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Roberto Mahlab
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Inserito - 17/12/2003 :  23:32:46  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Roberto Mahlab Invia un Messaggio Privato a Roberto Mahlab
Ferenc Dinga era una brava persona. L'amico non poteva credere che fosse morto. Getto' uno sguardo dalla finestra, la grande vetrata del palazzo sulla affollata via romana, poche settimane prima saliva la scalinata insieme a quell'uomo magro, in completo scuro, cravatta rossa, gli zigomi scavati, gli occhi scuri e i capelli nerissimi tipici della profonda Ungheria.

Si erano conosciuti a Budapest, due anni prima, nel corso di una visita ad una fabbrica di una delegazione industriale italiana. Donato Reuveni era un uomo timido e, dopo la presentazione della produzione, si era seduto appartato nella grande sala al pianterreno, entrava una fioca luce solare dalle vetrate impolverate e illuminava i banchi e le sedie metalliche che gli ricordavano la scuola, il freddo pavimento con disegni a sassolini bianchi e marroni.
"Mi chiamo Ferenc Dinga", si riscosse a quelle parole pronunciate da una voce gentile alle sue spalle e si volse, noto' un largo sorriso sul volto dell'ungherese, subito ricambiato. Fecero amicizia cosi', semplicemente, dopo mezz'ora erano ad un tavolo a studiare dei disegni di nuovi articoli che la fabbrica di proprieta' dello stato, come tutte le fabbriche nell'est comunista di quegli anni, avrebbe prodotto a prezzi sorprendentemente competitivi.
"Noi non paghiamo la materia prima", gli spiegava Ferenc quella sera sottovoce, cenavano insieme nel risorante dell'albergo, "i russi ce la mandano in cambio di camion che produciamo in Ungheria e il cambio lo decidono loro, a volte essa ci arriva invece dal Vietnam del Nord in cambio di pentole, insomma cosi' e' la vita nei paradisi dei lavoratori", un sorriso, amaro, rassegnato.
L'albergo sull'isola Margherita, in mezzo al Danubio al centro della capitale, era imponente, di architettura imperiale asburgica, il bianco originale dell'esterno dava ormai sul grigio e all'interno gli enormi saloni mostravano una nostalgica decadenza, i tappeti consumati, le tapezzerie strappate, le tovaglie macchiate. Un cameriere vestito con pantaloni e gile' neri e camicia bianca, alto, con i baffi, porgeva un liso menu, alto tre dita, Ferenc non lo apri' neppure, Donato inizio' a sfogliarlo pagina per pagina, solo leggere la descrizione dei piatti elaborati dava l'aquolina in bocca e infine opto' per un salmone alla griglia, l'amico ungherese gli lancio' un sorriso ironico e il cameriere non scrisse l'ordinazione e dopo una decina di minuti porto' loro due piatti di aringhe affumicate : "oggi abbiamo questo". "Con tanti auguri del partito al nostro ospite occidentale" e Ferenc scoppio' in una risata.

Il lavoro crebbe, l'Europa occidentale divenne un mercato importante per i paesi dell'est europeo al di la' della cortina di ferro, l'unico mercato che in cambio di prodotti di consumo a bassa tecnologia pagava con valuta pregiata che veniva incamerata da quei governi e usata secondo convenienza, le spese militari della guerra fredda dovevano essere finanziate cosi' come i partiti comunisti che crescevano ad occidente. Ferenc Dinga visitava due volte l'anno l'azienda di Donato Reuveni a Roma e sfruttava quei brevi soggiorni per parlare e spiegare all'amico. "Ad ogni pagamento, una percentuale fissa non raggiunge l'Ungheria, ma viene trasferita su dei conti nel tuo paese, senti l'idea, io ti faccio uno sconto sui prodotti, equivalente, gli facciamo lo scherzo, non potranno lasciare nulla in quei conti, sarebbe troppa burocrazia giustificare l'ammanco, crederanno che la cifra fissa sia stata versata in altra via".
"Hai mai pensato a venire via Ferenc?", gli chiese Donato. "Sono sposato, mia moglie Anna e' a Budapest, non ci lasciano uscire insieme ovviamente, non lasciano mai i componenti di una stessa famiglia uscire insieme, non tornerebbe nessuno, lei lavora nell'ufficio di esportazione vicino al mio", tiro' fuori dal portafoglio una fotografia, in bianco e nero, ritraeva una donna minuta, dai lunghi capelli un po' arricciati, pallida, i grandi occhi neri. "Le ho promesso che ce ne saremmo andati insieme, un giorno".
"Qualunque cosa io possa fare, conta su di me", gli rispose Donato versandogli un bicchiere di buon vino toscano, "a proposito, oggi c'e' in televisione la partita tra l'Ungheria e l'Unione Sovietica, che ne dici, ce la guardiamo prima di andare a cena?", Ferenc raccolse la sua giacca e si alzo' :"figurati, possiamo anche andare a mangiare, finisce tre a zero per loro, fa parte del patto, quello di Varsavia, e' gia' tutto scritto prima". Fini' tre a zero per l'Unione Sovietica.

Prima di ripartire per Budapest Ferenc consegno' a Donato il denaro risparmiato nel corso del viaggio e gli chiese di custodirlo per lui, per quando fosse riuscito a scappare insieme a sua moglie. Donato gli apri' un conto a Zurigo ed ogni volta che poteva, aggiungeva una piccola cifra, come discreta provvigione d'acquisto. Al funzionario che gli chiese a che nome dovesse intestare il deposito, rispose :"lo intesti a liberta', un conto intestato a liberta'".

"Si vive, si muore, caro...", era una voce dolce che lo fece tornare in se', una carezza affettuosa sul viso, volse la poltrona dalla grande finestra del suo ufficio di Roma e osservo' il vellutato volto da cui quelle parole erano giunte.
Adrienne era la vice di Ferenc ed era toccato a lei portare a Donato la notizia della sua morte per malattia, sarebbe stato con lei che d'ora in poi avrebbe trattato d'affari. I capelli corti biondi scuri, il volto ovale un po' allungato, la pelle rosata, gli occhi marroni chiari, sapeva di essere molto bella, ma era sempre triste, gli raccontava della scomparsa dei suoi genitori in un incidente e della sua vita sentimentale insoddisfacente in un paese in cui non c'era futuro, in cui il tasso di alcolismo e di suicidi era elevato, "eppure dicono di noi che siamo la baracca piu' allegra del lager", rideva indicando le condizioni ancora peggiori in cui si trovavano la Polonia, la Romania, la Cecoslovacchia, la Germania dell'Est. Era arrivata in Italia insieme al direttore dello stabilimento, l'ingegner Demved, carica, onore e ricompensa che toccava ai quadri del partito, un uomo arrogante e sprezzante, era il suo accompagnatore e sorvegliante nei viaggi, Donato sapeva di dovergli preparare una bottiglia di whisky al giorno. Non sopportava di averlo intorno, ma non aveva scelta, trattava il lavoro con Adrienne e poi a pranzo e a cena doveva sorbirsi i discorsi alticci del dirigente. Quell'ultimo pomeriggio, mentre bevevano il te' in un locale con la meravigliosa vista su un lago, temette di non riuscire a trattenersi. "Sara' presto in tutta Europa, per me e' una vita eccezionale, ho una bella casa e sono riuscito anche a mandare i miei figli a studiare all'estero", diceva Demved. "E il popolo?", troppo tardi, Donato si morse la lingua, l'uomo altezzoso lo aveva sentito e dallo sguardo che gli lancio', accompagnato da parole dure, l'italiano comprese che i suoi affari con l'Ungheria avrebbero presto subito una rappresaglia.

Sei mesi dopo fu invitato ad una riunione dei distributori europei della fabbrica ungherese, essa sorgeva nei dintorni di Nyregyhaza, una cittadina nell'est a pochi chilometri dalla frontiera con l'Unione Sovietica. Erano alloggiati in una locanda isolata in mezzo alla pianura, spighe di grano e alti steli d'erba e sullo sfondo un bosco, una vista idilliaca dalla stanza e Donato si sveglio' di buon umore, rinfrancato nell'animo dopo un viaggio pieno di dubbi sul successo di quanto aveva in mente di fare. La realta' pero' fece capolino, i rubinetti non davano acqua, il telefono con il portiere non funzionava e quando scese per chiedere spiegazioni ricevette in cambio solo sguardi annoiati.
"Donato!", una voce dall'inconfondibile accento francese lo chiamo'. "André!", rispose l'italiano riconoscendo il collega d'affari. "Barba senza acqua eh?", lo prese in giro André, "be', sai com'e' da queste parti e come vedi anche io..." e si passo' la mano sul volto irsuto, "sono tornato stanotte da altre fabbriche della zona, dato che sono iscritto al partito nel mio paese, qui mi aprono tutte le porte e sai che per i soldi io non mi faccio scrupoli". "I soldi? E i sacri principi?", gli rise dietro Donato. "I principi sono dietro quel bosco mon ami", ribatte' il francese, "e' pieno di carri armati russi, si mangeranno l'Europa, sono i vincenti, e io sono gia' saltato sul loro carro, les affaires sont les affaires".

Entrarono insieme nella sala delle riunioni, quanto meno sui tavolini c'era qualche cosa da mangiare e anche del caffe' caldo, l'ingegner Demved, con a fianco un'Adrienne radiosa faceva gli onori di casa e accolse i due occidentali senza perifrasi :"Andre', hai gia' detto al tuo amico Donato che ho deciso di affidare a te anche la sua zona di distribuzione? Sono sicuro che la comprensione delle idee comuni potra' sviluppare meglio il nostro lavoro". Donato non dette segno di scomporsi, sorbi' il caffe' con calma glaciale e si mise a scrutare la soleggiata pianura attraverso la finestra. Adrienne lo raggiunse, appariva sconvolta :"Donato, di' qualche cosa, sei venuto fino qui, per sentirti dire questo?". Anche Andrè si avvicino' e mise un braccio attorno alla vita della ragazza, l'italiano la guardo' con tenerezza e lei gli passo' una mano sul volto. "Donato caro, con Andrè, forse riusciro' ad andare via da qui", "Si' Adrienne, qualche cosa la diro', tra poco, quando mi daranno la parola alla riunione, ma non fara' piacere a chi ascoltera', non andra' come pensano loro e dunque, ha poca importanza".

Quando Donato parlo', nella sala scese l'incredulita', mai nessuno aveva osato tanto, non la' :"Le mie statistiche, caro ingegner Demved, dicono che siete sull'orlo del collasso economico, i paesi emergenti, le tigri dell'Asia, oggi vi soffiano sul collo e domani vi lasceranno a piedi, non sono interessato a quello che producete, ancora per poco". Fu lieto che il bicchiere di quello che era forse il terzo whisky della mattinata ando' per traverso a Demved, le cui vene del collo si gonfiarono e il viso divenne paonazzo.
Fuori dall'albergo una sorpresa attendeva gli ospiti, una mandria di cavalli neri, a disposizione di chi volesse provare l'ebbrezza di una cavalcata nella campagna ungherese. Donato non aveva mai provato e quando sali' incerto sulla sella, per poi mettersi piano piano eretto e far fare al cavallo qualche passo rilasciando le redini, un applauso si levo' dagli organizzatori e dalle maestranze della fabbrica. Si calo' a terra con l'aiuto di un sorridente stalliere, dall'alto della sella aveva visto chi stava cercando, con passo noncurante si avvicino' ad un albero a cui si appoggiava la recinzione e tese la mano :"Lei e' Anna? Ferenc mi ha mostrato la sua foto". La donna minuta dai capelli lunghi arricciati, un filo di grigio, il volto liscio e pallido, gli occhi profondi, sollevo' la sua mano, piccola, fragile, aperta. Ferenc la prese nella sua e appoggio' un foglietto sul suo palmo.
"Ferenc mi raccontava della bellezza del cielo azzurro del suo paese e dei colombi che dalla scalinata che si vede dalla finestra del suo ufficio volano liberi", lei gli rispose, poi libero' la mano e la chiuse a pugno e la mise nella tasca del vestito. Donato senti' gli occhi riempirsi di lacrime, riusci' a tenerli stretti e chiusi e si riavvio' verso gli altri, il battito del cuore incontrollato.
Mangiarono all'albergo, si era seduto in disparte, osservava incredulo quei pezzetti di carne che galleggiavano nel brodo, "goulash, con carne di cavallo, e' quello che c'e'", gli spiego' Adrienne e lui la guardo' disperato.

Quella sera stessa torno' a Budapest e appena arrivato in albergo corse in camera, le ragazze alla reception dal trucco pesante che si mettevano a disposizione degli uomini d'affari occidentali e dei ricchi turisti lo facevano infuriare, mai come quella sera detesto' il potere cieco che falsificava un ideale per opprimere e corrompere il proprio popolo. Si getto' sul letto e pianse per la nostalgia del suo amico Ferenc.
Il mattino dopo all'alba si reco' all'aereoporto, i militari gli fecero aprire tutto il bagaglio, con scortesia, prego' che finisse presto. Atterro' a Vienna e prese un tram che lo porto' nella citta' vecchia, al suo ristorante preferito, cotoletta e strudel, un violinista profugo dall'Ungheria sbarcava il lunario suonando musica tzigana.

Nell'autunno del 1989 i popoli dei paesi d'oltre cortina scesero nelle piazze e un soffio abbatte' quei regimi, cadde il muro a Berlino, nacquero la Cecoslovacchia e la Bulgaria libere, in Romania il tiranno fu travolto in un bagno di sangue, i carri armati dietro ai boschi di Nyregyazha non accesero i motori, perche' il cuore stesso dell'impero, a Mosca, rifiuto' di obbedire. L'Ungheria torno' alla liberta'. L'ingegner Demved, dopo la chiusura della fabbrica travolta dalla concorrenza delle tigri asiatiche, raggiunse i suoi figli che studiavano all'estero, fu intervistato da una televisione locale e racconto' che li aveva mandati fuori proprio perche' convinto che nel suo paese non avessero futuro e smenti' di essere mai stato iscritto al partito.
In una vecchia casa nel cuore di una cittadina nel cuore della pianura, una donna minuta, dai candidi capelli arricciati, apri' una finestra, osservo' tristemente un foglietto che un amico italiano le aveva consegnato qualche tempo prima, indicava il nome di una banca e l'intestazione di un conto, il conto liberta'. Alzo' gli occhi allo spicchio di cielo azzurro che si apriva tra i tetti delle costruzioni e si ricordo' dei cieli azzurri che il suo amato Ferenc le descriveva, ogni volta che ritornava a casa. Un colombo volo'.

Donato spingeva la carrozzina sui gradini della scalinata della piazza a Roma, una giovane donna sorridente lo incitava nello sforzo, un colombo bianco si levo' in volo, lui prese in braccio il bambino :"guarda, il cielo e' azzurro".
Fu un ombra negli occhi e il ricordo di una voce :"le ho promesso che ce ne saremmo andati insieme, un giorno".

Roberto


   
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