle fate, aveva detto lei - e si era ricordato di averla già vista nelle immagini stampate sui cartelli affissi nei muri delle città, e aveva chiamato la polizia per avvisarla? Qualcuno aveva tanta pietà?

La pietà, Clarissa la leggeva negli occhi dei suoi interlocutori, giorno dopo giorno.

“Non so se possa consolarti – le aveva detto una volta la sua amica Sara – ma da quando Randie…è scomparsa non ho ancora dormito una notte intera di fila. Mi sveglio di soprassalto nel cuore della notte con la sensazione che Mirko sia sparito, con la paura di non trovarlo più nella cameretta…”
Clarissa aveva sollevato su di Sara uno sguardo carico di desolazione, e aveva risposto:
“Io, invece da quando Randie è scomparsa non faccio che uscire e cercarla nei volti di tutte le bimbe che incontro per strada. Mi sembra di vederla in ogni angolo, specie nei volti delle piccole zingare vestite di stracci. Mi domando se mia figlia adesso sia una di loro.”

Adesso, seduta sulla sponda del piccolo letto dove Randie dormiva, Clarissa si domandava se fosse arrivato il momento. Da tempo lei e Marco erano andati a vivere in un’altra casa, cosicché questa non era altro che un santuario, ormai. Un santuario che accoglieva, come in un grembo, i frammenti minuti di una vita durata cinque anni, e poi chissà….forse rapita, o forse….
Clarissa frenò il flusso impetuoso dei propri pensieri, e uscì.

Erano passati altri sette anni.
Marco e Clarissa si erano separati, Marco viveva con un’altra donna, di vent’anni più giovane, e assieme aspettavano un bambino. Clarissa era diventata primario del reparto di Pronto Soccorso in cui lavorava da quindici anni, adesso ne aveva quarantaquattro e viveva da sola. Non era cambiato quasi niente. Di Randie non aveva mai saputo nulla e ogni giorno continuava a chiedersi dove fosse. Avrebbe avuto diciannove anni.

La folla sciamò nel vasto corridoio dell’aeroporto, trainando valigie e borsoni, un clan immenso di persone approdate dal volo partito da Barcellona.
Clarissa camminava con lo sguardo basso, nascosto dietro gli occhiali da sole, trascinando con sé una valigia rossa fornita di rotelle. Le voci dei grandi e dei bambini si fondevano in una musica di parole incomprensibili, mentre lei stava assorta, in silenzio, nei propri pensieri…
“Mamma, cosa sono queste?”
“Te l’ho già detto, amore. Sono i coriandoli delle fate.”
“Randieee!” urlò Clarissa voltandosi di scatto, e vide dietro di lei una giovane coppia con un bambino. La ragazza aveva i capelli biondi e il viso lentigginoso, e questo fu l’unico dettaglio degno di nota. Sia lei che il compagno guardarono Clarissa sorpresi.
Clarissa sentì il cuore bombardarle il petto come un martello pneumatico impazzito. Un dolore acuto, mai provato prima di allora, le affiorò nel petto, dipartendosi nel dorso e nelle spalle e costringendola a inginocchiarsi per terra.
I due giovani la guardarono accasciarsi senza capire ciò che le stesse accadendo; neppure Clarissa lo comprese, benché avesse gli strumenti per farlo, perché il male che provava era talmente intenso da avvolgerle la coscienza come in un velo, e farle sentire i sensi che venivano meno…
Proprio come il giorno in cui Randie è scomparsa
pensò, mentre lentamente le immagini della gente attorno a lei si facevano indistinte, e i loro contorni si fondevano, e le voci si allontanavano e rimbombavano nella sua testa.
Allungò il braccio, e lo protese, verso la ragazza che la osservava, cercò di dire qualcosa, mentre i passeggeri accorrevano a frotte attorno alla sua persona che si afflosciava per terra.
Fu solo un attimo.
Poi non ci fu più niente.

Giuliana carta

   
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