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 Le storie del signor Keuner al Goldoni di Livorno
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Morgana
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Inserito - 27/01/2008 :  09:59:35  Mostra Profilo  Replica con Citazione Invia un Messaggio Privato a Morgana
Teatro Goldoni, Livorno, Sabato 26 gennaio, ore 21 - Domenica 27 gennaio, ore 21 (Giorno della Memoria)

In occasione del Giorno della Memoria, il Teatro Goldoni di Livorno presenta per la stagione di prosa, “Le storie del signor Keuner” di Bertolt Brecht, raccolta di parabole e racconti, in parte ancora inediti in Italia in uno spettacolo di Roberto Andò e Moni Ovadia con Moni Ovadia.

"L’esilio della virtualità di Moni Ovadia"
Il signor Keuner è l’alter ego del Brecht esule. L’esilio di Keuner è duplice come quello che visse
realmente Brecht. Esiliato perché oppositore eccellente del regime nazista. Il grande drammaturgo fu
privato di uno status di certezza legato anche ad alcune condizioni materiali: «essi non mi hanno
solamente sottratto la mia casa, il mio vivaio di pesci e la mia auto, mi hanno anche rubato il mio
teatro e il mio pubblico». Da ultimo fu gettato nell’alea di un’esistenza incerta e smarrita, propria di tutti
gli esuli. È l’esilio in cui Brecht, come ricorda in una memorabile lirica, portava con sé: «un mattone,
per mostrare com’era una volta la propria casa». L’altro esilio Brecht lo visse quando rientrò nella sua
Berlino, la Berlino dove si era instaurato il comunismo che lui aveva tanto auspicato. Dovette essere
lancinante la delusione nello scoprire che proprio quando veniva restituito al proprio teatro e al suo
amato pubblico, il povero B. B. sarebbe caduto nel più difficile degli esili, quello che si vive presso di
sé. Il comunismo in cui si trovava a vivere non era il mondo luminoso del comunismo di cui aveva
decantato la ragione del: ”semplice difficile da farsi”, bensì un sistema di potere autoreferenziale che
rivelò presto la sua natura ottusa. Quando a seguito della rivolta operaia di Berlino del 1953 il Partito
comunista della DDR dichiarò di essere deluso da quella reazione popolare, Brecht scrisse che visto
che il partito era deluso dal popolo sarebbe stato necessario procedere a sciogliere quel popolo e a
eleggerne un altro. Keuner è in qualche misura un Brecht esiliato anche dalle proprie certezze che dà
istruzioni per l’uso per riuscire a galleggiare in un’epoca in cui avanza la perdita del senso. Per questa
ragione qualche critico ha notato tentazioni di sconfinamento del K di Bertolt Brecht nei territori del K
di Franz Kafka. E non solo nella forma breve e di parabola del racconto. In questo orizzonte di esilio
dal senso, le istruzioni di Keuner sono più che attuali per noi che nella svolta del millennio quel senso
lo abbiamo perduto e galleggiamo in una continua deriva senza morale di cui non si vede più la
sorgente e di cui non appare ancora la foce.
Keuner ci ha sollecitati a una mise en scene in forma di esposizione di reperti “d’arte”, alla maniera
scomposta di certe esposizioni del nostro tempo dominato dalla virtualità, in cui i frammenti di realtà
sono in un esilio senza speranza. In questo consiste la lancinante bellezza del fare artistico nel nostro
tempo, l’essere paradossalmente un disperato tentativo della realtà emozionale di non sparire nel
buco nero della virtualità. In un’istallazione visuale compaiono le dramatis personae dell’oggi nel ruolo
di loro stesse, interpretano le parole di Keuner nel vano sforzo di trovare almeno un’eco di
autolegittimazione morale. I reperti di realtà a cui ci aggrappiamo nel nostro esilio sono: un’orchestrina
sotto mentite spoglie, una cantante brechtiana, un mafioso russo appassionato d’arte, un attore
manichino kantoriano, orfano del proprio teatro e costretto a ripetere una memoria del proprio essere
frammento di un’opera d’arte irripetibile, un custode vetusto di un museo dell’arte socialista
sopravissuto al crollo e, da ultimo, un curatore di mostre artistoide e intellettualoide, cultore
dell’ebraismo kafkiano che cerca di conferire un senso impossibile all’esposizione che è chiamato a
organizzare e il cui unico esito è inesorabilmente post-morale.

Lo spettacolo è messo in scena a quattro mani da Roberto Andò e Moni Ovadia, quest’ultimo sarà in scena come di consueto accanto a interpreti di diversa provenienza: la cantante argentina di origine ebraica est europea Lee Colbert, il polacco Roman Siwulak - per vent’anni a fianco di Tadeusz Kantor - l’ucraino Maxim Shamkov, Ivo Bucciarelli e i musicisti-attori della Moni Ovadia Stage Orchestra che nel 2007 ha compiuto il suo quindicesimo anno di vita: Luca Garlaschelli (contrabbasso), Janos Hasur (violino), Massimo Marcer (tromba), Albert Mihai (fisarmonica), Vincenzo Pasquariello (pianoforte), Paolo Rocca (clarinetto), Marian Ŝerban (cymbalon), Emilio Vallorani (flauti/percussioni).

Tratto da
http://www.goldoniteatro.it/index.php?option=com_content&task=view&id=403&Itemid=2


Chiara Lignola


   
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