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 della pesca e del fiume 3
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massimo
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Inserito - 03/07/2003 :  15:36:32  Mostra Profilo  Visita la Homepage di massimo Invia un Messaggio Privato a massimo
Rivedo il fiume

Con l’inizio della scuola, il ritmo delle nostre giornate cambiò. Alla mattina le lezioni, al pomeriggio i compiti, il tempo dedicato al gioco era ora sotto controllo e legato ad orari ben precisi. Non si sgarrava più come in estate, quando un ritardo era tollerato.
Ci trovammo in autunno e, prima di quanto non lo aspettassimo, venne anche l’inverno. Cominciarono le nevicate, quelle belle, di una volta, che ci relegavano in casa. Poi il sole, ed allora tutti fuori, a godere della neve. Sciate con gli amici, nei prati sottostanti casa mia, o discese spericolate con la slitta, sempre in gara tra di noi. Battaglie a palle di neve, pupazzi, igloo, questi erano i miei giochi, comuni a tutti i ragazzi della mia età.
Mi dimenticavo del fiume in quel biancore, preso com’ero da altri interessi. Dimenticata o quasi la pesca, che riaffiorava ogni tanto come un bel ricordo, solo legato al sole ed al caldo dell’estate. Infine la neve cominciò a sciogliersi, lasciando il posto al verde ancora spento dell’erba. Chiazze che si ingrandivano col passare dei giorni, maculando quel manto bianco. Un paio di giorni di scirocco e della neve nessuna traccia. I contadini cominciavano a bruciare le stoppie ed il fieno secco, e quell’odore di fumo era un altro segnale che l’inverno era finito.
L’avanzare della bella stagione, rinverdiva l’erba e le faceva prendere il colore della primavera, e mi spingeva, a volte solo, più spesso coi miei compagni di giochi, verso i boschi, a più stretto contato con la natura. Il caldo, il sole e le giornate che si facevano più lunghe, mi cominciarono a ricordare l’estate precedente e mi assaliva la voglia di rivedere il fiume. Credo che fossimo a fine marzo o inizio aprile.
Un giorno decisi di andarci, a piedi. Era una bella camminata, ma ero un ragazzino pieno di energie dal passo veloce, e non mi spaventava certo camminare. Poi era una sfida, quasi un’impresa.
M’incamminai subito dopo pranzo, avendo davanti l’intero pomeriggio e la certezza che sarei riuscito a tornare in tempo per la cena. Presi la strada che portava a Pian della Valle, passando davanti all’oratorio di Santa Lucia ed attraversando un gruppo di case denominate Treggiara. Prima dell’oratorio mi infilai per un sentiero che attraversava un bosco, che conoscevo bene, perché era uno dei posti preferiti da noi ragazzi e dove spesso andavamo a giocare. Invece di seguire i sentieri usuali, arrivai ai limiti di quello che consideravamo un confine ultimo, invalicabile, e, per la prima volta, lo superai.
Attraversai un campo, poi una carraia, poi continuai per prati e campi che non conoscevo, per rientrare infine in un altro bosco del tutto sconosciuto. Cominciò prendermi una specie di frenesia che mi imponeva di affrettare il passo, quasi a correre, con l’ansia di arrivare che si faceva sempre più pressante.
O forse inconsciamente si stava insinuando in me la paura di avere iniziato un’impresa al di sopra delle mie possibilità ed era subentrata la fretta di portarla a termine nel più breve tempo possibile.
Il bosco che stavo attraversando era poco agevole ed intricato. Non percorrevo alcun sentiero, ma mi limitavo a scendere verso valle, seguendo una linea retta che mi indirizzava al fiume. Ero costretto allora a schivare continuamente rami, siepi di rovi, cespugli, macchie arbustive più fitte ed impenetrabili, aggirando gli ostacoli solo quando era impossibile attraversarli.
Quasi correndo intento ad ascoltare il battito del cuore ed il mio ansimare, non mi ero reso conto di un suono diverso dal solito, una specie di rombo. Era la voce del fiume, che scorreva sotto di me, molto vicino, ma che ancora non riuscivo a vedere. Superata infine l’ultima siepe di cespugli spinosi, mi trovai in una specie di terrazza erbosa, pochi passi ancora e finalmente lo vidi.
Ero arrivato su un costone, la cui sponda degradava ripida verso il grato del fiume sottostante, per almeno una decina di metri. Io, dall’orlo di quel dirupo, riuscivo a vederne un buon tratto sia a monte che a valle. Diverso, assolutamente diverso da come lo ricordavo.
Non mi piaceva, ma ne ero affascinato. Il greto stretto, i sassi bagnati, fangosi. Predominava il colore grigio, e la violenza. Un fiume in piena era quello che stavo osservando ammirato, che scivolava rapido verso valle come un gigantesco serpente, di cui non vedevo capo e coda. Nulla che potessi associare all’acqua chiara, che si divideva tra i massi, in rivoli luccicanti, piccole cascatelle seguite dalle pozze più calme, che sgusciava via nuovamente, in piccole spumeggianti rapide.
Ora era una massa unica, compatta, che si infrangeva rabbiosamente, spesso superandoli di slancio, contro i pochi massi superstiti, formando una schiuma densa e compatta, biancastra, saponosa. Nei gorghi, giravano all’impazzata rifiuti di ogni genere, rami, foglie, presto catturati nuovamente dalla corrente e trascinati verso valle, in quella che mia appariva una folle corsa, senza alcuna possibilità di vittoria. L’acqua grigia, plumbea, compatta, che nulla lasciava trasparire oltre la superficie. Gli alberi, coi rami spogli protesi verso il fiume, le radici divelte abbarbicate alla riva, strette ai sassi, con borsine di plastica appese, quasi stupidi regali.
Dove il greto si allargava si ammucchiavano montagne di rami, foglie, erbe seccate, radici, tronchi, strettamente intessuti tra loro, a formare una nuova specie di mostri fluviali.
Ovunque il rombo possente dell’acqua, un tuono sommesso e continuo, ipnotico nella sua monotonia. Guardando il cielo mi accorsi che l’ultima nuvola nera aveva coperto il sole, ed il cielo minacciava un temporale. Mi girai svelto, con un’ultima occhiata al fiume e presi la via del ritorno. Dovevo affrettarmi, non era solo questione di tempo, ma di anticipare l’acquazzone incipiente.
Cominciai a correre, col cuore che scoppiava nel petto, ed il respiro che si faceva sempre più rapido e bruciante. Ogni tanto ero costretto a fermarmi, per prendere fiato, e dare requie alle gambe che si rifiutavano di proseguire. Un po’ correndo, rallentando fino a camminare quando mi mancavano le forze, raggiunsi finalmente il bosco conosciuto. Ora potevo calmarmi un poco, ero in un luogo abituale e non temevo di arrivare in ritardo. Se avessi preso la pioggia, avrei potuto dare una giustificazione a mia madre, poiché ero all’interno dei confini consentiti. Le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere pesanti, prima rade, poi sempre più fitte, quando era in vita di casa mia. Ancora una veloce corsa ed ero in casa, con qualche goccia di pioggia che si limitava a scorrermi sul viso ed ad incollarmi i capelli. A letto, alla sera, chiudendo gli occhi, rivedevo quell’onda immensa e potevo risentire la voce tonante del fiume in piena.

   
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