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 L'attentato
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Gabriella Cuscinà
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Inserito - 15/02/2005 :  09:12:39  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Gabriella Cuscinà Invia un Messaggio Privato a Gabriella Cuscinà
L’attentato

Esattamente venti anni fa, la professoressa Graziella teneva lezioni contro l’Onorata Società in un paese ad alta densità mafiosa. Aveva profuso il suo impegno per far cambiare nei ragazzi del luogo la mentalità, basata ancora sulle leggi dell’omertà e del silenzio.
“Ragazzi, dovete denunciare, dovete parlare, dovete dire quello che sapete, altrimenti i mafiosi faranno sempre i comodi loro, certi del vostro silenzio.”
“Professoressa, ma se parliamo, ci chiamano <muffuti> e ci ammazzano,”
dicevano i suoi alunni.
“Bisogna avere coraggio, bisogna parlare, altrimenti non cambierà mai niente.”
Faceva leggere e studiare testi sulla storia della mafia, sulle sue macabre usanze e i suoi crimini efferati.
In paese, si accorgeva che la gente faceva finta di niente, ma aveva un terrore panico di chiunque fosse in odore di mafia. Alcuni insegnanti locali venivano maggiormente rispettati e tenuti in considerazione perché erano parenti dei parenti dei mafiosi. Tutte le case e i fabbricati non erano mai stati ultimati all’esterno, poiché i costruttori mafiosi si facevano pagare, consegnavano gli appartamenti e poi risparmiavano non terminando i lavori d’intonacatura e pittura delle facciate. Quindi nel suo insieme, il piccolo comune appariva come un villaggio fantasma, un posto in perenne costruzione.
Un giorno, mentre stava tornando a casa dalla scuola, le sabotarono la vettura e rischiò di morire. Ad un tornante della strada, sentì i pneumatici slittare. Graziella capì che le ruote erano state manomesse e cercò di rallentare. Dalla parte opposta, giungeva un camion enorme invadendo quasi tutta la sua carreggiata. Cercò di frenare, ma fu peggio, perché in quel punto la strada era viscida e in discesa, quindi perse il controllo del mezzo. Le ruote procedevano libere e il manubrio pareva impazzito. L’ultima cosa che vide fu l’esplosione del parabrezza, dovuta all’impatto violentissimo con il camion.
“Ragazzi, non dobbiamo lasciare che i mafiosi ci prevarichino. Loro sono ladri e assassini. Dobbiamo reagire. Voi dovete credere nei valori dell’onestà, della giustizia e della legalità. Non dovete lasciarvi rubare la vostra libertà.”
Così aveva detto durante l’ultima lezione e i ragazzi avevano esclamato: ”Stia attenta professoressa, qualche volta la faranno pagare pure a lei.”
E così era stato.
Adesso un buio nero e profondo la circondava. Era tutta insanguinata e incastrata tra le lamiere. Le pareva di essere trasportata al di fuori dell’auto e, dall’alto, vedeva i suoi soccorritori. Stava bene e le dava fastidio sentirli parlare e affannarsi. Avrebbe voluto che se ne andassero e la lasciassero in pace, nel silenzio. Poi un signore aveva cercato di estrarla dalla vettura fracassata. C’era riuscito aprendo lo sportello posteriore e raggiungendola da dietro, dopo aver abbassato il sedile. Le aveva salvato la vita. Se l’avessero lasciata là, sarebbe morta per dissanguamento. Invece l’avevano trasportata all’ospedale civico in stato comatoso e i medici avevano detto che la prognosi era riservata. Aveva un trauma cranico, il viso sconquassato dal vetro esploso, quattro costole fratturate, la mano sinistra lacerata e le rotule delle ginocchia con fratture multiple.
“Anche se me la faranno pagare, io non ho paura ragazzi. E’ proprio la paura la causa di tutti i mali della Sicilia.”
In seguito, tra atroci sofferenze, ripensava a queste parole e sapeva che avrebbe preferito non averle mai pronunziate e non dover sopportare operazioni di chirurgia plastica, ricostruzione delle ginocchia e della mano, lunghi giorni di degenza e lunghi periodi di riabilitazione motoria.
Quando in ospedale fu sciolta la prognosi e riacquistò conoscenza, le fece visita l’autista del camion. Cominciò a piangere, a disperarsi e a pregarla di non sporgere denunzia. La supplicò. Piangeva e chiedeva perdono.
Lo perdonò. Non sporse denunzia, ma in questo modo rinunziò pure ai soldi dell’assicurazione.
Si trattava poi di perdonare i mafiosi del paese. Questo fu molto più difficile.
Dopo parecchi mesi, riprese servizio nella stessa scuola. Un bidello incontrandola, esclamò: “Ma lei è di nuovo qua professoressa! Allora vuol dire che è dura a morire!”
E’ la mafia che sarà dura a morire! pensava Graziella. Pensava che quell’uomo avesse una mentalità mafiosa difficilmente estirpabile. Ma bisognava continuare a lottare, insegnare la legalità e lavorare, dare l’esempio e andare avanti.
Naturalmente non poté mai dimostrare di essere stata vittima di un attentato, poiché della vettura non era rimasto nulla. Solo un ammasso di rottami. Aveva continuato a insegnare e a svolgere le sue lezioni antimafia.
Successivamente era stata trasferita in città e in un’altra scuola.
Dopo quindici anni, tornò in gita in quel paese e lo trovò trasformato. Le dissero che molti mafiosi erano stati arrestati e che adesso si viveva meglio, senza soprusi e senza paura. Vide tutti i fabbricati con le facciate ultimate e splendenti al sole. Piante di ciclamino e di margherite ornavano e rallegravano i balconi. Le massaie cantavano stendendo il bucato. I volti degli abitanti le sembrarono più sereni e contenti. Incontrò un suo vecchio alunno, adesso padre di famiglia, che la ringraziò di ciò che gli aveva insegnato sull’onestà e sulla legalità. Si disse felice che le cose fossero cambiate e che il proprio figlio potesse crescere senza timori e soprusi. Graziella si sentì orgogliosa di avere contribuito anche lei a quel nuovo stato di cose.


Gabriella Cuscinà

   
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