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 4 Favole e Racconti / Tales - Galleria artistica
 Auschwitz.
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elisabetta
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Inserito - 27/02/2003 :  21:53:48  Mostra Profilo  Visita la Homepage di elisabetta Invia un Messaggio Privato a elisabetta

Pochissime altre volte mi era accaduto che un luogo mi fosse entrato tanto dentro e che mi legasse a sé. O ad un’altra persona.
Mi era capitato solo ad Auschwitz. Un paio di anni prima. Auschwitz. Un luogo da dimenticare o un luogo da ricordare? Un luogo dove l’amore per mio nonno mi aveva portato.
Un luogo che io avevo paura persino di nominare. Un luogo che era entrato improvvisamente nel mio immaginario. Ma avevo dovuto andarci. Per i miei nonni. Per mio nonno che era rimasto là per alcuni mesi. Loro non erano ebrei, ma avevano uno strano legame con loro. Un legame che a quell’epoca ancora non conoscevo.
Quando ero andata ad Auschwitz avevo camminato negli stessi viali che migliaia di loro avevano percorso. Avevo toccato con le mie mani ciò che loro avevano toccato. Avevo sentito dentro la mia anima ciò che loro avevano sentito.
La loro presenza era ancora ovunque. Nelle pietre. Nei mattoni. Nelle baracche di legno. Nella terra che i miei piedi solcavano. Che le miei mani tremanti sfioravano.
Le lacrime erano scese dai miei occhi pieni di pianto che fino ad allora io non avevo espresso. Auschwitz: già il nome era una maledizione per chi ci era stato. Per chi si era salvato. Per chi era sopravvissuto. E per chi ne aveva sentito parlare improvvisamente come era successo a me.
Mio nonno si era salvato. Era un sopravvissuto. Aveva ancora il numero inciso nella sua carne. Me lo aveva fatto vedere tante e tante volte. Auschwitz veniva fuori nei suoi racconti. E anche con mio padre.
E lì ad Auschwitz in quelle poche ore avevo capito di più del loro passato. Forse ora ero in grado di capire e di accettare la pesante eredità che mi avevano lasciato.
Ed ora percorrere quei viali stretti e circondati dal filo spinato. Attraversare le varie sale del museo. Tutte quelle valigie con i nomi scritti in bianco dietro a quel grande vetro dall’aria così cupa. E tutte quelle scarpe. Migliaia e migliaia di scarpe. Piccole e grandi. E quelle spazzole per capelli. Quei pennelli da barba e tutti quei capelli... Era agghiacciante.
Era atroce pensare a tutte quelle persone che erano entrate lì credendo di fare una doccia e che invece erano state gassate con il Cyclon B.
Ma visitare Birkenau fu ancora più straziante e dilaniante. Camminai per un tratto lunghissimo sulla banchina accanto ai binari della ferrovia che portava alla morte. Camminai e camminai ancora. Sembrava non avere mai fine la strada per i forni crematori.
E le baracche di legno ancora in piedi. Con dei buchi terribili al posto delle latrine. Mi sentii quasi svenire. Mi sembrava di sentire l’odore di carne bruciata ed il fetore degli escrementi depositati dovunque. E l’odore della morte era dappertutto. Lo sentivo anch’io. Anche se erano passati cinquant’anni e se non c’ero mai stata prima.
Ma mi feci forza. Lo dovevo ai miei nonni e ai quei sei milioni di persone scomparse nel nulla. Il ricordo della Shoà era entrato nella mia vita e nel mio cuore tardi, ma con una grande intensità. Vedere quei numeri impressi per sempre nella loro carne. Sentire i racconti del nonno e della nonna. Leggere ciò che avevano scritto per papà. Di come avevano combattuto per la resistenza ebraica. Di come erano stati catturati a Varsavia dopo la distruzione del ghetto. Di come erano stati messi sui treni piombati. Delle urla e dei gemiti dei bambini e dei neonati che morivano sui treni ancora attaccati al seno materno che ormai non aveva più latte. Di come erano sopravvissuti all’orrore e alla ferocia nazista.


elisabetta

   
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