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 Point of Purchase (POP) L'arte in divenire
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Pop? arte in divenire

di Daniele Tirelli, presidente di POPAI Italia

Parlare del punto di vendita costituisce un’occasione per una riflessione sullo stato dell’arte del marketing in generale. Infatti, nel retail marketing non esiste ancora quella classica dicotomia tra ‘sapere accademico’ e ‘sapere esperienziale’ che invece caratterizza, ormai da mezzo secolo, il ‘marketing di prodotto’. Intendo dire che per quanti sforzi possano fare i ‘teorici’ della materia, i fenomeni legati ai vari luoghi di vendita sono talmente mutevoli e dinamici e così peculiari in ogni specifica situazione che l’erezione di quei grandi sistemi concettuali che normalmente ingabbiano il sapere economico è praticamente impossibile. Per quanti sforzi si facciano è difficile parlare con competenza di commercio senza conoscere specificamente le tradizioni, i formati di vendita, i vincoli amministrativi e le caratteristiche umane e psicologiche di una clientela fondamentalmente eterogenea. Nessuno può negare infatti che la vendita del medesimo prodotto (un capo d’abbigliamento, una bevanda, ad esempio) sostanzialmente immutato nel tempo, quando avviene in luoghi e con modalità e prezzi radicalmente diversi resta fondamentalmente un mistero. Se per comodità, parlando degli ‘ambienti’ in cui avviene uno scambio economico, usiamo la parola ‘marketing’ ciò accade per un bisogno di semplificazione. Tuttavia se con ciò intendiamo riassumere tutte le conoscenze circa la relazione tra il ‘prodotto’, il ‘servizio’, l’‘immagine’ ed il mercato di riferimento, allora è facile concludere che ben difficilmente possiamo condividere i medesimi assiomi per interpretare il sistema distributivo. Anche se tanti sono restii ad ammetterlo è in crisi il ‘paradigma’ fondamentale su cui si sono basate le strategie di quasi tutte le aziende, ovvero l‘idea che esista una netta prevalenza dell’attività mentale razionale degli individui rispetto all’insieme delle loro pulsioni pressoché inesprimibili e delle loro scelte istintive. Posti di fronte ad un numero crescente di alternative per cui utilizzare il proprio reddito disponibile, i consumatori divengono sempre più difficili da comprendere.


Acquirenti o consumatori?

Ciò nonostante prevale ancora una visione tardo-modernista che dà per scontata l’esistenza di un insieme pre-determinato di preferenze che una volta analizzate e comprese permettono attraverso tecniche specifiche di adeguare ad esse l’offerta del prodotto. Eppure la scarsità dei risultati ottenuti negli ultimi anni e il sospetto sempre più forte è che la figura degli ‘acquirenti’ si distingua sempre più nettamente da quella nebulosa e generica dei ‘consumatori’. Ci troviamo insomma di fronte a un semplice dilemma, così riassumibile: gli individui che osserviamo agiscono per ‘razionalizzazioni ex-ante’ come vuole l’ipotesi modernista prevalente? O invece rispondono a istinti che vengono dal profondo e poi si costruiscono le loro ‘razionalizzazioni ex-post’? In poche parole, siamo davvero sicuri che un cliente che entra in un negozio (uno qualunque) abbia prima immagazzinato con una certa esattezza il significato e il contenuto di un messaggio pubblicitario, poi stabilito di avere un certo bisogno o desiderio e quindi che abbia consapevolmente deciso di recarsi in quel negozio per cercarvi una soluzione? Se crediamo a questa ipotesi, siamo portati a concludere che la risposta più efficiente è e resta il supermercato come lo conosciamo. Esso presuppone l’esistenza di un individuo perfettamente informato di tutte le qualità e di tutti i prezzi di tutti i prodotti, e capace, al pari di tutti gli altri, di reperire le merci che più desidera in reparti tutti uguali, ben ordinati per quanto freddi ed anonimi. Se invece crediamo che la “vita interiore” degli individui odierni sia ben più ricca e complessa di quanto presuppone l’approccio micro-economico, allora possiamo spiegarci l’ampia varietà di formule commerciali e la loro enorme ricchezza estetico-simbolico-funzionale. Il modello fondato sulla perfetta razionalità vive una crisi evidente che nasce dal confronto tra due mondi (quello dei produttori e quello dei distributori) ormai governati da logiche sempre più divergenti. Certamente non mancano sgangherate pseudo-teorie che pretendono di conciliare l’inconciliabile e cioè, da un lato, l’esigenza di industrie sempre più grandi ed efficienti che devono convogliare un flusso inarrestabile di merci standardizzate in contesti che ci si rifiuta di credere siano ormai saturi e, dall’altro, il dramma della distribuzione che fronteggia (a causa di una concorrenza sempre più dura) la perdita di valore di questi prodotti massificati che intasano i limitati spazi a disposizione senza conferire alcun segno di distinzione ad un’insegna rispetto alle altre. Si è dimenticato, cioè, che anche il supermercato era in origine un luogo di grande suggestione, indipendentemente dalla sua indubbia funzionalità.


Il valore della diversità…

Ciò nonostante l’attività commerciale è in grado di inventare quotidianamente soluzioni alternative per sconfiggere la monotonia e per sfuggire ad un appiattimento che le sarebbe letale. Semplificando dirò che questo accade sostanzialmente in base a due approcci. Il primo è la libera invenzione di luoghi di vendita diversi da quelli conosciuti. Giusi Scandroglio lo ha chiamato ‘fusioni-con-fusioni’, vale a dire un continuo rimescolamento delle regole canoniche che tengono separate le merceologie e i servizi offerti. Allora tutto ciò che si muove nel ‘mondo della notte’, nei centri storici delle città e in altri luoghi di attrazione, nei parchi divertimenti e nei celebri ‘non luoghi’, come stazioni, ospedali, ecc. diventa un tutt'uno indistinto in cui ognuno motiva il proprio successo in relazione a quello degli altri.


…e quello della serialità

Il secondo approccio consiste invece nella capacità di reinventarsi continuamente un'immagine pur essendo dei punti di vendita ‘seriali’, come nel caso dei negozi monomarca o dei franchising. Ciò accade grazie ad un sovra-investimento estetico e allo stretto legame con la moda e le tendenze, in breve all'arte del visual merchandising. Ne discende che il marketing del punto di vendita non è codificato, nè codificabile. Si tratta, tutt’al più, di un insieme di precetti da applicare creativamente in ogni situazione, avvalendosi delle opportune competenze e di rigorose e specifiche professionalità, senza dimenticare il ruolo indispensabile di una perenne creatività e del coraggio ad osare dell'imprenditore commerciale. Il flusso intellettuale che ne scaturisce non si sedimenta in principi da santificare in un manuale e da applicare con routine burocratica. Resta invece perpetuamente un insieme magmatico di suggestioni, di spunti, che richiedono, per essere adattati con successo ad un certo ambito, fantasia, curiosità e pragmatismo. La gestione del punto di vendita richiede soprattutto una visione d’insieme capace di collegare le logiche concettuali di un prodotto o di un servizio, a quelle dell'ambiente che lo ospita (il negozio) e a quelle dell'ambiente esterno in cui vivono i clienti (il territorio e la società). Questa è, appunto, la ragione che spinge POPAI a sviluppare attività culturali trasversali dirette a tutti gli attori presenti nello scenario.


La contraddizione

Se vendere significa scambiare denaro per ogni genere di bene e servizio allora si comprende la moltiplicazione in atto dei PDV e come la loro inevitabile diversificazione non si arresti. Dalla spiaggia alle hall degli alberghi, dal discount alla boutique, dalle scuole ai centri di intrattenimento e di cultura, ovunque si osserva una crescente tensione nel tentativo di captare l’attenzione e di sollecitare l’impulso ad acquistare nei frequentatori di questi luoghi. Basti pensare che addirittura il punto di vendita è entrato persino dentro la nostra abitazione grazie ad Internet e alla TV interattiva! È un mondo che sembra esplodere nella vastità crescente delle offerte. La crisi di cui si parla tanto e a sproposito, è dunque di natura culturale e nasce dalla incapacità di tanti operatori di vedere la realtà in un arco di 360 gradi. Ciò che è veramente in discussione è la dimensione delle nostre aspettative individuali, quando ci rendiamo conto che le risorse disponibili crescono comunque meno velocemente delle opportunità a cui potremmo destinarle. Un tempo valeva il principio per cui l’innovazione tecnologica produceva una distintività duratura del prodotto. Poi la comunicazione generava lo stimolo a compiere l’acquisto, mentre la distribuzione non doveva far altro che essere pronta a soddisfare un desiderio predeterminato. Questa è però una storia d’altri tempi, semmai sia mai stata vera. Oggi quasi nulla è prestabilito. La fedeltà a una marca è perennemente in discussione quando le sollecitazioni a cambiare sono frequentissime e ben congegnate e ogni punto di vendita diventa sempre più abile nel sollecitare l’attenzione del cliente.


La consumer experience

Osservate la foto di uno degli espositori che un CONAD in Abruzzo ha posto qua e là nel punto di vendita. I clienti sono invitati a degustare liberamente quel che viene prodotto nei banchi della gastronomia o le specialità con il marchio dell’insegna. In un angolo, un sommelier, al sabato, spiega e fa assaggiare i suoi vini pregiati. Senza saperlo questa è la medesima tecnica messa in atto nel Texas, con i propri ‘foodies’ dalla blasonata catena Central Market. Senza tanta prosopopea è ciò che nei ‘salotti milanesi’ chiamiamo ‘consumer experience’ ed è chiaro che fanno riflettere sull’efficacia sempre controversa dello spot televisivo. Tuttavia non v’è contraddizione poiché la promozione sul punto di vendita potrebbe esserne il complemento finale. Il commercio più avanzato comincia a scoprire il proprio potere di diversione rispetto all’impostazione originaria del marketing dell’industria, la quale fatica tuttora ad accettare l'idea che il supermercato sia diventato anche un mezzo di comunicazione importantissimo. Peraltro, come dimostrano le pratiche sempre più diffuse del ‘sottocosto’, anche la vendita del prodotto di marca può ridursi a mero pretesto per perseguire altre finalità, ovvero: ti regalo il panettone purché tu faccia un giro nel mio negozio e possa valutare quante altre opportunità ti sono offerte. Il supermercato rivendica in questo modo l’autonomia del suo rapporto con il cliente seguendo strategie sempre più articolate che privilegiano, ove possibile, il servizio rispetto al prodotto. C’è un CONAD, a Siena, che sfrutta la disponibilità di una terrazza che domina la città per il relax dei clienti, che vi consumano quel che acquistano all’interno. Lo stesso avviene in certi IKEA, alla Rinascente, alla FNAC o nelle librerie di Milano. Curiosità, convenienza, divertimento, tutto si confonde. Le stazioni di rifornimento sono destinate a diventare luoghi d’acquisto diversificati sulla base del concetto di ‘convenience store’. Allo stesso tempo le Poste dovranno anch’esse imparare a vendere prodotti, poiché ci sono supermercati che stanno per divenire punti di riferimento per le poste private. Il cambiamento in atto è impressionante.


Il fascino dei luoghi storici…

Dunque e sebbene si dica spesso il contrario, il commercio italiano sta facendo passi da gigante a dispetto dei freni azionati disperatamente dalla sua componente più corporativa. Si è anche allentata la pressione ideologica di un americanismo seducente e interpretato come ‘gigantismo’ modulare e standardizzato. Superato in questo senso il complesso d’inferiorità verso gli USA, si riscoprono le immense possibilità del nostro Paese, i cui stupendi e misconosciuti centri storici sono stati feriti, ma non in modo irreparabile, dal vandalismo razionalista dell’urbanistica degli anni ’50-60. Chi gira l’Italia e sa osservarla, si accorge di quanti luoghi stupendi e carichi di fascino possono convivere con adeguate strutture commerciali. Sono luoghi talmente belli da essere copiati e citati architettonicamente all'estero nei centri commerciali a cui si rivolgono i nostri pellegrinaggi volti paradossalmente a ‘copiare delle copie’ (come nel caso degli Starbucks café o dei malls giapponesi). L’Italia possiede il più gran numero di centri commerciali ‘naturali’ e sta imparando a vendere meglio le proprie atmosfere. Voglio citare, come esempio, il fascinoso e poco conosciuto Spazio Minghetti di Bologna che ha trasformato in negozio uno splendido appartamento nobiliare.


…e il richiamo delle periferie

Tuttavia il marketing del punto di vendita riesce, in certi casi, a riqualificare anche le periferie (diversamente anonime e tristi) di molte nostre città. Siamo in questo caso nel mondo dell'architettura vernacolare che (se libera da ogni stupida restrizione burocratica) è in grado di generare quelle caotiche esplosioni di colori e simboli che rendevano unica ed irresistibile la Las Vegas decodificata da Robert Venturi. Mi riferisco alle strip commerciali d’accesso ai nostri centri città dove si solidifica un ambiente mutevole che riassume tutto ciò che il ‘sistema’ offre agli odierni consumatori: un repertorio di fast-food, di esposizioni di arredamenti, di ‘category killers’ nel campo delle calzature, dell'hobbystica, dell’abbigliamento e del giocattolo, insegne e neon che ‘urlano’ silenziosamente i loro richiami all'automobilista di passaggio.



Un’arte in divenire

Procedendo solo per rapidi accenni, sviluppare il marketing del punto di vendita richiede di comprenderne la ricchezza in termini di antropologia culturale. Vi sono luoghi come i pub-birrerie che ci rivelano la potenza evocativa di ambientazioni che sfiorano gli abissi psicologici della ‘realtà simulata’. Le loro atmosfere, le luci, i colori artefatti producono sogni innocui e piccole evasioni in luoghi esotici, in paesi irraggiungibili, e in essi vi aleggia (come nell’Hard Rock Café) la presenza di personaggi mitizzati dalla cultura popolare. Un altro tema trascurato è quello della vendita automatica. Se non fosse più vista come mera attività ancillare al mass-market, ma come specializzazione in particolari condizioni ambientali, potrebbe costituire una presenza ‘totemica’ capace di rafforzare i valori della marca, oltre ad espletare le funzioni minimali dell’approvvigionamento emergenziale. Concludo. Il marketing del punto di vendita è un’arte in divenire. Ha potenzialità dirompenti. Assorbirà risorse crescenti. Sarà destinato a decretare la fortuna di un numero crescente di marche e prodotti che aspirano a uscire dall’anonimato. Merita di essere studiato con impegno e passione.


Articolo di Daniel Tirelli, Presidente di POPAI Italia per il sito edipi ( http://www.edipi.com/riviste/mkt/articolo=1283 )

   
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