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emofione
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Inserito - 03/12/2003 :  18:04:38  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a emofione
Ufficio solitario, ma caldo e familiare.
Attacco, stacco, riprendo, finisco.
Mi muovo, converso, mi impegno, mi spengo, riaccendo.
Noto l’enorme differenza dei nuovi interlocutori.
“Ciao bello…sì, quer bunche pòle partì anche domattina, un c’è problema”
Io che ero abituato all’”Hellò Emilianò, I’m Valeriè Olagnòn from Lyòn, I would like to talk about the forecastìng modèl”
A pranzo sono sempre dai miei.
Pasta al dente, mia mamma abbonda sempre con quei sughi, bòna però.
Secondo leggero, caffeino al vetro, uva, qualche castagna.
Il sorriso della mia nipotina.
La pennichella di mezz’ora, durante i Simpson.
Ieri era tutto mensa sociale, caffè sintetico della macchinetta, risate sui soliti ridondanti temi aziendal-sessuali di qualche collega giullare vittima dello stress da ritmi “multinazionali”.
Oggi no, oggi è diverso.
Ho forato una ruota dello scooter l’altro giorno.
Allora vado a piedi, per adesso. Sono 15 minuti…
Niente fila. Possibile?
Faccio il lungomare, sbuco al Cantiere navale F.lli Orlando.
C’è una struttura enorme che pare sorreggere il cielo ed assomiglia vagamente a quell’arnese per fare i buchi ai fogli, solo che è in scala 1/1.000.000.
Fa tutto molto porto, città di mare e di sangue salato.
Risalgo il primo fosso, gli Scali d’Azeglio.
Sotto, le cantine dei vogatori, col loro fascino indescrivibile ai pagani, a chi non sente di appartenere a l’acqua che ha sotto ai piedi.
Leggo “Palio marinaro”.
Vedo una miriade di piccoli e variegati natanti in attesa di lasciare nuovamente l’ormeggio.
Un po’ più in su la Biblioteca dei Portuali, davanti i mitici pescherecci.
Odori e colori pastello. Inconfondibili. Livorno.
Il salmastro tenta di penetrarmi nei polmoni per mischiarsi al fumo di una Marlboro rossa morbida.
Ma rimane a galla, sul palato e nelle narici.
Se andassi più avanti raggiungerei casa di mia sorella. Ci sono stato spesso ultimamente.
Là c’è anche una piccola Venezia da attrevrsare, con canali, ponti ed antichi aromi.
Ma in certi punti mi pare più un quartiere di Napoli, o della Genova storica.
Città di porto, chi ha detto che non sono belle? Chi ha asserito che non sono affascinanti?
I panni sbandierati al vento, rivelano agli ignari se tira Libeccio, o un ponentino, piuttosto che un bello sciroccone o un intenso maestrale.
Ovosodo.
Alla sera, poi, lo spettacolo delle acque che si riflettono sulle facciate dei palazzi scampati alle bombe della Seconda Guerra, proiettando immagini costantemente in movimento, quelle di una città dall’animo inquieto e passionale, ma in fondo in fondo fedele.
Non di rado incrocio allegri passanti, sono miope ma tanti mi salutano, molti si ricordano.
Ricambio. Sorrido. L’ho ritrovato anch’io, dai.
Aspetto la serata, ci scapperà un’oretta di parole con i soliti noti, un cinemino con la bimba, una cinquantina di pagine libro, ma sempre rilassato. Calmo. Pace.
Invece questa volta ho scelto “rowing”, alla palestra nuova.
Fatica, tanta, troppa, o forse quella giusta.
Mi sa che son sempre stato portato per uno sport del genere, che poi deriva da quello più classico nella mia città.
Nelle mani ho un pezzo di legno liscio, non è un vero remo, ma lo ricalca.
Seguo il mio movimento con lo sguardo, spalle in fuori, addominali contratti.
Sento il ritmo della musica e dei colpi.
“Dai, forza, palata lunga, tutto il carrello!”
“Non mollare, siamo tutti sulla stessa barca”
“Voglio sentire risuonare la ventola, dovete spostare quest’acqua, avanti”
“Forza ora, massima intensità, strappa tutto, ora, ora”
“Dieci colpi al traguardo. Avanti, avanti. Sette, sei…”
Non mollo, non ci penso neanche.
E’ finita. Che bello.
Chiudo gli occhi mentre la musica diviene rilassante ed accompagna il defaticamento.
Ce l’ho fatta, sono strematoma entusiasta. Che lezione…
Sto per perdere i sensi.
Per una attimo mi sento un trisavolo labronico.
Mi immagino in tenuta classica da vogatore, calzettoni e corpetto stretto, coi colori del Borgo Cappuccini, uno dei rioni più antichi, quello della famiglia del mio babbo.
Penso a loro, al nonno, ad un bisnonno. Non vogavano, no. Ma erano livornesi doc.
Avevano pure un bar, quanto mi sarebbe piaciuto frequentarlo a quei tempi.
Un espresso, un ponce caldo, le carte per un Tresette.
Leggiadre note mi rilassano cullandomi, sogno di gente assiepata sul muretto lungo gli Scali, la vedo colorata di bianco e di nero, che incita ed applaude.
Mi penso coi baffoni e il ciuffo pieno di brillantina, mentre esulto, stanco e felice.
Ho appena vinto la “Risi’atori”, la gara più antica, forse quella più affascinante.
Forse è stupido.
Anzi, è sicuro.
Ma mi emoziono, sono i cinque munti più belli che ricordo negli ultimi mesi.
I brividi mi attraversano tutto il corpo, come le onde che ho spostato, che ho domato.
Alé. Alé. E’ finita, alè.
Sono di nuovo io…sono di nuovo in me.


   
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