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 In fuga dalla guerra
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Roberto Mahlab
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Inserito - 20/08/2017 :  20:23:57  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Roberto Mahlab Invia un Messaggio Privato a Roberto Mahlab
Alto e magro, indossa una tuta, si guarda attorno come se fosse stordito, ignaro di dove si trova. Arriva dall'Eritrea, uno della quarantina di ragazzi cattolici o cristiani copti, dai 14 ai 17 anni, sfuggiti al servizio militare a vita al servizio della tirannia del paese e ospitati ieri sera nell'ala separata del Memoriale della Shoah a Milano. La sera prima lo avevano fatto entrare per la cena, aveva fatto qualche passo e poi era fuggito fuori. L'orrore che avvolge il suo animo e che i medici sono riusciti a fargli mormorare, il padre ucciso davanti a lui nel corso della permanenza in Libia, prima di salire sul barcone.

Sul registro all'ingresso delle sale, l'origine e l'età di ciascun ragazzo, si mettono in fila ordinata e poi si avviano ai tavoli dove sta per essere servita la cena da parte dei volontari di Sant'Egidio. Silenziosi, rispettosi, ordinati, i ragazzi mangiano con appetito. Sul registro è segnata solo una provenienza diversa dalla cristiana Eritrea, un ragazzo musulmano fuggito dalla Somalia, 15 anni. Chiedo all'antropologa Maryan Ismail la causa di tale fuga e mi ricorda che la Somalia è in gran parte uno stato senza legge in cui le milizie integraliste islamiche vanno a caccia dei ragazzi per arruolarli nelle loro fila, i famigerati Shebab.

Il coraggio di quei ragazzi e delle loro famiglie, la fuga da un destino disumano, in cui sarebbero costretti ad uccidere e ad essere uccisi, un destino senza alcuna via di uscita, se non la fuga, 'profughi minori non accompagnati', come vengono denominati dalle nostre autorità.

Maryan mi fa da interprete mentre chiedo al ragazzo somalo quali sono stati i suoi studi, "ha finito le medie", e cosa vorrebbe fare adesso che è in salvo in Italia, "lavorare". Lo sguardo e le risposte del ragazzo, come di tutti gli altri, sono da persona adulta, responsabile, sguardo e risposte che i ragazzi del nostro occidente per fortuna non hanno nel loro vivere il tempo giusto di una esistenza al riparo dalla violenza.

Spiego a Maryan un cruccio, quale tipo di lavoro sperano di trovare questi ragazzi, la crisi epocale iniziata nel 2008 ha cambiato i riferimenti, siamo entrati in un futuro di tecnologia, le stampanti 3D, la ricerca spaziale e medica, si parla di robot, questi ragazzi che provengono da un mondo oppressivo, chiuso all'informazione, sanno che il lavoro oggi lo si ottiene se si frequentano i laboratori e se si apprendono le nuove tecnologie? Maryan estrae il cellulare collegato a internet e inizia a mostrare al ragazzo delle immagini delle nuove scoperte dallo spazio e gli occhi del ragazzo si illuminano, forse, pensiamo, raccontare a questi ragazzi il nuovo mondo, darà loro la voglia di sentire di volerne essere parte.
Si unisce a noi una importante e brava giornalista, fino a quel momento è andata in giro sia dentro le sale dove sono ospitati i ragazzi, sia fuori, ad ascoltare i racconti drammatici dei profughi di cui vuole scrivere.

Si avvicina il sorriso serio di Roberto Jarach, l'esponente della comunità ebraica di Milano e vicepresidente della Fondazione, che dà cuore e anima per il progetto, si accerta che tutto proceda perfettamente, parla con ogni volontario, con ogni responsabile, controlla ogni sala, ogni gesto, ogni voce.

Diversi ragazzi intanto si sdraiano sulle brande per dormire, è una sera d'estate molto calda, la temperatura dentro le sale è elevata come fuori.

Mentre Maryan risponde alle domande della giornalista, il ragazzo somalo rimane seduto insieme a noi, anche se non capisce quello che diciamo, si sente compreso, accettato, un adulto tra gli adulti.
Non possiamo fare a meno di voltarci verso il ragazzo eritreo dallo sguardo perso, sposta senza voglia la forchetta nel piatto, la dottoressa che segue il centro prova ad imboccarlo, ma lui scuote la testa. I volontari gli portano della frutta, un melone e lui lo addenta, con convinzione. Ci pregano di non voltarci a guardarlo, gli hanno dato delle medicine per calmarlo, hanno paura che faccia come la sera precedente e fugga fuori.

Altri ragazzi si avvicinano, si presentano, stringiamo loro le mani, potrebbero essere uno qualunque dei ragazzi che in quello stesso momento affollano i bei locali della nostra bellissima città. Maryan mi spiega che quei ragazzi verranno divisi tra diversi centri di accoglienza, le chiedo se studieranno e lei mi risponde di sì, ma probabilmente non saranno corsi alla stessa altezza di quella che consideriamo una scuola normale.

I volti dei volontari che servono la cena ai ragazzi, con il passare delle ore diventano pallidi, tirati, si fanno in quattro per rispondere ad ogni richiesta degli ospiti. Mi vengono in mente le scene dei film in cui i feriti di guerra vengono assistiti negli ospedali da medici e infermieri consapevoli di avere di fronte l'enormità, senza una parola, con la convinzione di stare assistendo l'umanità.

La giornalista ci dice di avere raccolto abbastanza dati per il suo articolo e usciamo, ci sono le persone a cui vengono date delle responsabilità ufficiose della gestione, un italiano che conosce ogni ragazzo e ogni storia, vive in un camper. Un tunisino di nascita, a Milano da quaranta anni, dopo aver perso il lavoro, aveva una pizzeria che ha dovuto chiudere, è diventato il collegamento tra profughi e assistenti. Non ha una casa. Dopo aver risposto alle domande della giornalista, saluta e si va a sedere su un rialzo di pietra del contorno del giardinetto della strada. Un volontario gli porta un piatto di pasta e gli versa dell'acqua e lui si mette a mangiare in quella posizione scomoda con la dignità di chi è ospite di un ristorante di lusso. La dignitosa povertà di quelle incredibili persone al servizio della sofferenza di quei tormentati ragazzi accolti nella struttura.

Ma c'è un fuori.

Decine di persone. "Quelli sono sudanesi", ci spiegano indicandoci due persone sdraiate su dei materassi, fuggono dalle varie guerre civili che insanguinano il paese." Sono di etnie che là si combattono, ma qui dividono il pane".

Un uomo, profugo siriano, è appoggiato ad una colonna, una grande sacca nera ai suoi piedi, si nota che è spaventato, non riesce a capire come sia stato possibile che la guerra lo abbia privato di una normale esistenza e adesso si trovi a Milano, senza niente, a dover aspettare un piatto di pasta.

"Arrivano anche curdi iracheni, non c'è zona di conflitto che non sia rappresentata", ci raccontano i responsabili. Non tutti possono venire accolti all'interno del centro che ha una determinata capacità, ci sono procedure per stabilire chi ha la precedenza.
Ma c'è un altro fuori ancora.

Nei giardinetti di fronte ci sono una trentina di ragazzi di origine africana, i volontari portano loro il cibo che è avanzato. Sono in una terra di nessuno, alcuni dovranno tornare ai paesi di provenienza. "La stima va da alcune centinaia ai duemila nella nostra città", ci spiega un responsabile, "e sono le persone più a rischio di essere preda della malavita. Alcuni di loro vengono coinvolti in piccole bande di spaccio, con un ferreo comportamento di solidarietà degli illeciti guadagni da dividere tra gli appartenenti al loro gruppo. Poi ci sono i ragazzi che chiedono l'elemosina di fronte ai supermercati, sono preda di un racket a cui sono obbligati a versare gran parte di quello che ricevono, si tratta di racket che prima operavano direttamente, adesso hanno trovato chi sfruttare e può fare il lavoro per loro".

Il caldo è sempre più opprimente e si levano gli odori di persone costrette a fare le necessità all'aperto. Ma non ci muoviamo, la giornalista pone questioni a tutti, un ragazzo le si avvicina, l'ha vista fumare, chiede una sigaretta e lei gliela offre sorridendo e gliela accende e sul volto del ragazzo la gratitudine.

Salutiamo tutti e saliamo in macchina per il ritorno alle nostre case, a pochi metri i grattacieli, una metropoli viva in un mondo modernissimo, in un paese potenza industriale che sta lottando per togliersi le catene della crisi storica del 2008. E che intanto accoglie i profughi di guerra, arrivati in un paese gentile, anche se il loro futuro non è chiaro.

La giornalista si collega a internet via cellulare, legge le notizie di nuovi sbarchi, barche con vele che arrivano direttamente ad attraccare sulle nostre coste, dopo l'entrata in vigore delle nuove norme per le navi delle ong.

Decido di non scrivere nulla di quanto ho visto, troppa sofferenza, sento come se violassi l'intimità di tutte quelle persone. Poi mi sveglio alle quattro del mattino per un incubo in cui sto attaccando in continuazione sulle pareti le parole :"sta succedendo, è vero", perché qualcuno me le cancella. Mi alzo e decido allora di scrivere. Sta succedendo, è vero.

   
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