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 La puzza dell'amore - Capitolo 3
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Luigi Mannori
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La puzza dell'amore

Capitolo 3°

La nostra Mercedes, priva di portabagagli per motivi estetici e volontà di Pupina, aveva accolto con notevole fatica la quantità di strumenti, libri e capi di abbigliamento che la lunga permanenza a “Cafoniland”, identità del campo base della nostra avviata missione, ci imponeva: non destava preoccupazione la presenza di bagagli sufficienti a colmare l’autovettura oltre che nel pur capiente bagagliaio, in gabina e tra le gambe della stessa Pupina, ma quello che complicava maggiormente la manovra, era la presenza del contrabbasso, il quale la occupava per tutta la sua lunghezza, dal parabrezza posteriore alla leva del cambio, che bisognava utilizzare, producendosi in una circumnavigazione della sua tastiera.
Nei giorni precedenti la partenza, avevo cercato di recuperare il mio naturale strumento, un Jazz Bass Fender del “63”, vecchio ma perfetto compagno di tanti anni di carriera, testimone di centinaia di incontri con pletee amiche ed urlanti e con compagni musicisti (da ricordare con la M maiuscola), che da tre anni era stato trattenuto in garanzia di un pagamento presso una studio discografico di Torino: nonostante il pagamento fosse nel frattempo andato a buon fine, compresi i conseguenti, rilevanti, interessi e spese, non avevo potuto riavere lo strumento ed avevo avviato le relative pratiche legali.
Fatto sta, che dovevo presentarmi dal mio “boss” con il contrabbasso, ancora più vecchio, che non suonavo più da circa dieci anni e ciò aumentava le mie apprensioni per i maggiori limiti, improvvisamente insorti per le mie capacità, certamente arrugginite, da non riuscire a nascondere a Pupina il timore di un “protesto”.
Lei aveva ridicolizzata tale ipotesi, ma tutto sommato non si rendeva conto che non mi aveva mai sentito suonare “dal vivo” (essendo entrata nella mia vita in quell’ultima fase che mi aveva visto impegnato come produttore), e che tanta fiducia in me era in fondo condizionata dal suo amore e dalla abnorme stima che ci impone sempre di riconoscere tutta la grandezza possibile, nella persona alla quale si dichiara questo impareggiabile sentimento; né mi aiutavano a trovare consolazione il ricordo dell’antica capacità ed una obiettiva e chiara autocritica, dettata da una coscienza investita da sempre di una incontestabile maturità e serietà professionale.
Prima di chiudere definitivamente la porta di casa, mi ero attardato a gustarmi quel “mio capolavoro”: in origne era uno stanzone unico, di quattro metri per sei, che avevo diviso in due parti, longitudinalmente, e ne avevo ricavato una zona servizi, ridotta all’essenziale, bagno, angolo cottura e tinellino, arredati da apparire un giardino con separazioni in muratura ed addobbi in terracotta e parquet, ed una zona molto più ampia, in legno, che ricopiava con successo la tolda di un brigantino, con tanto di castello di poppa, che ospitava due camere sovrapposte servite da scala in legno, e di prora, ove erano ospitati gli impianti per l’ascolto e la registrazione della musica. Le pareti, annullate da un gioco di specchi, erano un valido aiuto per lo studio di coreografie, e regalavano all’insieme un bellissimo effetto di infinito.
Il rammarico di non aver avuto il tempo di utilizzare l’insieme, era parzialmente annullato dall’idea che lo avrebbero goduto le mie figlie, alle quali, naturalmente, avevo lasciato le chiavi, con l’incoraggiamento ad usarlo a loro piacimento.
Loro, frutto di un amore miseramente archiviato nei faldoni del Tribunale di Genova, non vivevano tutte e due con me, ed anche se la più grande passava la maggior parte delle notti con sua madre, il giorno raggiungeva sovente la sorella, spinta anch’essa dalla passione per il ballo e la musica, ma anche attratta da quell’ambiente surreale, certamente raro da ricreare negli “appartamenti civili”, anche lei condizionata dalla “vita di artista”,che le avevo fatto sperimentare e le aveva già regalato insospettate soddisfazioni.
Gloria, invece, era accanto a me, quando avevo chiuso la porta e le avevo porto il mazzo di chiavi, ma quel gesto non era riuscito a farle scendere giù quel “magone”, che fin dal mattino riusciva a trattenere con molta fatica: aveva scelto di non restare a dormire e questo voleva dire tornare da sua madre, dove non si sentiva né curata, né apprezzata.
Avvicinadosi alla vettura, i suoi occhioni erano sempre più lucidi, ma cercava di non farsene accorgere, sicuramente perché sapeva quanto dispiacesse anche a me, non poterla portare, la scuola non lo permetteva, ed otto mesi “passano presto”: nessuno di noi due lo pensava veramente ma far finta che così fosse, il dichiararlo, ci aiutava a sopportare il pensiero del cambiamento.
Il vicolo che raggiungeva la nostra porta di casa, sfociava in una strada molto conosciuta, “salita degli angeli”, estremo lembo di Genova che percorre gran parte della “costa delle montagne” che le fanno corona, dall’alto della quale si gode, a perdita d’occhio, un meraviglioso panorama dell’intero golfo e quell’altrettanto meraviglioso tappeto blu, che sembra volerla collegare con l’infinito.
Siccome incontrare un mezzo pubblico lassù, in coerente sintonia con il nome della strada, rappresentava “un miracolo”, ci eravamo sforzati di recuperare, fra i bagagli, la parvenza di uno spazio, ove insaccare la paziente Gloria, per accompagnarla tra i mortali, alla casa di sua madre.
Giunti in prossimità dell’autostrada, mi aveva chiesto di salutarci lì, perché non voleva farci correre rischi, considerando anche le condizioni di carico dell’auto: le nostre insistenze non l’avevano convinta: “per favore, preferisco così”, mi aveva detto nel porgermi un caldo bacio sulla guancia, e si era allontanata di corsa per approfittare di un autobus utile, giusto in tempo per convincersi di aver nascosto quei lacrimoni che non riuscivano più a mantenersi in bilico.
Avevamo quindi imboccato l’autostrada, ma per gran parte del viaggio, non avevamo potuto fare a meno di parlare di lei ed avevamo impiegato parecchie ore, a scrollarci di dosso quella malinconia che le lacrime di Gloria avevano stimolato, situazione solitamente estranea, all’inizio di ogni nuova avventura, che dava un senso alla ricerca di nuovi metodi, per la realizzazione del mio lavoro.
Fortemente condizionato da questa situazione, il viaggio non aveva rilevato avvenimenti degni di nota e ci aveva visto giungere a destinazione verso le due del mattino.
Cafoniland era affondata nel più profondo silenzio, vestita della massima solitudine: pareva che quel paese, di notte, fosse schivato anche dagli animali (solitamente padroni notturni del resto del mondo civile) ed era tale la sua immobilità, da generare l’impressione di ritrovarsi nel mezzo di una scenografia da tempo inservibile, mantenuta in piedi per la momentanea inutilità dello studio che la contiene.
La casa che ci avrebbe dato ospitalità, di proprietà del cognato di Pupina, si era presentata come una bicocca medioevale e forse la sembianza non ne esagerava eccessivamente l’antichità, del resto sposava bene con l’aspetto delle consorelle adiacenti, delle quali, il profondo buio che distingueva la zona, non riusciva a celare le innumerevoli e profonde magagne.
Ci aveva aperto “la Feudataria” (al secolo, sorella di Pupina), letteralmente immersa nel sonno che aveva trascurato di lasciare, per lo meno provvisoriamente, in camera da letto, e ci aveva indicato “l’ala a nostra disposizione”, per rituffarsi rapidamente oltre quella porta che delimitava la sua stanza da notte.
Non avevamo potuto dichiararci entusiasti dei beni di cui eravamo appena entrati in possesso, ma dato che la loro vista era seminascosta da polvere, ragatele e incrostazioni varie, avevamo deciso di rimandare la decifrabilità dell’insieme ed eventuali commenti al giorno successivo, ipotizzando la possibile rimozione del superfluo, per poterci sbrigare a guadagnare l’intimo del letto.
Per quanto la cosa possa apparire elementare, per noi aveva riproposto la fase terminale di una scalata ad un monte, tipo Everest, dal momento che il letto, costellato di voragini, aveva come principale caratteristica, il presentare una discesa con forte pendenza laterale che, coperta da un lenzuolo pressoché bianco, ricordava i paesaggi delle famose piste di Cortina d’Ampezzo, e ci aveva reso impossibile l’escogitare un sistema per tentare di livellarlo, per cui avevamo deciso di coricarci entrambi “a valle” ed abbanonarci a quel sonno, che già da qualche ora stava bussando incessantemente alle nostre palpebre.
Non ci eravamo certo “svegliati col gallo”, anche perché il freddo ci impediva di convincerci a scrollare di dosso quell’ assopimento classico del dormiveglia, cui al mattino è sempre difficile rinunciare e che riesce sempre ad illuderci che il nostro sonno ha ancora qualcosa da raccontare, ma alfine, avevamo optato per una prova di forza e ci eravamo considerati svegli pronti ad imbacuccarci, nel più breve tempo possibile.
Aperte le imposte, ci si era presentato il classico paesaggio montano, adornato da un’incredibile quantità di neve (Cafoniland è contornato da montagne che la neve rende spettacolari, alla vista), che non rinunciava certamente a dichiarare la rigidità del suo clima, ed al tempo stesso tradire una finezza ed una purezza nella sua aria, e tutte quelle sensazioni che nascono di conseguenza, ma il riferirle confonderebbe con l’intenzione di fare “della publicità”, per cui sorvolo per rituffarmi nei nostri argomenti, maggiormente pertinenti queste pagine e la loro ipotetica funzione.
Il ritorno alla realtà, collimava con lo sconforto che aveva colpito i nostri occhi mentre, vagando per gli ambienti che costituivano la totalità del “feudo”, tentavano disperatamente di individuare un motivo che potesse giustificare l’aggettvo “accogliente”, che avevamo più tardi dovuto riporre, dopo aver omologato il definitivo fallimento di sì balzana ricerca.
In quella casa non c’era niente che potesse impedire di ricordare quei magazzini che i comuni italani, da qualche anno, mettono a disposizione degli sfrattati, tale era l’ammasso di cenciame, rottami e cianfrusaglie di varia natura, stratificati sopra mobili che tentavano di apparire antichi, ma riuscivano a dimostrarsi solamente vecchi, o, ricercando l’attributo di moderni, tradivano un’estetica ormai dimenticata dal più retrogrado degli arredatori; solo la stanza da bagno offriva un “ensemble” coordinato, stile a cavallo fra il Coloniale e il Vecchia America, laccato bianco con relativa piastrellatura bianca alle pareti, finestra in alluminio anodizzato, anch’esso laccato bianco e pavimento in piastrelloni neri, che riusciva a mettere in evidenza la presenza del più minuscolo corpo estraneo, acqua compresa, contribuendo a farlo apparire più zozzo di quanto non fosse in realtà.
In seconda analisi, la simpatia che poteva generare il coordinamento dei suoi sanitari, non impediva il dichiararne l’inutilità della presenza, dato il pessimo funzionamento, dovuto ad un montaggio talmente trascurato, se non addirittura incompetente, evidenziato dalla carente manutenzione e cura loro rivolta dai Feudatari: l’antro che avrebbe dovuto contenere la porta, forse capace a regalare all’ambiente un minimo di intimità, certamente necessaria in certi momenti fondamentali, anche se poco edificanti della nostra vita, era amorosamente celato da una coperta di lana in disuso, poco adatta allo scopo, forse anche per colpa della sua tinta a cavallo fra il “beige” ed il “terra di Siena”, che non riuscivano a fondersi con la restante cromia.
Se un po’ in tutta la casa era possibile incontrare cumuli di rumenta e polvere, depositi di muffa ed esposizioni di ragnatele (certamente da collezione a giudicare dalla molteplicità delle specie rappresentate e dalla loro quantità), la cucina né poteva sicuramente costituire una delle principali riserve a livello nazionale, tanto che lo spazio libero utilizzabile, poteva essere esaurito già con l‘ingombro di un pacchetto di sigarette; vorrei concludere questa prima sfuggente panoramica, annotando una originale curiosità: i lampadari erano tutti, escludendo la varietà degli stili, uniformati su un comune colore tendente al “fumeé”, raggiunto con l’aiuto del tempo, dalla pazienza dei depositi delle molteplici sostanze estranee, contenute nell’atmosfera ambientale, realizzati artigianalmente sotto forma di ossidi e incrostazioni, che riuscivano addirittura ad attenuare la pungente penetrabilità della luce artificiale, donando agli ambienti quella semioscurità tipica e molto caratteristica, in chi sopravvive alla monotonia del tempo.
Come ogni fuedo che si rispetti, poteva vantare una copiosa popolazione, costituita prevalentemente da formiche, ragni, scarafaggi e scorpioni ( era sicuramente in nota una copiosa quantità di prenotazioni estive delle famose “mosche turiste”), qualcuno eccessivamente sviluppato (chiaro segno di diffuso benessere per sì prolifica popolazione), che di tanto in tanto, incauti, ci tagliavano sbadatamente la strada, stimolando l’ira di Pupina per tanta maleducazione, la quale provvedeva ad infliggere loro “schiaccianti” punizioni (o penitenze, che dir si voglia), ma penso che tutto ciò dipendesse dalla disabitudine alla nostra presenza, o forse dalla nostra disabitudine alla loro familiarità con l’ambiente.
Non avevamo impiegato molto a scoprire le cause del freddo eccessivo, sofferto la notte precedente: la finestra della stanza adiacente la nostra camera da letto era priva di vetri, sostituiti con fogli di cellofan, ingegnosamente fermati con puntine da disegno; ma il vetro nuovo era già stato ordinato e potevamo solo attendere che il rimedio fosse consegnato e applicato.
Scoprirci immersi nel’accoglienza dei nostri ospiti, aveva richiesto un tempo relativamente breve, ma si era risolto in una gara per ricordarci i punti salienti dei nostri precedenti incontri ed in particolare, per chiarire i motivi di una clamorosa lite, vissuta poche settimane addietro con qullo che allora impersonava la figura di mio suocero, riuscendo a trascinarci in quella “zona verdetti”, cui sembra indispensabile approdare sempre, anche quando di quanto è accaduto non ce ne frega assolutamente niente.
Ma lascio scorrere l’eco di tante superflue parole, per soffermarmi qualche istante sull’impressione dei personaggi a nostra disposizione, alla quale decisamente si può attribuire un sigificato più determinante per la maturazione dei nostri eventi.
La Feudataria, era una donna affogata nella scia di tante glorie passate, mai maturate a sufficienza per poterle ricordare prive degli offuscamenti e del’amarezza, che il coordinamento di troppe delusioni riesce sempre a generare; quello che non riusciva a spiegarsi, per evidente impreparazione professionale e commerciale, era il succedersi rapido e consecutivo di tante vittorie, tanti premi, la vetta del Cantagiro e poi il tonfo nelle organizzazioni delle feste di piazza e successivo, definitivo ristagno, aggravato dalla fuga da tante delusioni e da una famiglia eccessivamente ossessiva, attraverso un matrimonio rivelatosi poi, meritorio unicamente dell’Oscar della desolazione.
Conseguenza logica, l’autopunizione attraverso la rinuncia a reagire, a curare il proprio fisico abbandonato ad un precoce e rapido disfacimento, al rifiuto a credere in una qualsiasi forma d’amore ed alla continua ricerca di colpe proprie ed altrui, che potessero giustificare la presenza di tanta noia, apatia e riluttanza, indisturbati dominatori delle mura del feudo ed ingordi divoratori della sua aria.
Ma non riuscivo a identificare nella Feudataria, tanta capacità a comporre un simile mosaico, e l’occasione per confermare i miei dubbi si era concretizzata ai primi approcci con il comportamento di quel “figuro” che rappresentava suo marito.
Lineamenti del viso molto spigolosi, occhi piccoli e seminascosti in un alone di ombra, sopracciglie strettamente saldate, in perfetta diagonale con un naso che non riusciva a staccarsi dalla fronte; la bocca piccola era ulteriormente mascherata da una barba non lunga ma fortemente trascurata, che aumentava l’aspetto trasandato di tutta la figura.
Il suo corpo apparentemente gracile, data la sua taglia eccessivamente piccola, nascondeva in realtà una muscolatura che tradiva l’abitudine a fatiche insospettabili per la sua “mole”, ma il fisico asciutto e nervoso, non riusciva a dichiararsi “sortivo”, per un difetto ai piedi e le spalle eccessivamente ricurve sul torace.
Lo sguardo dimostrava che la natura aveva provveduto a supplire con una certa dose di furbizia (forse più prossima alla malignità), la mancanza di intelligenza costruttiva.
Per tutti questi fattori, l’unico nome che ha potuto suggerire la sua immagine è “l’ Antropofago” ed il tempo coronerà questo nome per “giusta causa e combinazione”.
Indiscussa dominatrice e frutto di tanta delusione e distorsione, era la “piccola feudataria”, logico condensato di tanta incomprensione e incomunicabilità, tanto carina nell’ aspetto, quanto crudele e dispettosa nel carattere, nonostante i soli due anni di età, decisamente confrontabile a quelle scimmiette troppo paragonate all’uomo ma comunque confinate quale animale, per non riuscire a dimostrarsi sempre fastidiose e in queste pagine, nonostante tutta la comprensione e la pena che sento vivamente di indirizzarle (essendo vietato altro genere di sentimenti più umani, come si scoprirà nel proseguo), sarà riconoscibile per il nome “la Bertuccia”.
Ma i primi momenti che spendiamo in un qualsiasi luogo, riescono sempre a sprigionare il sapore della felicità, anche perché il nostro arrivo, aveva chiaramente spezzato la lugubre monotonia dell’ ambiente e forse questo rappresentava già un apice molto prossimo, o per lo meno identificato tale, alla felicità consentita all’interno del feudo.
Mi rimane impresso un particolare del nostro primo pasto.
Pupina ed io, avevamo la “stupida” abitudine, all’inizio di ogni pasto, di dichiararci vicendevolmente “buon appetito” e sigillare l’ augurio con un piccolo bacio: la cosa aveva destato stupore ed una leggera ilarità nei nostri ospiti, che si erano guardai confusi e ci avevano “obbligati” a scusarci, anche se con tono ironico, per il nostro innocente, forse ingenuo vizio.
In fin dei conti in quella casa mancava l’amore: tutto sopravviveva per inerzia, per paura di dichiarare i propri errori e di scoprirsi vittime di un’inutile autovendetta ed erano bastate poche ore di permanenza, perché tutto ciò riportasse alla luce la macabra effige della rinuncia ad una lotta ritenuta persa in partenza e dell’ abbandono alla scusa chiamata destino, rivestita della fredda consolazione dell’impossibilità ad opporvisi.
Dai discorsi della Feudataria, risultava abbastanza evidente che a mantenerla vicino al suo uomo, fossero solo l’orgoglio di non dimostrare ai propri genitori quale sbaglio aveva commesso nella sua valutazione, la paura per la solitudine e l’incognita della figlia, tutte cose strettamente collegate con la sfiducia in se stessa, per il suo livello di istruzione ed il suo raggiunto stato fisico.
In fondo era molto probabile che lo avesse sposato per colpa di quel solito e imprevedibile istinto materno, che riesce sempre a fregare le donne prigioniere di una famiglia dispotica e insensibile, capace di privare gli eredi di quei rapporti fondamentali che una figlia desidera a tal punto, da indurla a cercare un “marito-figlio”, a cui regalare tanti beni dei quali a lei, ne era sempre stato precluso il possesso.
Anche l’ Antropofago, orfano da troppo tempo e sicuramente preda di un’educazione totalmente priva di affetto (ma forse preda di una maleducazione dovuta alla totale assenza di affetto), era un individuo alla disperata ricerca di uno scopo, di un clichet che giustificasse agli occhi del paese la sua inappetenza e la più totale inoperosità; la sua unica ragione di vita era la frequenza quotidiana del bar, quella sua costante presenza in un ambiente che per i paesani è meta degli uomini veri, quelli che non si fanno comandare dalla moglie e che non si “abbassano” a scaricare negli appositi contenitori l’immondizia, perché la loro purezza e virilità non ne venga intaccata agli occhi dei vicini.
Amava ridere della sua predisposizione alla disubbedienza, e glorificarsi per il suo innato vandalismo che lo scopriva eroe di un suo credo, decisamente anarchico ma sufficientemente opportunista da giustificarlo persino con se stesso, di cui in pochi anni era riuscito a fare scempio, in quella vita che gli era stato concesso subire, fino a quel momento.
Ma la colpa era del paese!
Bastava guardarsi intorno per redersi conto che era come vivere fra gli Zombi, quasi “tronfi” del loro abominevole stato che provavano il gusto sadico nel rinnovarlo in tutto ciò che li circonda e che non gli somiglia abbastanza: in questo clima, anche i bimbi sono costretti a crescere gia “morti” e solo con la fuga, potranno parzialmente salvarsi dalle loro abitudini, purtroppo, senza cancellarne l’impronta.
Lui aveva sicuramente scoperto nel matrimonio una sorta di realizzazione professionale (che discuteremo fra qualche pagina) ma soprattutto aveva potuto investirsi di quel potere di cui può disporre, chi varca la porta del Bar vantando la presenza di una lei, “rimasta a fare la sua calzetta” e che non avrà mai diritto di chiedere una spiegazione, neppure quando si renderà conto che la sua schiena comincerà ad incurvarsi per tutti i pesi e le responsabilità, che le sono state lasciate quale unica compagnia.
Per tutto il giorno la Feudataria si era lamentata con noi, per la sua solitudine, per l’apatia verso un lavoro che si stava dimostrando sempre più monotono e irrealizzante e per un marito che, tutto sommato, aveva meno appuntamenti con lei del postino e dell’idraulico, che a Cafoniland, l’incontrarli, rappresenta senza dubbio un avvenimento degno di annotazione.
Ci eravamo riuniti, credo casualmente, per consumare quella che veniva considerata cena e che a me (e giuro che non sono esigente), riusciva solo a ricordare la “sbobba” che mi torturava le narici sotto il nome di “rancio” (forse perché sufficientemente prossimo a rancido), ai tempi che indossavo quei costumi grigioverdi, più propriamente identificati “divise militari”.
L’Antropofago, improvvisamente ed inspiegabilmente colpito da “chiacchierite acuta”, si era fatto premura di disegnare un quadretto, certo poco edificante, per ogni componente lo “Show” che dal giorno successivo avremmo cominciato a realizzare e ad istruirmi su “l’andazzo” delle prove, su una “cultura musicale generale” che, a sentire lui, ne rappresentava esattamente gli antipodi.
Dato che la discussione tornava a scivolare in “zona verdetti”, Pupina ed io eravamo riusciti ad imporre un repertorio di aneddoti, estratti dalle mie “gesta” straniere, capaci di vivacizzare l’ambiente e riscaldarci almeno moralmente, per annullare quel senso di ibernazione che suggeriva il clima del Feudo, naturalmente privo di stufe o similari apparecchi dotati di funzionalità, oltre che di valore estetico.
L’Antropofago seguiva le mie parole con l’espressione di un bimbo che ascolta una favola di suo gradimento e per qualche ora, l’aria si era tinta dei rilassanti colori della spensieratezza e della serenità.
Il tempo stava trascorrendo con un’imprevista fluidità e ci aveva convinto a guadagnare precipitosamente il letto, il casuale ricordo che il giorno dopo, segnava l’inizio delle ostilità e avrei dovuto trovare la forma migliore, per la “presentazionme a corte”.


(continua)





   
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