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 Un Mohammed dei tanti....
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Mavec
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Inserito - 22/03/2007 :  19:06:09  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a Mavec
Un Mohammed dei tanti…


Mohammed ha 24 anni e vive a Bagdad. Già da qualche tempo, dalle sponde del Tigri non arriva più il sibilo del vento del deserto, ma un altro, più spaventoso, refolo, quotidiano e devastante: la routine delle sparatorie e il rombo degli attentati. Paradossalmente, la città, sebbene in guerra, in certe ore del giorno sembra essere più sicura delle strade che la circondano. Sembra. Fino a quando il 24 aprile di quest’anno, Mohammed non si è trovato preso tra i classici due fuochi: in mezzo ad un combattimento tra le forze di coalizione e le milizie degli Ansar al Sadr. Chissà come, s’era procurato un lavoro da muratore e quella mattina stava proprio recandosi al cantiere. Ed è calato il buio sulla sua vita. Non saprà mai da quale parte gli sarà arrivata la pallottola che l’ha colpito alla gamba destra. Ricorda solo d’essersi ritrovato a terra, come per un improvviso mancamento, e di aver, sentito, dopo qualche istante, un tremendo bruciore poco sopra il ginocchio. Il sangue, quello, lo rivede ancora: fumoso e dolciastro sgorgare dalla ferita e allargarsi sul selciato, come versato da una brocca. Mohammed s’accascia in avanti e avverte che ogni segnale di vita in lui si sta spegnendo, ma è solo una sensazione: in verità, è molto lucido al punto da trascinarsi, nonostante la pena infinita causata dallo sforzo, al primo riparo possibile. “Oh, mio Dio. E’ questa la fine di Mohammed?”. Poi non è più capace di muoversi. Il combattimento si è placato: s’odono solo grida e passi di soldati. “Ferito?” – gli chiede qualcuno. “Non si vede?” – vorrebbe rispondere, ma gli spunta solo un ghigno sulle labbra. Lo portano in ospedale, dove sviene. Ad Ibn-Alnafis, calvario giornaliero di morti e di disfacimenti di corpi sopravvissuti, i medici notano che la ferita ha causato danni irreversibili al ginocchio. Conseguenza inevitabile: amputazione della gamba fino a metà coscia. Ritorna a casa e si chiude tra le pareti: un mondo crollato addosso senza scampo. Non ha più voglia di uscire da casa. E’ impermeabile ad ogni consiglio. Gli procurano un paio di stampelle: è inutile. Vive in un altro territorio, Mohammed. Sopravvive, ma si lascia scivolare, come su un mare prosciugato da una terribile siccità. Aveva gambe che andavano in fretta, per afferrare una pagnotta che gli occupanti, nei primi giorni dell’occupazione, lanciavano dai camion, per guadagnarsela con i denti e le unghie. Intorno, il quotidiano assedio che gli fa sembrare quest’anno un brivido lungo un secolo. Tanti desideri e progetti ormai buttati nel pozzo dietro casa, neppure la possibilità di tenere acceso, un sogno, al minimo.
Qualche mese dopo uno zio gli parla di un centro di riabilitazione e questo lo scuote dal torpore della rinuncia alla vita. Il centro, però, si trova al nord del paese, in piena zona curda. Raggiungerlo è già un problema, perché le principali vie di comunicazione sono a rischio d’agguati e anche fermarsi ai check-points è un pericolo. Il problema si pone fino ad un certo punto: una lettera “lasciapassare” con l’indicazione di cure particolari gli spianerebbe la strada.


Il guaio è che tra arabi e curdi non è mai corso buon sangue. Adesso, conosce bene tutta la storia dei gas e della repressione di Saddam. “Dall’altra parte, – considera- si prenderanno cura di me?”. La sfiducia aumenta, quel poco di coraggio uscito fuori con la bella notizia, si dissolve in un lampo. Colpa delle maledette divisioni etniche. Mohammed, di sera, si ritrova a guardare il cielo: è ancora perfetto, malgrado la ferocia dei bombardamenti. Così blu da poterci dormire sopra come sui seni di una bella giovane. E si scopre a recitare una sua personalissima preghiera: “ Prendimi tra le braccia come un figlio e narrami tutto del bene e del male”. Mohammed deve scegliere: tentare un riscatto o rimanere ai margini, più disperato di prima dell’inizio di una guerra imposta, che è andata al di là di quanto si prevedeva. Nella decisione più importante della sua vita, Mohammed non è solo grazie all’intervento di un volontario, che riesce a convincerlo che sarà curato adeguatamente e gli procura anche il famoso “lasciapassare”. Finalmente, si parte. Mohammed e lo zio non hanno difficoltà con i check. L’attraversamento del territorio è un incubo col terrore a fior di pelle di un attacco improvviso. “Guardami le spalle, mio Dio, in questo mio tempo/ ogni uomo che crede, ci prova e vola, ma col cuore in gola”. Per il paese, ormai, si respira solo ossido di carbonio; si può morire senza un plotone d’esecuzione solo per un briciolo di sopravvivenza. Lungo strade sabbiose facce di bimbi senza più paura: ”Guarda, bambino/ guarda in alto gli aeroplani contro il sole/ fanno cadere stelle anche di giorno/ in un silenzio veloce”…In un paio di giorni con la sua gamba martoriata Mohammed è al centro di riabilitazione. Su un capannone sventola una sfilacciata bandiera della Croce Rossa, ma è quanto basta per non restare fuori dal sogno. Dentro è pulito, anche abbastanza fresco, nonostante la furia del sole all’ esterno. Mohammed è presentato ad un dottore. E’ un curdo: i tratti sono inequivocabili, la parlata, concitata, è quella. Mohammed lo guarda fisso negli occhi. L’altro lo ricambia con schiettezza, come se avesse rivisto un vecchio amico. Lo visita, è sicuro di se, gli sorride. Ad un certo punto gli accarezza anche la fronte. “Ce la farai - lo rassicura - ti rimetteremo in piedi!”. “Ma come fanno gli angeli a volare anche in un cielo rosso di sangue?/ Stringimi la mano, amico/ che non scapperò/ questa è una storia vera”.
La storia di Mohammed è tutta qua. Il dottore curdo gli prepara un piano di recupero,lo riprende, gli rinforza i muscoli e gli promette, un bella mattina, l’arrivo di una protesi.
A Mohammed cadono perle dagli occhi. “Dormi, Mohammed/ la grande idea/ che hai conosciuto/sta in un solo pensiero di pace/Va sulla punta del cuore/ e accendi una stella/che esiste”.

Mario Vecchione

   
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