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 Il pesciolino d'argento
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Mavec
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Inserito - 30/03/2007 :  19:52:08  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a Mavec

Ora, a casa, suoneranno la solita solfa: mi accuseranno di averne acquistato un altro, di libro e di spazio, ormai, non ce n’è più. E non hanno torto, me ne rendo conto (anche il profumo e il fruscio della carta stampata li fa andare in estasi), ma sono fatto così e non è che, a cinquant’anni, possa, da un giorno all’altro, cambiare le mie preferenze e farmi rinunciare alla mia fame di lettura, vorace come quella di uno squalo senza requie. Fino a quando il mio flusso neurotico si manterrà integro e in tasca avrò un euro, la mia casa continuerà a riempirsi di libri, fino a scoppiare.Non è affatto uno stato patologico il mio o forse sì: se andassi in analisi, gli strizzacervelli troverebbero le cause, che io conosco benissimo e che illustrerò in queste note, per chi avrà la pazienza di leggermi fino alla fine. Intanto, mentre i miei mormorano e mi elargiscono occhiatacce di rimprovero, mi godo la vista delle mie pareti tappezzate di volumi, la mia scrivania piena zeppa delle pubblicazioni più recenti, qualche vecchia e polverosa sedia, traboccante di tomi, che supplisce, ormai, alla cronica carenza di scansie.
L’unico compromesso, faticosamente e oggetto di sfiancanti trattative, concesso ai miei, è stato quello di non rimpinzare angolo pranzo e camera da letto di “carta”. Per il resto mi arrangio come posso, giocando d’equilibrio con i miei esigui spazi, sfruttando al massimo ogni centimetro libero, arrovellandomi la mente alla ricerca di fantasiose acrobatiche soluzioni d’arredamento di sopravvivenza, per ritrovarmi, poi, con un inevitabile ammonticchiare di testi sistemati alla meno peggio, come si vede in quelle minilibrerie dei centri storici cittadini, che raccolgono materiale che mal gestiscono solo per penuria di spazio, ma che, comunque, calamitano l’attenzione degli appassionati che amano sguazzare in quel mare di cultura così a portata di mano. Dicevo che me la godo accarezzare con gli occhi le fila di libri, con i loro dorsi di diverso colore: dal grigio cinerino dei saggi paludati e seriosi al giallo solare dei “gialli” d’autore; dal rosso cardinale delle enciclopedie al verde erbetta delle raccolte scientifico-tecniche fino al nuovo look grafico delle nuove uscite: dorsi patinati, di lucido lucore candido con neocaratteri tipografici che mostrano l’evoluzione a cui è giunto il segno grafico. Il tutto forma un amalgama variopinto e divertente che invita i neofiti, se non a leggere, almeno ad esplorarlo. E poi mi solletica l’afrore della carta stampata: quello fresco di stamperia, ancora vergine e incontaminato; l’altro più vecchio, usato, da reperto d’archeologia letteraria, passato e ripassato fra le mie mani come una splendida amante mai tradita, sebbene appaia sfiorita con gli anni. Anzi, il libri più vetusti fanno emergere in me un senso di protettiva tenerezza, come se fossero fragili anziani magri e rugosi a cui dedicare le cure più assidue e meticolose. Quelli giovani, invece, guizzano briosi con quelle loro pagine che si sfogliano rapide e orgogliosi, come il gallo è della sua cresta, del loro stato di benessere tipografico. L’insieme conferisce al mio studio un variegato mondo colorato e fecondo di preziose gioie da scoprire o riscoprire nelle migliaia di pagine stampate, nelle righe che hanno mutato in segni alfabetici il pensiero e l’anima di letterati e di uomini di cultura, che hanno affidato alla magia di un testo la loro fede di vivere in eterno attraverso la lettura e la meditazione dei posteri.
In quale tempo della mia vita nacque e si rafforzò la mia passione per il leggere e per i libri? Io l’ho ben individuata nei primi anni della mia adolescenza, allorché frequentavo le scuole medie inferiori. Allora il mio patrimonio letterario si limitava a qualche antologia che, in verità, non destava in me eccessivo entusiasmo. Sarà perché essa era, pedissequamente, utilizzata per tramandare a noi testoni nozioni di letteratura spicciola; sarà perché i docenti di lettere si servivano di prose e poesie solo per approfondire la sintassi e la logica; sarà soprattutto perché non ricordo nessuno, e sottolineo nessuno, dei miei insegnanti che ci leggesse ad alta voce un passo o un sola riga. Le due orette settimanali di antologia, quindi, erano di una noia mortale e la maggior parte di noi ragazzi brillava per disattenzione, cosa che, inevitabilmente, ci procurava iro-se sgridate, note sul registro di classe, rimbrotti e punizioni. Ricordo che una professoressa era solita punirci, espellendoci dall’aula. Il luogo della pena da scontare non era mica il corridoio, ma la biblioteca dell’istituto dove il bidello ci affidava ad una bibliotecaria, una vecchina incartapecorita, sempre seduta dietro una scrivania piena di registri che, di tanto in tanto, ci lanciava delle occhiatacce, al di sopra degli occhiali che le scivolano sul naso diafano e perennemente raffreddato, che volevano essere severe, ma che, in fondo, erano sotto sotto di complicità nei nostri riguardi, costretti a sopportare una punizione inutile e fastidiosa anche per lei, “condannata” a ruotare gli esausti occhietti come un camaleonte: uno al suo lavoro e l’altro nella nostra direzione. La biblioteca era allocata in un enorme salone dal soffitto affrescato che avrebbe avuto bisogno di un urgente restauro. A malapena si distinguevano le figure e i colori di quella che doveva essere la rappresentazione delle Muse, a quanto ne sapevo io. L’ambiente era polveroso e cupo: i grossi finestroni, mai ben lavati del tutto, inibivano l’accesso ai raggi solari. Il pavimento, invece, era un lucido parquet che scricchiolava sotto i piedi e i piani dei tavoli di lettura odoravano di cera di pessima qualità. Le pareti erano interamente ricoperte da scaffali di libri chiusi a doppia mandata. Al posto delle vetrinette c’erano delle grigliette metalliche, scurite dal tempo, che formavano una fitta trama intarsiata nella quale non era possibile infilarvi neppure la punta di un dito. Era un modo come un altro per difendersi dai furti. In alto, su ogni libreria spiccavano delle nicchie che conservavano, a futura memoria, i busti in stucco colorato di coloro i quali, nei secoli addietro, avevano arricchito il patrimonio librario di quell’oasi di cultura: visi scarni e seriosi di porporati; di dame e principesse dai tratti grossolani risalenti al ‘700; di letterati scarmigliati e dall’occhio ispirato; di ex-professoroni dell’istituto, di ottocentesca memoria, paludati nelle divise accademiche. Nessuno di essi aveva affidato al pennello dell’artista la smorfia di un sorriso: tutti, indistintamente, compunti e ingessati, presi e compresi dall’alto compito di lasciare alle nuove generazioni il senso austero e serio della scuola, anche se poi, alla fine, si comprendeva quale e quanta ipocrisia trasudava dalle loro facce “truccate” per l’occasione. Di certo l’atmosfera quasi tenebrosa del posto, unita agli sguardi truci di quei mezzi busti vigilanti dall’alto, non disponeva ad un tipo di lettura rilassante. E, difatti, la biblioteca era disertata dagli studenti, provocando le annuali ire del preside che non riusciva a concepire l’idea che una così grande e copiosa ricchezza di libri dovesse essere ignorata e bistrattata. E ce l’aveva anche con gl’insigni docenti, incapaci, a suo dire, nell’invogliarci alla frequentazione di quella torre eburnea del sapere. E si tuffava in un mare di ricordi, riandando con la memoria ai tempi felici quando l’antica biblioteca dell’edificio risuonava del fruscio delle pagine sfogliate, delle penne sfrigolanti sulla carta, dei passi degl’innamorati degl’immortali capolavori della letteratura universale. Non aveva torto, il poveretto (questo l’ho capito anni dopo), ma la sua amarezza si fermava lì, al semplice rimbrotto. Mai che si fosse preoccupato di gettare le basi di un progetto-lettura come si fa oggi. Una mattina, durante una delle mie tante mancanze puntalmente punite con l’invio in biblioteca, su un tavolo attirò la mia attenzione un bel librone solido dall’accattivante rivestimento in brossura. Il titolo dell’opera, in caratteri d’oro, era “I Promessi Sposi” di A. Manzoni , finemente illustrato da A….Chiesto ed ottenuto il permesso di consultarlo, destando dapprima la meraviglia e poi l’ammirazione della bibliotecaria, mi sedetti e l’aprii con delicatezza. Le pagine erano così sottili da sembrare carta velina.
Il carattere di stampa era minuto, quasi microscopico: una scrittura fitta fitta opera di un paziente insetto che aveva intinto la zampina nell’inchiostro. Mi fermai ad ammirare la prima illustrazione in perfetto bianco e nero, disegnata con la china e perfetta nei chiaroscuri e nelle ombreggiature. Essa rappresentava la scena, a lume di candela, del matrimonio dei due promessi dinanzi ad uno sbigottito Don Abbondio. Il tutto era stato magistralmente eseguito con uno stile che ricordava il Caravaggio. I volti, gli sguardi e le movenze, rappresentate da un tratto di pennino prodigioso, esprimevano tutta la drammaticità del momento e i sentimenti dei presenti: lo sbigottimento del curato; la sicurezza, tutta trionfante di giovinezza, di Renzo; la paura e la timidezza, venata di pudore, di Lucia. Lessi con attenzione le pagine, cui si riferiva la scena illustrata, e ne trassi una soddisfazione immensa. L’autore lo conoscevo di fama, ma non aveva mai letto nulla delle sue opere. La curatrice di quel patrimonio mi parve che sorridesse compiaciuta del mio interesse ed, infatti, allorché le chiesi in prestito quel capolavoro da gustarmi a casa con calma, fu lieta di accontentarmi. E così, da una punizione, sortì in me l’amore per la lettura. Nei messi successivi fui un assiduo frequentatore di quel mondo incantato che esplorai, con la febbrile gioia del viaggiatore in volo su terre ancora vergini e incontaminate. E lessi tutto ciò che potevo: sotto i miei occhi transitarono i personaggi di mille storie da Tartarino al cavaliere dalla triste figura del Cervantes; da Ulisse, l’eterno viandante del mare ad Enea, l’avo della progenie latina.
E poi favole, racconti umoristici e ancora romanzi e romanzi: una girandola di meravigliosi intrecci. Migliorò il mio modo di scrivere e mi guadagnai la stima dei professori, no certo dei compagni che mi “coprirono” di appellativi, il più frequente e inflazionato dei quali era il classico “topo di biblioteca”. Io ero come intontito per essermi avvicinato a quella nuova dimensione di me stesso che si costruiva, giorno dopo giorno, un’impalcatura solida fatta di cultura, di emozione, di sentimento. Ma compresi anche che le migliaia e migliaia di parole stampate sarebbero rimaste inerti, racchiuse in splendide copertine, se non fossero state vissute, riportate nel mondo lasciandole cadere nell’animo di ciascuno dove sarebbero germogliate e fiorite di idee nuove di cambiamento….Terminato il mio corso di studi, la mia voglia, che i più definivano insana, non s’acquietò. Salutata la vecchia, cara biblioteca scolastica e la custode di quella ricchezza ineguagliabile, iniziarono i problemi. Figlio di modesti artigiani, avevo pochi soldi da spendere e, quindi, i libri me li guardavo in vetrina. Fino a quando racimolai qualche soldarello, liberandomi, a malincuore, dei miei libri scolastici presso una libreria che commerciava con l’usato, riuscii ad acquistare un paio di romanzi economici, ma poi…Poi scoprii le bancarelle e cominciai la pesca. Queste erano piazzate sui marciapiedi di fronte agli ingressi delle librerie (ancora adesso fanno bella mostra di se) ed esponevano, in un caos indescrivibile, tutto e il contrario di tutto: da sgualcite e scarabocchiate edizioni scolastiche a manuali su ogni argomento; da tascabili a grossi tomi. Insom-ma un confusionario, polveroso ciarpame buono per il rogo. Eppure stava lì, devastato dal tempo e dall’uso, in attesa che un amatore, un collezionista o un povero cristo, scarso di risorse come il sottoscritto, lo riesumasse e se lo portasse a casa, concedendogli ancora un po’ di vita prima di sparire nella consunzione degli anni. La bancarella era la forma più perfetta di democrazia, perché proponeva, all’esiguo costo di una monetina da cento lire, l’acquisto di vecchie pubblicazioni, senza fare alcuna discriminazione tra libri piccoli e grandi, antichi e recenti, etc. Un caravanserraglio di titoli e di argomenti tra i più disparati e incredibili, tali da solleticare la curiosità del lettore. E così principiò la mia opera di “scavo”, come un archeologo invasato, e rintracciai tutto il meglio che quelle sgangherate bancarelle potessero offrire. Riuscii a formarmi una mia personalissima bibliotechina di classici che spaziava dalla letteratura russa a quella francese, dalla spagnola all’americana. Certo era un modo disordinato di leggere: mancava l’inquadramento dell’autore e della sua opera nel contesto storico in cui aveva visto la luce, ma la cosa per me non aveva nessuna importanza. Il desiderio di leggere era più forte dello studio dei movimenti letterari (che mi riservai di fare più avanti e che, puntualmente, non ho fatto) e pensai solo ad acculturarmi sul piano bibliografico, tracciando un profilo d’ogni autore a mio uso e consumo………
Mi piacerebbe, ora che ho consumato la vista per anni su decine e decine di volumi, essere paragonato, più che a un topo di biblioteca, ingordo e onnivoro divoratore poco attento, o a un gufaccio, dall’aria seria e compunta, assiso sulla sua cattedra come un depositario della verità, a quell’ insettino velocissimo a sei zampine, conosciuto con l’appellativo di “pesciolino d’argento” per il suo ventre piatto, che vive nelle nostre case ben nascosto nelle zone fresche e che, di notte, se ne va in giro alla ricerca di bricioline d’amido e di cellulosa. Pare che il suo nome scientifico sia “Lepisma saccarina”, ma preferisco nominarlo come da anni fa la voce popolare, che è, poi, la più vera e sincera dipensatrice di cultura. Proprio così: vorrei essere come questo minuscolo esserino, non tanto per nutrirmi di cellulosa, ma per inglobare in me tutto ciò che ho letto, per farlo scorrere nelle mie cellule e sentirmi pregno di tutto lo scibile raccolto in milioni di parole. Io, “pesciolino d’argento”, navigatore solitario di questo mondo affascinante che è la lettura; dominatore assoluto dello sterminato arcipelago letterario; padrone del mio mare Oceano in cui approdare ed esplorare isole e fondali ancora sconosciuti. Leggerò fino a quando potrò e finché l’uomo vorrà fermare le sue emozioni su un foglio bianco. E se potessi scegliere la mia morte, reclinerei la testa su una pagina scritta…………..

Mario Vecchione

   
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