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 "El cigarro del suerte" - prologo e 1° appunto
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Renato Attolini
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Inserito - 30/01/2004 :  21:40:19  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Renato Attolini  Replica con Citazione Invia un Messaggio Privato a Renato Attolini
“C’è sicuramente di meglio e di peggio al mondo che vivere a Cuba. Ma niente che gli somigli: Niente che valga questo desiderio e questa disperazione. Niente che dia tanto struggimento a chi qui non c’è mai venuto e niente che lasci tanta nostalgia a chi non se n’è mai andato.”

Tratto dal libro ”Vedi Cuba e poi muori” Fine Secolo all’Avana, a cura di Danilo Manera. I Canguri/Feltrinelli.

EL CIGARRO DE LA SUERTE
Disordinati appunti di viaggio.

PREFAZIONE.

Quello che troverete in questo libro non è un romanzo né tantomeno un saggio. E’ il racconto di varie esperienze vissute in terra di Cuba attraverso la voce di un cuore che da questa terra è stato “toccato”. Chi è stato in questi luoghi e n’è rimasto affascinato, può capire. Queste righe non sono altro che un insieme di “disordinati appunti di viaggio” che qualche volta si ripeteranno, forse un po’ sconclusionati ma che esprimono un sentimento d’amore verso un’isola, verso un mondo. Vuole essere un omaggio a questa terra a quanti l’amano veramente e perché no, un invito a quanti non l’hanno ancora vista a volerla conoscere in tutti i suoi aspetti.
Dedico questo libro a mia madre, che accompagnava ogni mio viaggio a Cuba con un sorriso e che ascoltava per ore i miei racconti quando tornavo. Sono sicuro che anche adesso sta leggendo queste righe.

PROLOGO.

La cosa che mi riesce quasi impossibile è far capire alla maggioranza delle persone che mi ascoltano i veri motivi che mi hanno spinto a fare tanti viaggi a Cuba. Il commento freddo, laconico col quale sono liquidato è invariabilmente: “Ci vai per turismo sessuale!” Cerchi di spiegare che così non è, che sei attratto dall’atmosfera, dal calore unico che la gente emana, ma non c’è verso! Le donne ti guardano con aria di compatimento come per dirti: ” Ma devi andare fin laggiù per fare quella cosa?”, gli uomini ammiccano, ti danno di gomito facendoti capire che a loro non gliela dai a bere. Pazientemente, quasi giustificandoti, ammetti che se si presentano delle buone occasioni non è certo obbligatorio, ma forse vale anche la pena d’approfittarne, ma affermare che si va a Cuba solo per il sesso è alquanto riduttivo é come dire che si visita Parigi solo per Pigalle. Niente da fare, ci rinuncio. Mi prendo la fama di “turista sessuale” e come tale sono bollato, tenendo per me le mie sensazioni custodite come in uno scrigno segreto. Poi ti capita di parlare con qualcuno che c’è stato. Qualcuno, mi spiego meglio, come dicevo nella prefazione che è stato “toccato”. Sì perché succede a tanti di andarci, di divertirsi e commentare quando tornano con frasi del tipo “Si, bello ma le Maldive sono un’altra cosa.” Oppure “L’Avana? Che schifo! E’ un cumulo di rovine!” oppure “Che donne! Però la Tailandia è meglio.” Queste persone hanno visitato questo paese come avrebbero fatto con qualsiasi altro posto al mondo, usando lo stesso metro di giudizio, con gli occhi di un turista “tout court” senza andare a fondo. Non è una colpa la loro, è semplicemente una scelta e come tale rispettabile. Ma chi non si è fermato alle apparenze, chi si è lasciato soggiogare dal fascino che quest’isola esercita alla stregua del canto suadente di una sirena, quando gli parli di Cuba ti lancia uno sguardo carico d’intesa come se avesse incontrato qualcuno appartenente allo stesso “clan”, alla stessa setta o meglio alla stessa famiglia. Ci si ritrova d’incanto, immediatamente, sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda. Cadono improvvisamente tutte le barriere, tutti i formalismi. Il barista che con distaccato rispetto ti serve il panino abbandona repentinamente il “Lei”, quando scopre che anche tu sei del “clan”, per apostrofarti con un “Hei amigo, que tal?” ed essere ricambiato con un “Muy bien compañero, y tu? La tua cara amica che ha sempre ascoltato i tuoi resoconti di viaggio con tiepido interesse, quando ritorna dal suo primo viaggio ti confessa che ora comprende appieno quel tuo entusiasmo smisurato che forse prima snobbava, e dal tono di voce capisci che anche lei è stata ammaliata.
Ma adesso è il momento di aprire il diario dei ricordi.


1° APPUNTO: UNA AVENTURA LOCA.

A volte capita nella nostra vita che, in un momento particolare, una certa situazione emotiva, un qualcosa d’indefinito ci spinge a prendere iniziative, a fare cose che a mente fredda il solo pensiero non sfiorerebbe nemmeno l’anticamera del nostro cervello.
Succede, per esempio, quando ci si trova catapultati a 10.000 chilometri di distanza dalla propria casa, dal proprio mondo, magari trascorrendo le vacanze in un paese tropicale, contagiati dall’atmosfera speciale che anima quei luoghi tanto diversi da quelli in cui viviamo. E’ quello che è capitato a me alcuni anni fa. Mi trovavo a Cuba e come succede a tanti conobbi una “chica” con la quale passai momenti piacevoli. Arrivò il momento della separazione, in quanto lei, secondo un copione ben studiato e sperimentato molte volte, inventò una scusa per tornare a casa sua. Reperire un mezzo di trasporto, se sprovvisti di contante, non è facile in quel paese, così vedendola in difficoltà, non esitai ad offrirmi di accompagnarla, prendendo quel tipo di iniziative sopra accennato. Sì perché particolare di non secondaria importanza, ci trovavamo vicino a L’Avana e la “chica” abitava in Ciego de Avila, distante più di 500 chilometri. Certo avrei potuto darle i soldi per il viaggio, ma così sarebbe stato troppo semplice, perché rinunciare al gusto di complicarsi la vita?
Ora a qualcuno sarà capitato, anche se ne dubito fortemente, di offrirsi di accompagnare un amico o amica dall’oggi al domani da, mettiamo, Milano a Roma o viceversa per fare ritorno il giorno successivo, ma consideriamo il non trascurabile fatto che la distanza fra queste due città è percorribile tramite una comoda autostrada ben asfaltata, disseminata qua e là di numerosi autogrill dove rifocillarsi, riposarsi e fare tranquillamente un pieno di benzina. Non è esattamente la stessa cosa a Cuba e vediamo il perché.
Come dicevo, offro il passaggio a lei ed a una coppia di suoi amici, o forse dovrei definirli complici ma questo è un altro discorso, che abitano nella sua stessa città. Ha così inizio un’avventura “Cuba on the road”. Si parte un pomeriggio a tarda ora su una macchinetta giapponese noleggiata da me, ovviamente, carichi di bagagli, musicassette e rum. Da L’Avana parte una cosiddetta autopista che attraversa il paese la cui entrata non è difficile trovare, ma i miei “amici” mi fanno fare un giro strano attraverso paesini dai nomi quasi impronunziabili su strade dove forse servirebbero mezzi anfibi o carri armati piuttosto che comuni automobili, il che suscita in me una certa apprensione circa la consistenza del manto stradale dell’autopista che ci apprestiamo a percorrere. Sono rassicurato in proposito sull’assoluta mancanza di buche nonché del perfetto stato della strada, ma dopo averne percorso pochi chilometri mi viene voglia di chiedere come chiamano a Cuba quelle specie di crateri che ogni tanto devo evitare con improvvise sterzate.
In ogni modo l’atmosfera è allegra. Laura Pausini ed Enrique Iglesias cinguettano dalla radio mentre i miei compagni si passano tra loro una bottiglia di rum dando lunghe sorsate. Rifiuto cortesemente quando arriva il mio turno: la strada mi sembra già abbastanza pericolosa e non mi pare il caso di percorrerla in stato di ebbrezza. Passiamo attraverso campagne sconfinate dalle quali un qualsiasi animale può tranquillamente uscire e pararsi davanti all’improvviso. Il rischio di fare un incidente con una mucca già di per sé traumatizzante lo è ancora di più se penso che in questo paese l’uccisione di questo quadrupede è punita con 25 anni di reclusione. Se dovesse succedere decidiamo di divorarla per non lasciare tracce. Calano le prime ombre della sera, mentre fosche nubi si addensano nel cielo. La visibilità comincia a scarseggiare e le mie preoccupazioni aumentano di pari passo per trasformarsi in evidente nervosismo quando il buio è totale. Nonostante ciò riesco ancora a schivare le buche anche se all’ultimo momento, ma ad un certo punto sento un gran sussulto: l’auto è passata sui binari del treno. La mia sorpresa è tale che mi sorge spontanea una domanda circa quella che per me è un’autentica novità sia per l’ubicazione (dopo tutto stiamo percorrendo una specie di autostrada) sia per la totale assenza di passaggi a livello. Anche in questo caso sono tranquillizzato: il treno passa quasi sempre di giorno pertanto è visibile alla distanza. Quel “quasi” mi piace davvero poco.
Penso che in queste condizioni un banale guasto potrebbe trasformarsi in un vero e proprio problema: le stazioni di servizio sono rarissime e pattuglie della polizia, in altri momenti così temute dalle “chicas” e da chi le accompagna, non se ne vedono proprio. Se questo fatto è spiegato con gran gioia dai miei compagni cubani a me procura un brivido lungo la schiena.
La mia inquietudine è notata da Rolando, così si chiama il ragazzo, che si offre di sostituirsi alla guida: non sono stanco, ma un po’ di riposo non può che farmi del bene. Rolando si mette al volante rivolgendosi a me che mi sono accomodato dietro e candidamente mi chiede: “Donde està la primera?”. Dov’è la prima? “Lascia andare, guido io!” gli dico con tono molto apprensivo, ma lui insiste: ”Non ti preoccupare, non sono abituato alle macchine straniere, però so guidare.”. Dopo varie “grattate” l’auto parte procedendo a “zigzag”, fra le mie urla. Sono decisamente allarmato e come se non bastasse un furioso temporale si abbatte su di noi. La visibilità è a zero e l’auto passa dal bordo destro della strada costeggiante la campagna a quello sinistro urtando il cosiddetto spartitraffico. Le imprecazioni che ho lanciato fino a quel momento stanno lentamente trasformandosi in preghiere. Rolando finalmente riesce a guidare in modo lineare. Vediamo un’auto sulla corsia di sinistra che mi sembra stia procedendo molto, troppo lentamente: gli dico di stare attento, ma lui non si accorge che è completamente ferma. Se ne rende conto quando sente le mie urla disperate. Intanto i conducenti di quella vettura stavano placidamente cambiando una ruota.
In qualche modo arriviamo a Santa Clara, storica città simbolo della rivoluzione cubana che vide il trionfo di Ernesto Che Guevara nella battaglia conclusiva ma i miei pensieri al momento sono di tutt’altro genere, anche perché abbiamo smarrito la strada. Non so più dove sono, non so più che ora è, non so da quanto tempo siamo in viaggio, non so più niente: il mio nervosismo sta crescendo a dismisura. Ritroviamo il cammino perduto e incontriamo una specie di chiosco aperto. Sono disposto a pagare un patrimonio per un caffè, ma il barista mi dice: “Lo siento señor, pero no tenemos cafè.”. Ho quasi voglia di piangere, però reagisco e ingurgito un hamburger: sempre meglio che niente. La mia attenzione viene attirata da due ragazze al di là del bancone, che sedute una di fronte all’altra completamente immobili si guardano in faccia mentre attorno a loro il personale del chiosco è indaffaratissimo a servire gli avventori. Chiedo spiegazioni circa il loro strano comportamento, anche perché le avevo scambiate per due cameriere, all’altra “chica” che viaggia con noi, la quale mi spiega che le ragazze stanno aspettando l’alba per andare a lavorare in quanto trovarsi in giro di notte è estremamente pericoloso. “Perché ?”, chiedo ingenuamente pensando che nella Cuba rivoluzionaria gli agguati e le aggressioni siano scomparse del tutto. Dalla risposta mi accorgo dell’errore di valutazione in cui sono incorso: il pericolo è sempre presente e le donne che sono in giro da sole corrono seri rischi. Non me ne capacito, ma la ragazza di cui non ricordo bene il nome, mi spiega con la stessa tranquillità con la quale mi racconterebbe che le hanno rubato un pacchetto di sigarette, che è stata violentata tre volte e mi mostra il segno infertole con un coltello sulla mano da parte di un suo aggressore.
A questo punto il panico si è completamente impadronito di me: mi rendo conto di essere di notte nel mezzo di un paese che credevo di conoscere ma che così non è, lontano migliaia di chilometri dalla mia casa, lontano anche da qualsiasi “cosa”, non so altro come definirla, che mi possa aiutare in caso di pericolo, in compagnia di persone che fino a una decina di giorni prima non sapevo neanche chi fossero, in definitiva dunque degli sconosciuti che potrebbero aggredirmi, derubarmi di tutto e lasciarmi stordito, o forse anche peggio ed abbandonato. Queste preoccupanti considerazioni potranno sembrare ridicole o forse eccessive ma in quel momento mi sembravano reali. Cominciavo a nutrire seri dubbi circa la mia sopravvivenza a quella notte. Credo di aver pregato. Con i nervi tesi allo spasimo, tenendo d’occhio i miei compagni, pronto a captare qualsiasi movimento strano da parte loro e a soccombere solo dopo aver dato battaglia fino allo stremo, riprendiamo il viaggio con me alla guida. Dopo un po’ vedo un cartello: Ciego de Avila 165 Km. La tensione comincia sciogliersi: siamo quasi arrivati, ho gridato per quanto assurdo possa sembrare.
Non tutti i guai sono finiti, però, perché mi accorgo che la benzina è quasi esaurita e uno dei pochi punti di rifornimento l’abbiamo superato da poco. L’autopista è terminata e ci stiamo addentrando in paesini deserti dove incontriamo una stazione di servizio chiusa, dove però ci fanno il pieno di benzina di contrabbando, molto indicata se si desidera viaggiare a “singhiozzo”.
Arriviamo finalmente a destinazione: tempo impiegato nove ore circa. Passo quello che resta della notte ospite della “chica” in una casa di campagna dotata di “comodi” servizi, quali bagno, se così lo vogliamo chiamare, ubicato in cortile e cucina a petrolio, ma la stanchezza ha il sopravvento. Poche ore di sonno e al mattino il sole fuga tutte le paure e tutte le tensioni.
Il viaggio di ritorno alla luce del giorno sembra una passeggiata: Cuba splende in tutta la sua bellezza e i brutti pensieri sono ormai un ricordo. Riaffiora l’amore per questa terra così speciale e tutto appare diverso rispetto al giorno prima.
Perché ho chiamato “complici” i miei compagni di viaggio? L’ho saputo dopo, ma non ha più importanza, anche questo fa parte del gioco.


   
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