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 Marina Nemat, "prigioniera di Teheran"
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Roberto Mahlab
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Inserito - 16/11/2010 :  23:17:44  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Roberto Mahlab  Replica con Citazione Invia un Messaggio Privato a Roberto Mahlab

Nella affascinante cornice del salone del Centro Culturale di Milano, la scrittrice Marina Nemat, esule dall'Iran e rifugiata in Canada, già autrice di "Prigioniera di Teheran", ha presentato il suo nuovo libro, "Dopo Teheran", trascinando il nutrito pubblico in una profonda e straordinaria sequenza di riflessioni psicologiche.

Marina racconta come per due anni, quando ne aveva 16 fino ai 18, fu tenuta imprigionata nel carcere di Evin, luogo in cui il regime degli ayatollah iraniani rinchiude coloro che considera i dissidenti al governo. Era il 1982, la rivoluzione islamica di Khomeini aveva spazzato via lo shah Reza Palhavi, Marina aveva solamente fatto una osservazione innocente sulle modifiche dei corsi a scuola, per questo fu portata via e sottoposta alla tortura, insieme a tantissimi giovani che subirono la stessa sorte.
Quando fu liberata e tornò a casa, la prima sera a cena i genitori parlarono del tempo. Per allontanarsi dal dramma, si corre in direzione opposta, osserva la scrittrice.
L'intero Iran non voleva vedere, i morti erano migliaia e il paese girava il viso altrove, proprio come la famiglia di Marina, per non sapere, non riconoscere le atrocità significava non sentirsi dire, un giorno, :"ma quando tutto questo avveniva, tu dov'eri?". La memoria esiste, ma nessuno la vuole accettare. La memoria infine si trasforma in narrazione il cui valore è di modificare la relaazione con sé stessi e con gli altri.

Dal pubblico chiedono all'autrice se ha conosciuto Marjane Satrapi, l'autrice iraniana del celeberrimo Persepolis, racconto in strisce ripreso anche dal cinema, Marina risponde che Marjane era ancora più giovane di lei quando se ne andò dall'Iran e poi le chiedono dei suoi rapporti con le donne italiane che ha conosciuto e Marina dice che è una abilità dei regimi dividere le persone, mentre la sua opinione è che non esiste differenza interiore di nazionalità tra le donne.

Le chiedono quali sono stati i segni di cambiamento che hanno condotto l'Iran a precipitare nella tirannia degli ayatollah. Marina racconta che per sei mesi, dopo la caduta dello shah, ci fu un periodo di anarchia, le nuove leggi richiesero tempo per essere concepite e approvate, poi iniziarono ad essere chiuse le riviste, i giornali considerati illegali, furono vietati i libri di Jane Austen, la poesia, il colore bianco nell'abbigliamento delle donne, gli insegnanti vennero sostituiti da fanatici, furono vietati la danza e il canto, furono messi fuori legge uno per uno i componenti della somma dell'umanità. Fino a che fu troppo tardi per protestare e lamentarsi, qualsiasi ribellione sarebbe costata la vita.

Perché i regimi tirannici hanno paura addirittura del ballo? Le chiedono. Perché l'espressione artistica è espressione di libertà e la creatività dell'artista non conosce limiti.
Marina narra come un regista norvegese girò un filmato con come protagonista un pittore iraniano, dipingeva immagini di donne, vestite di tutto punto, ma senza copricapi. Lo arrestarono e, quando uscì dalle carceri, disse al regista che l'aveva rintracciato nuovamente che non avrebbe più dipinto.

Se il primo libro di Marina Nemat, "Prigioniera di Teheran", narrava di quanto le era accaduto, il secondo, "Dopo Teheran" racconta il passaggio attraverso il quale il trauma, a poco a poco, si scioglieva.

L'autrice si salvò dalla condanna a morte solo perché uno dei suoi torturatori la costrinse a sposarlo, da cristiana ortodossa dovette convertirsi all'islam, "non lo amai né lo disprezzai", ricorda Marina, tentò anzi di capirlo, quell'uomo il cui lavoro era torturare e che la stuprò legalmente in una cella. Forse era convinto davvero di averla salvata, continua Marina, i genitori dell'uomo erano persone normali, la madre le raccontò che il figlio aveva a sua volta subito tre anni di prigionia sotto il regime dello shah. Marina non odiò il suo torturatore, per non diventare a sua volta ingranaggio del ciclo infinito della vittima che diventa torturatore, "anche dopo anni di tortura, non si è condannati a diventare torturatori".

Quando tornò a casa due anni dopo e la sua famiglia non le chiese nulla di quanto aveva passato, Marina domandò al padre il perché nessuno parlava di altro che del tempo. Le rispose che immaginava le terribili sofferenze, ma non chiedeva per non sapere, perchè non sarebbe servito a nulla. Come dopo la Shoah, riflette la scrittrice, non c'era nessuno disposto ad ascoltare, altrimenti avrebbero dovuto protestare, mentre era più sicuro voltare la faccia.

Marina ha descritto come non sia ancora riuscita a perdonare sé stessa e dal pubblico le hanno chiesto di che cosa dovesse perdonarsi. La scrittrice riflette su come si tenda a darsi la colpa per quanto di drammatico ci accade. Ricorda le altre ragazze rinchiuse nel carcere, con le quali aveva stretto amicizia e parlava di tutti i sogni che si raccontano le giovani donne, poi un giorno lei poté ritornare a casa, dopo il matrimonio forzato, ma la casa non era più la stessa e si accorse che quelle amicizie le mancavano, erano rimaste in prigione, mentre lei era uscita, questo non è mai riuscita a perdonarsi, questo è il senso di colpa che prova. Alcune le ritrovò, altre rimasero in prigione oppure furono uccise, di esse parla nei suoi libri, anche se con nomi modificati, per evitare che quelle sopravvisssute subiscano rappresaglie.

Non si può cambiare quello che è stato, spiega Marina, c'è un unica via di uscita, guardare il trauma negli occhi e trasformarlo in qualcosa di positivo, gli agenti iraniani possono trovarla e ucciderla, riflette, ma i suoi libri sono già apparsi, questo non lo potranno cambiare.

Marina spiega come, nonostante il passare degli anni dall'avvento del regime, non ci sono stati cambiamenti in Iran, certo sono stati costruiti splendidi palazzi, ma i torturatori hanno anche sviluppato metodi sofisticati di tortura, sempre più efficienti nella loro malvagità. Poco può cambiare in un paese in cui l'autorità assoluta è di Khomeini prima e di Khamenei poi, che ci sia al governo Mussavi oppure Ahmadinejad, non esistono spazi di dire alcunché contro il potere assoluto.

Marina racconta del suo rapporto con la religione, di famiglia cristiana ortodossa in un paese islamico, solo a quattordici anni scoprì che vicino a casa sua c'era una chiesa, un luogo in cui si sentiva libera di poter incontrare i suoi coetanei e parlare con i suoi amici, ma fu per breve tempo, poi fu arrestata. Nell'atroce isolamento della cella, per riempire il tempo discorreva con il Creatore e si interrogò sulla figura di Maria, presa a simbolo della madre che soffre per i suoi figli.

"Ma se fare qualcosa non è vendicarsi", non si trattiene una persona del pubblico, :"allora che cos'è?".
Marina racconta un aneddoto in risposta, una volta da piccola litigò a scuola con una compagna, disse che non voleva più vederla, poi i suoi famigliari le suggerirono di portarle invece dei biscottini, la bambina si sorprese, ma lo fece e ridivennero subito nuovamente amiche. La rabbia, conclude la scrittrice, causa solo frustrazione e conduce alla sconfitta e alla devastazione interiore.

La domanda di stretta attualità è stata su cosa pensasse delle legislazioni in dibattito nel mondo libero sul divieto ad indossare il burqa.
Marina racconta come nel corso di un recente convegno a Minneapolis, ebbe un confronto con due ragazze etiopiche musulmane che insistevano che coprirsi i capelli e indossare abiti sformati fosse un precetto scritto nel Corano. La scrittrice rispose che non era vero, il Corano scrive :"coprirete le vostre bellezze" e non parla di capelli o di volto. Sfidò le due ragazze a trovare il versetto che pretendevano mostrasse qualcosa di diverso e ovviamente l'unico versetto che riuscirono a trovare era proprio quello citato da Marina. Non è vero quindi che esista un obbligo di tipo religioso, anzi, continua la scrittrice, in arabo la parola usata può intendersi anche come "seno", e probabilmente, in un ambiente in cui le donne camminavano a petto nudo come gli uomini, era quella copertura che il versetto suggeriva. Dunque, conclude Marina, un conto è parlare di velo islamico quale moda oppure cultura, ma certo non è vero che sia un obbligo e non è vero che sia richiesto dal Corano. E questo senza poi menzionare la necessità dell'indentificazione delle persone, Marina ricorda infatti i terroristi suicidi che si erano avvolti dentro i veli in Afganistan. E insomma, perché far dire ai testi quanto non dicono oppure interpretarli in modo distorto?

L'intero pubblico dell'affollata sala si stringe attorno a Marina Nemat alla fine dell'incontro.

Roberto Mahlab

   
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