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 Il momento della Storia, un mondo che parla
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Roberto Mahlab
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Inserito - 29/12/2013 :  19:13:06  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Roberto Mahlab Invia un Messaggio Privato a Roberto Mahlab
Una industriale malese mi racconta di come il governo pensa solo ad aumentare le difficoltà alle imprese con la classe politica interessata solo a mantenere le poltrone, un industriale cinese mi racconta di come il governo non garantisca la cassa malattia e la disoccupazione stia iniziando ad essere un problema, che l’età della pensione viene allungata e che la classe politica ignora le difficoltà quotidiane dei cittadini, oltre al pericolo di essere puniti se si approfitta davvero della libertà di espressione che solo a parole il governo garantisce.

Queste sono le risposte impreviste quando racconto le incredibili vicissitudini di chi lavora e crea posti di lavoro in Italia.

Intanto in India l’economia langue, le costruzioni di nuovi appartamenti non vengono completate, la moneta cade. In Brasile la crescita è precipitata, dalla Turchia all’Ucraina la società è in piazza. Uno scontento planetario che ha una identificazione, la classe media che si è moltiplicata a seguito della globalizzazione e, dopo la crisi finanziaria del 2008 si è ritrovata a dover pagare le conseguenze dei paurosi buchi degli stati che hanno rimesso in discussione la prosperità diffusa e raggiunta per le generazioni attuali e prossime. Di fronte non ci sono governi collaborativi, ma obsoleti, ancorati ad una visione dell’economia di uno stato mamma, anziché di semplice regolatore degli eccessi che, quando si sono presentati, sono passati inosservati da chi doveva controllarli. Un moto della società che ha uguali solo nei momenti di grande cambiamento storico, contemporaneo ad una diffusione dell’informazione capillare grazie ai nuovi media che addirittura sono divenuti il mezzo di comunicazione delle elites rivoluzionarie nel mondo arabo e nordafricano.

Tutto il mondo è paese, verrebbe voglia di dire in questa fine di 2013. Dovunque succede e dovunque si parla e,anche dove non si riesce a protestare, si parla e si sa.

Siamo forse alle soglie di un nuovo inizio del novecento, quando, come ben ricostruito dal padre della ecobiopsicologia italiana, il professor Diego Frigoli nel suo libro “Il corpo e l’anima”, “il pensiero freudiano si formò in un mondo alle soglie della decadenza, dominato da tensioni sociali ed economiche, in crisi culturale, di perdita di fedeltà a tradizioni, squassato da tensioni dilaganti collettive che aspiravano all'ebbrezza della libertà e la necessità di una nuova condizione sociale dell'uomo, il tramonto di un'epoca mettendone in luce le ipocrisie, i dubbi, i segreti, le ansie recondite”.

Il risveglio finì male, con le distruzioni belliche.

A differenza di allora, oggi il modello sembra quello junghiano che ha amplificato le caratteristiche dell’inconscio scoperto da Freud, dalla dimensione individuale a quella collettiva. E per questo la probabilità è che stavolta finisca in un altro modo.

Nell’agosto del 2011 la rivista Time pubblicò una copertina di una Europa in fiamme, il titolo era “Declino e caduta dell’Europa (e forse dell’occidente)”, gli articoli all’interno presentavano le statistiche delle differenze sociali, sempre maggiori tra chi aveva e chi non aveva, con le periferie delle grandi città in fiamme per la mancata integrazione dell’immigrazione, una unione europea in crisi e gli Stati Uniti troppo deboli per fare da solito traino.

Nel marzo del 2011 comparve su una rivista europea l’analisi di Ivan Krastev, considerato uno dei maggiori osservatori delle vicende contemporanee, L’autore affermava che nell’epoca del collasso dell’autoritarismo nel mondo arabo, in parallelo si assisteva alla crisi della democrazia in Europa con la fiducia nelle istituzioni in drammatica caduta e con la crescita di quello che definiva il “populismo”. Concetto, quello del populismo, che aveva già anticipato in un altro articolo del settembre del 2007 quando avvertì che i movimenti che lo rappresentavano non intendevano abolire la democrazia come quelli degli anni trenta del secolo scorso, ma anzi utilizzarla. Krastev individuava un conflitto tra le elites che si allontanavano dai valori democratici e le società arrabbiate che divenivano sempre più illiberali e riportava le statistiche Gallup secondo le quali solo un terzo della opinione pubblica globale riteneva che la propria voce fosse ascoltata dai rispettivi governi.

In un altro famoso articolo del 2011, Krastev scriveva la famosa frase :”siamo testimoni di una specie di 1968 alla rovescia, chi si ribella non si oppone allo status quo di ieri, ma lo vuole preservare”. Le nuove generazioni chiedono la stessa ricchezza, lo stesso benessere dei loro genitori. E’ proprio l’apertura delle nostre società che porta alla sfiducia a causa dell’inefficienza delle istituzioni democratiche.

Nel settembre del 2013 la rivista Foreign Affairs pubblica una recensione del libro di Joshua Kurlantzick dal titolo :”la democrazia in ritirata : la rivolta della classe media e il declino globale del governo rappresentativo”. L’autore sostiene che la democrazia sta soccombendo in ogni regione del mondo e che molti paesi in cui questo avviene si stanno trasformando in potenze regionali, come il Kenya, il Messico, la Nigeria e la Russia. Inoltre gli stati autoritari come la Russia e la Cina stringono le loro tenaglie. La responsabilità della “recessione democratica”; non viene attribuita solo alla caduta della crescita economica, ma anche ai travagli della modernità : la disuguaglianza economica, sistemi di welfare deboli, degrado ambientale, migrazioni di popoli. Questi fattori sono sfruttati dai regimi autoritari per ottenere il supporto delle classi medie spaventate. L’autore si spinge a sostenere che i regimi non democratici diventeranno modelli alternativi di autorità politica.

Del resto poche settimane erano passate dalle dichiarazioni pubbliche del governo cinese che sostenevano la superiorità del modello del partito unico rispetto alla democrazia di tipo occidentale.

L’articolo attuale più sensazionale rimane secondo me quello dell’Economist del 29 giugno del 2013, intitolato “La marcia della protesta”. Dal Brasile che si solleva contro l’aumento delle tariffe degli autobus, la Turchia in piazza contro i progetti di costruzioni, in Indonesia contro i prezzi del carburante, in Bulgaria contro la corruzione, nella zona euro contro l’austerità e nel mondo arabo contro l’intero sistema.

Un momento di passaggio storico, come nelle rivoluzioni del 1848, le prese di coscienza sociali del 1968 e il crollo del regime sovietico nel 1989, anche oggi le società scoprono una voce comune, velocemente, da un paese all’altro, addirittura le proteste sono più attive nelle democrazie che nelle dittature, chi protesta è la gente comune, la classe media, chi ha richieste generali e non particolari.
Le caratteristiche di questo momento storico sono che il ritmo della protesta viene accelerato dai mezzi tecnologici attuali, la contestazione non è organizzata da sindacati o centri di potere, ma anche da piccoli gruppi di persone decise, da movimenti spontanei, che a volte scompaiono con la stessa rapidità con la quale sono comparsi, come Occupy. Sono proteste causate dallo scontento, dai fallimenti dei governi, delusioni diffuse che hanno preso il posto dell’opposizione politica spiazzata anch’essa. Popolazioni che si aspettavano che il trend della crescita e della prosperità fosse infinito, si sono ritrovate, come in Brasile, a veder crollare il prodotto interno lordo dal 7,5 percento allo 0,9 percento e quaranta milioni di brasiliani usciti dalla povertà durante gli scorsi otto anni, adesso voglio verificare dove vanno a finire le loro tasse. In India sono in piazza i giovani a protestare contro la violenza sulle donne, in Turchia i giovani contestano i divieti di origine religiosa,.

L’articolo si chiede infine dove tutto questo condurrà nella nuova realtà di una democrazia più complessa, in cui da un momento all’altro le piazze si possono riempire di milioni di persone. La speranza è che le democrazie mantengano la capacità di adattarsi e che i politici accettino che le società si aspettano il meglio, almeno per garantirsi la rielezione.

Riguardo al sistema che ne risulterà vincente, l’Economist ironizza sul fatto che il potere nelle democrazie può invidiare la capacità delle dittature di far cessare le proteste. Ma con il tempo le autocrazie pagheranno il prezzo dell’uso della forza per cacciare la gente dalle strade.

Una ricetta è proposta nella pagina dei commenti dell’International New York Times del 20 novembre 2013. Jeffrey Anderson, direttore di una istituzione finanziaria di Washington e John Ott, dirigente di una importante società, dicono semplicemente, relativamente al nostro continente :”Liberare la piccola impresa europea dall’eccesso di regolamentazione che blocca la crescita dell’occupazione e rallenta la ripresa economica”.

Zachary Seward, editorialista della rivista Quartz, famosa per la capacità di seguire lo sviluppo tecnologico attuale, ricorda come Isaac Asimov si immaginò cinquanta anni fa sul New York Times quello che sarebbe stato il mondo nel 2013. Fa impressione come previde le auto che non hanno più bisogno del guidatore, l’automazione in cucina, le lenti fotocromatiche e così via.

Ma Asimov predisse anche che nei nostri anni i lavori di routine sarebbero stati tutti automatizzati, con la conseguenza che l’elite dell’umanità sarebbe stata formata da chi fosse coinvolto in mestieri creativi, perché è l’unico modo di fare qualcosa di diverso da quello che fanno ormai le macchine.

L’editorialista aggiunge che lo sviluppo delle tecnologie, dai robot alle stampanti 3-D, è inevitabile e provoca la fine dei mestieri tradizionali, con il rischio di non poter più tornare al pieno impiego e che le giovani generazioni dell’Europa in crisi siano perdute e che in Cina il problema della crescente richiesta di lavoro non sia soddisfatta.

Il mondo, conclude l’articolo, deve iniziare a confrontarsi con questi argomenti.

Dove sta l’Italia in questo processo storico? Potrà rimanere ancorata a politiche corrotte e insensibili, al lavoro perseguitato e ad una informazione che nasconde quanto accade nel resto del pianeta? Io credo proprio di no e che il nostro paese presto dovrà riaprirsi alla realtà. Se non lo farà una classe politica improvvisamente illuminata e al livello di quella delle altre grandi democrazie, lo farà la società creandosi nuove rappresentatività.

Roberto Mahlab

   
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