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 La leva calcistica della classe'68
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LA LEVA CALCISTICA DELLA CLASSE'68

Sole sul tetto dei palazzi in costruzione,
sole che batte sul campo di pallone e terra
e polvere che tira vento e poi magari piove.

Nino cammina che sembra un uomo,
con le scarpette di gomma dura,
dodici anni e il cuore pieno di paura.
Ma Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore,
non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore,
un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia.

E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai di giocatori
che non hanno vinto mai
ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro
e adesso ridono dentro a un bar,
e sono innamorati da dieci anni
con una donna che non hanno amato mai.
Chissà quanti ne hai veduti, chissà quanti ne vedrai.

Nino capì fin dal primo momento,
l'allenatore sembrava contento
e allora mise il cuore dentro alle scarpe
e corse più veloce del vento.

Prese un pallone che sembrava stregato,
accanto al piede rimaneva incollato,
entrò nell'area, tirò senza guardare
ed il portiere lo fece passare.

Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore,
non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore,
un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia.

Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette,
questo altro anno giocherà con la maglia numero sette.


De Gregori come Montale.
Affermazione forse forte per alcuni ma credo si debba sempre tener conto delle sensazioni interiori di ogni commentatore che si accinga a scrivere circa un componimento.
Nell’ambito dei cantautori italiani, a mio modesto parere, De Gregori assume il ruolo di artista eclettico, ricercato e, per gli intenditori, inarrivabile che rappresenta Eugenio Montale per la poesia.
Spiegando un testo del cantautore De Gregori (forse davvero l’unico vero artista che è sempre stato cantautore), si ha la consapevolezza che molte cose siano rimaste dentro lo scrittore e che molte altre cose siano ancora dentro a chi commenta il testo stesso ma talmente insite nell’animo, talmente profonde che forse è impossibile cacciare e probabilmente è giusto che sia così.
Passando al testo: l’intera canzone è una metafora. Il testo è una continua metafora (come molti testi di De Gregori) che ci prende per mano, ci conduce attraverso mondi che nulla hanno a che fare ma che forse (ce lo fanno capire le nostre sensazioni risvegliate dal continuo “tropos” del testo) è indispensabile mettere insieme per giustificare l’esistenza dell’assolutezza della vita, dove ogni cosa può essere un simbolo ed un messaggio da leggere come forza risolutrice del dubbio.
“Sole sul tetto dei palazzi in costruzione, sole che batte sul campo di pallone…”: inizio della metafora. E’ indubbio che la classe’68 non è stata scelta a caso. Quell’anno è sinonimo di rivoluzione, di moti nei quali riporre sogni, dubbi, insofferenze da sfogare. Proprio da qui si inizia col testo, da quei palazzi in costruzione simbolo di un rimboccarsi le maniche, simbolo del dopo “Roma città aperta” di rosselliniana memoria. Quei palazzi in costruzione sono i giovani del ’68 che ripongono speranze nel futuro, il sole li illumina, è arrivato il loro momento, si può iniziare a sognare, a vivere, a combattere, con un parallelismo tra vita e sogno che in questa canzone sfocia in arte pura e semplice. Ecco poi la metafora: il sole batte anche sul campo di pallone, come in un accostamento cinematografico (ecco la grandezza di De Gregori che ci regala questa immagine quasi avesse una macchina da presa) che ci fa tuffare nel realismo o neorealismo (per rimanere in ambito cinematografico) che dir si voglia del tempo. Nella realtà che quasi ti fa cadere le braccia e che ti invita a spegnere il sogno rappresentata dalla “…terra e polvere che tira vento e poi magari piove…”, quella realtà alla quale reagisce la forza di un’Italia che nei momenti peggiori sa rinascere.
Da quando sono piccolo ascolto questa canzone e, senza esagerare, da sempre ho riflettuto su questa frase: in particolare su quel “magari”. Quel “magari” viene proprio dopo che la terra e la polvere avevano consacrato la giornata come irrimediabilmente torrida e soleggiata. Quel “magari” dovrebbe rappresentare una ulteriore situazione positiva, dovrebbe essere un “perciò”. Invece piove. Invece si capovolge la situazione di stasi, di sicurezza e di calore nella quale i bambini (metafora della vita e del vivere, del sogno parallelato alla vita) possono giocare in tutta tranquillità. Non c’è nulla di sicuro, “magari” dopo una grande felicità c’è subito una enorme tristezza; ed infatti piove. Come se si è vicino alla verità (è in sintesi il senso che mi dà questa canzone) e poi “magari” si è ad anni luce di distanza ma occorre continuare a sognare, pensare che non bisogna aver paura di sognare, come non bisogna aver paura di sbagliare un rigore.
Ed il sogno non si pone confini. Accade anche che un bimbo, nella fattispecie Nino “…cammina che sembra un uomo…”, come una immagine genuina di chi entra nel campo della vita e vuole iniziare a vivere (immagine spesso rappresentata dalla “prima sigaretta per sentirsi grandi”), a vivere una vita che altri già hanno vissuto e vivono tuttora ma che lui vuole cambiare. La vuole cambiare perché ha paura. Non si spiegherebbe, infatti, questa paura se lui volesse vivere una vita anonima, come le altre. Lui ha in testa un sogno, qualcosa di importante da fare, per questo ha paura. Ha paura di non farcela, di “…ridere dentro al bar…” come chi ha già “…appeso le scarpe a qualche tipo di muro…”: loro non hanno paura di niente perché non si pongono sogni da realizzare. Magari prendono anche in giro i sognatori o i “…battitori di rigore…” ma non si assumerebbero mai l’incombenza di battere un rigore decisivo, non capirebbero mai cosa davvero voglia dire sognare. Ecco perché Nino ha tutto il diritto di aver paura. Perché non vuole diventare come “loro”, e ne vede tanti!
L’ingrasso di Nino mi fa pensare anche alla genuinità del gioco del calcio giocato da dei ragazzini. La terra e la polvere dei campetti di periferia mi riporta alla mia (e di molti) infanzia dietro ad un pallone. A volte ci si dimentica davanti alla TV di un bar, riuniti a vedere l’Italia ad un mondiale, che quella alla quale si sta assistendo è una partita di calcio. Calcio come calcio era quello che facevamo noi da bambini, e c’è una citazione che vorrei fare: ricorrente nelle canzoni di Baglioni è l’immagine dei cappotti per terra a far da palo per le porte dei campi dei bimbi per strada. Quel cappotto per terra è sintomo di libertà (quanti di noi da bambini non volevano mettersi i cappotti?) al quadrato perché permette anche di giocare e divertirsi. Ed i bimbi che giocano assomigliano, anzi sono lo specchio dei nostri miliardari in calzoncini e calzettoni. In occasione dei mondiali di calcio del 1998 Baglioni pubblicò un album che conteneva, tra le altre canzoni, l’inno dei mondiali per l’Italia, che poi è lo stesso che fino a poco tempo fa davano alla Tv prima di ogni partita degli azzurri (“…Un azzuuuuuurro luuuuungo un sooooognooooo…”). Beh, in quell’album c’è una specie di canzone parlata intitolata “Prima del calcio di rigore” (ho inserito il testo completo in “Due chiacchiere” nel messaggio che parla dell’Italia fuori dai mondiali). Mi piacerebbe riportare qui un pezzo significativo che poi è il pezzo finale della canzone:

L'ultima e' Roberto che spara troppo alto alla
lotteria dei rigori
sembra ieri ma ne e' passato del tempo e il conto
ormai segna cento
a pensarlo cosi' in ginocchio sul dischetto
sotto lo sguardo da marmo greco dei compagni
sequestrati a centro campo
capisci che la vita scorre in gran parte prima del
calcio di rigore
e che la distanza che ti separa dalle cose e' quella
c'e' sempre uno che fischia
e un altro ti fissa con occhi di lava
la cosa piu' difficile e' capire che il senso non sta
nel buttarla dentro o fuori
ma nel prendere la rincorsa
e tirare
Fammi tornare sull'asfalto amaro
sotto un sole che non dà ombre
cartelle e cappotti a far da palo
e polvere e vento e sale
fino a quando fa scuro e non ci si vede piu'
e l'aria brucia in gola e fa tossire
ho ancora voglia di sentire una voce che chiama
e di capire che e' ora di rientrare.

Qualcuno può aiutarmi a capire chi è quel Roberto???? Sicuramente l’accostamento concettuale è involontario ma la verità di fondo riporta al fatto che “…la cosa più difficile è capire che il senso non sta nel buttarla dentro o fuori, ma prendere la rincorsa e tirare…”: prendere i propri sogni e correre incontro alla vita, prendere di petto le situazioni con un bagaglio enorme di speranza. Così capiremo che è questo che la nostra indole voleva da noi, che il senso innato di essere al mondo ci spinge a vivere con e per i propri sogni. Come per un bimbo è importante correre dietro ad un pallone “…sotto a un sole che non dà ombre, cartelle e cappotti a far da palo e polvere e vento e sale fino a quando fa scuro e non ci si vede più…”, così un calciatore vorrebbe tornare alla genuinità delle partite da bambino, magari per accorgersi che lo spirito non è affatto mutato, ma solo dentro di lui, non di certo dentro a quelli che “…ridono dentro al bar…” e che certo lo condannano per aver sbagliato quel rigore, quindi per aver sognato e lottato per i propri sogni, cosa che loro non hanno fatto e mai farebbero.
“Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia”. Inutile sottolineare ancora il parallelismo con la vita e con le caratteristiche del giocatore-uomo. Tutto molto bello (come direbbe Pizzul).
“Nino capì fin dal primo momento…”: ecco che Nino vince finalmente le sue paure e sa di poter realizzare il suo sogno. Lo capisce fin dal primo momento, quindi è innata in lui la voglia di realizzare i suoi sogni. Aspettava solo il sì dell’allenatore che lo mettesse in campo. Solo la possibilità, un’opportunità da non farsi scappare assolutamente: per poter mettere il “…cuore dentro alle scarpe e correre più veloce del vento”. Ecco la spinta vitale, la voglia di riuscire che ti fa sorridere alla vita e che ti fa pensare che se anche nel mondo esistesse una stella alpina sola, situata nel luogo più recondito e deserto della terra, arido di rocce aguzze e cime contorniate da altrettante vette e dirupi, calanchi inarrivabili, tu puntualmente le saresti ad un passo e la raccoglieresti per darla al tuo amore, perché è quello stesso amore che ti ha dato la forza di abbattere ogni barriera.
Dio solo sa in quante forme abbiamo noi la fortuna di poter vedere e riconoscere l’amore!
Nino prende un pallone che sembrava stregato e lo fa suo, lo controlla, gli si incolla al piede, “…tirò senza guardare ed il portiere lo fece passare.”: quanta grandezza in questa frase! De Gregori avrebbe potuto dire “ la palla entra in rete” (certo, magari rispettando metrica e rima alla sua maniera). Allora perché preferisce proprio quelle parole? A mio avviso per rendere ancora meglio l’idea del sogno, sogno che non è detto si realizzi sempre (anzi la maggior parte delle volte si sogna proprio “…dietro ciò che non sarà…” come dice Guccini). Per questo l’autore qui sceglie proprio queste parole: perché magari Nino ha solo davvero sognato questo gol e nel sogno si sa che tutto e come meglio a noi piace o almeno al nostro inconscio. Rimane comunque il sogno, quello per il quale Nino combatterà per tutta la vita, anche se “magari” poi sul più bello lo sorprenderà la pioggia. Forse anche lui diventerà un giocatore triste che non ha vinto mai, è questa frase che ci fa capire che a volte certe cose si possono solo sognare perché nella realtà il portiere non la fa mai passare, la para, lui è lì per parare non per fare passare, l’importante però è provarci.
Anche se Nino diventerà un giocatore triste però, il mister gli ha dato la maglia numero sette come la gratificazione per un sognatore, anche se l’avrà solo questo altro anno. Anche se magari forse è solo un altro sogno al quale correre dietro (infatti non gliela dà subito).
Di sicuro lui alla fine della sua carriera, da giocatore triste, saprà che ne è valsa la pena di prendere quella rincorsa e tirare.
Assolutamente.


"...e che questa vecchia ribelle speranza non sia più l'assurda distanza tra gli occhi e le stelle..."

   
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