Concerto di Sogni
Il primo Sito letterario italiano (google/alexa)
Tra i primi 100 Siti italiani (google/alexa)
Segnala concertodisogni ad un amico
Aiutiamo i ragazzi di Angelica
Remember Nassiriya : Appendete una bandiera ai vostri monitor

 Home   Elenco Autori   Forum:Elenco Argomenti   Eventi attuali e storici    Le prime pagine   Link  
Utente:
 
Password:
 
Salva password Dimenticata la password?
 
 tutti i Forum
 9 Borderline
 Frammenti di vita: il teatro della medicina - 2 -
 Versione per la stampa  
Autore Tema Precedente Tema Tema Successivo  
saphir
Curatore


Italy
180 Inseriti
100 Gold
96 Punti Rep.
Inserito - ott 12 2002 :  01:33:29  Mostra Profilo  Visita la Homepage di saphir Invia un Messaggio Privato a saphir
Io ero una sconfitta in partenza...ero la prova che non siamo immuni.
Questo fatto sarebbe stato già grave per un qualsiasi collega sconosciuto, ma per un collega amico è quasi impensabile..è inaccettabile.
Improvvisamente, anche se per pochi secondi, ero diventata una nemica.
Io ero la sua compagna di corso, la persona con cui aveva lavorato per tanti anni al Policlinico e con la quale aveva combattuto tante battaglie, ero quella che aveva sempre considerata una cara amica mentre ora avevo distrutto le sue certezze e lo avevo ferito.
Era come se fossimo stati a fare una passeggiata sui monti e fermi sull’orlo di un precipizio, mentre lui era intento a contemplare il paesaggio stupendo che aveva di fronte, io lo avessi improvvisamente spinto verso il baratro.
Stava annaspando per non precipitare.

Quanti di voi ricordano che a volte, quando erano bambini e si facevano male, invece di essere coccolati dai genitori venivano sgridati? Anche se non erano colpevoli, anche se non si erano fatti male per trascuratezza o per disobbedienza.
Perché?
Perché i genitori esprimevano così la l’ansia, la paura, il dolore per quel loro caro ferito.
Non è giusto ma capita.
Un amico medico ammalato, o probabilmente ammalato, ci butta in una
profonda crisi..riduce le nostre difese..ci “espone”, come se si trattasse di una malattia contagiosa.
Perché?
Perché ci dimostra che non siamo invulnerabili per il solo fatto di essere medici.
Perché perdiamo la nostra obiettività.
Perché per tutto il tempo che ci occorre a ritornare dietro il nostro
“scudo”, noi soffriamo più degli altri...perché sappiamo più degli altri.
Per voi è una cosa ovvia, e quindi può sembrare assurdo questo atteggiamento..quasi disumano, ma i medici hanno paura come tutti.. sono umani anche loro, ma essendo a contatto, giorno dopo giorno, non solo con le più terribili malattie, ma anche con il dolore, la paura, l’angoscia, i dubbi dei pazienti, dei loro famigliari ed amici, hanno questa corazza che li difende, che li lascia obiettivi...perché loro devono risolvere, devono consigliare, e dalle loro deduzioni e dai loro consigli dipende il benessere di interi gruppi di persone e la vita stessa dei loro pazienti.
Questo atteggiamento mentale non significa disinteresse o freddezza.
Possiamo, io spero che ancora molti di noi lo siano, essere profondamente umani e partecipi, ma distaccati..come quando si guarda un film che ci colpisce, ma che però resta un film.

Vidi la sua paura, non la mia...non ancora.
Entrai sola in radiologia.
Lui voleva ancora le sue certezze, ecco perché mi lasciò sola.
Sulla soglia mi ha detto: “Non puoi esserne certa, aspettiamo e vedremo..e..in ogni caso..ti aspetto qui fuori, se hai bisogno”.

Pensate all’assurdità di questa frase.
Eppure era un linguaggio che capivo, riconoscevo.
Potreste pensare che fosse un segno di pudore o di rispetto, ma non è quello il motivo.
Noi siamo abituati a spogliarci e a rivestirci davanti a colleghi di sesso opposto senza nessun imbarazzo..è naturale.
Non ci viene nemmeno in mente l’idea di “guardare” il o la collega, se non come fosse trasparente. Non lo vediamo come un essere umano.
Siamo abituati anche a vedere i pazienti spogliati dei loro abiti e in situazioni di vulnerabilità, ma anche in quel caso non ci rendiamo conto del fatto che loro possono sentirsi in imbarazzo di fronte a una persona di sesso opposto, anche se medico.
Noi non consideriamo noi stessi come persone e nemmeno i pazienti sono "persone" in determinati frangenti...per noi sono “casi da risolvere”, pagine di atlanti anatomici o di testi di patologia.
Può non sembrarvi giusto, ma nel momento in cui abbiamo "un caso" la persona che lo rappresenta perde il suo carattere umano, per riacquistarlo, poi, non appena "il caso" ha la sua denominazione patologica.
L’istinto di osservare ogni piccolo dettaglio fa parte della nostra mentalità, così ci scordiamo, anche se solo momentaneamente, che dentro quel corpo c’è un’anima.

L'amico-collega non era ancora pronto a considerarmi un caso clinico.
Tantomeno a sopportare che nella sua mente si formasse l'immagine del mio viso, il viso di un medico e di un’amica, sovrapposto a quello delle centinaia di pazienti affetti dalla stessa malattia, che aveva impressi nella memoria.
Anch’io non ero pronta a questo, ma avevo ancora una settimana di respiro: tutte le cose da fare non lasciavano molto spazio ad altri pensieri.

L’abitudine a sdoppiarsi (l’essere umano e il medico),fu fondamentale in quei giorni.
Il medico non guardava se stesso, ma guardava il “caso” con la fredda distaccata obiettività che conduce alla diagnosi certa.
Dietro le quinte del “teatro” in cui vi sto conducendo, le cose si svolgono in questo modo, non solo per gli amici medici, ma per tutti i colleghi in genere: non c’è l’infermiere o il tecnico come di routine, ma c’è un collega per eseguire personalmente l'esame su di te.
A parte rare eccezioni, che spiegherò più avanti.
E’ il segno della solidarietà e del rispetto.
E’ il loro modo di dirti: sappiamo esattamente come ti senti e siamo qui per te, per aiutarti...per condividere.

Non avevo mai visto quel collega, ma mi trattava come qualcosa di fragile.
Alla radiografia non si evidenziava il nodulo, né altri.
Sembrava avesse paura di toccarmi.
In realtà era proprio così. Lo sapevo e lo capivo.
Mi chiedeva: “dov’è?”
Io glielo mostravo,ma dopo tre tentativi si è arreso e mi ha visitata.
“Troppo esterno, troppo in alto..non si può vedere con la mammografia.. facciamo un’ecografia”

Non domandatevi perché non l’abbia dedotto subito, non appena gli avevo mostrato dov’era la prima volta.
La risposta è semplicissima: a un collega non si crede per principio, lui esagera.
La realtà è ben diversa, invece.
A un collega non si vuole credere, perché farlo significa riconoscere di non essere invulnerabili.

Mentre lavorava il silenzio si poteva toccare.
Lo scrutavo, ma era impassibile.

Quante volte mi sono trovata io ad essere dall’altra parte del lettino col collega sdraiato sopra che mi scrutava come io ora facevo con lui?
Per fortuna mia non molte, ma ne ricordo una in particolare perché si trattava di un amico chirurgo, col quale avevo fatto alcune ricerche.
In agosto eravamo sempre pochissimi in clinica, si faceva un turno di guardia ogni due giorni..turni che, invece delle solite trenta ore, potevano anche trasformarsi in trentacinque o trentasei, perché non potevamo lasciare i pochissimi colleghi soli, con un intero reparto da gestire.
Normalmente la chirurgia vascolare è chiusa in quel periodo, per mancanza di personale paramedico, ma i chirurghi che sono appena
tornati dalle ferie o quelli che devono ancora andarci, sono presenti ugualmente.
Lui era appena tornato dalla sua vacanza..scese al mio reparto e mi chiese se, quando avessi terminato le visite, avevo un po’ di tempo per lui: “ho sofferto di tachicardie, in vacanza “ mi disse “e mi sento sempre stanco e affannato”.
Stavo per smontare da una guardia e avevo tutto il tempo che desiderava..era un amico..lo condussi in ambulatorio, lo auscultai..e non dissi nulla...pensavo già.
Poi gli suggerii un’ecografia.
“Perché?” domandò.
“Perché sei iperteso e di sicuro non hai mai fatto un ecocardio...
facciamo un po’di misure, così un domani hai un po’ di documentazione da confrontare.”

Ero anch’io così imperscrutabile? Me lo domandai solo in quel momento.
Sì certamente ero così anch’io.
Riuscivo a dire così bene le stesse bugie?
Sì certamente. Perché nel tempo in cui lavoriamo silenziosi e assorti, in realtà stiamo cercando la risposta credibile da dare.. stiamo già studiando tutte le mosse e contromosse, le domande e le risposte per illudere il collega, se lo vuole, e dobbiamo trovarle giuste..perché lui ne sa quanto noi, se non di più.
Mi venne in mente, quel giorno, con una nitidezza che sfiorava quella di un’alba serena e luminosa sulla cima di una montagna.

Non volevo pensare all’ipotesi diagnostica che si andava formando nella mia mente dopo la visita, l’ecografia, l’elettrocardiogramma e l’osservazione automatica del suo spiccato pallore.
Gli domandai, in tono leggero, perché non avesse voluto abbronzarsi
quell’estate, ma quando mi accorsi del suo sguardo un po’ allarmato cambiai rapidamente discorso.
Lo lasciavo parlare...pensavo...e non volevo dire nemmeno a me stessa cosa sospettavo.
Alla fine di una apparente chiacchierata tra amici, mi fece la domanda a cui mi ero preparata per tutto il tempo: “ Allora?”
“ Hai la pressione un po’ alta, c’è tachicardia, un soffio da circolo ipercinetico..non saprei...possono essere mille le cose che determinano questo quadro, anche una banalissima febbre...facciamo qualche esame del sangue e vediamo...”
Volutamente vaga, dopo aver lasciato cadere una piccola ancora a cui aggrapparsi, se lo desiderava: la febbre.
Due giorni dopo era ricoverato in Ematologia per una leucemia mieloide acuta che lo uccise in meno di venti giorni.

Pensate che non vidi io gli esiti del morfologico che avevo richiesto.
Tre giorni dopo quella visita mi arrivò in reparto la telefonata di un collega ematologo che mi comunicava l'avvenuto ricovero, nel suo reparto, del mio amico chirurgo e la diagnosi formulata.
Mi disse anche che il collega aveva fatto il mio nome come quello della cardiologa che lo seguiva, e che se volevo vederlo era meglio che andassi in giornata.
Lo trovai malissimo..la chemioterapia gli procurava violenti disturbi.
Mi confidò che aveva eseguito numerose flebografie senza la protezione del camice di piombo e mi chiese se poteva essere quella la causa della sua malattia.
C'era sua moglie, nella stanza.
Non l'avevo mai vista prima.
Anche lei sembrava distrutta.
Io mi sentivo malissimo...non sapevo cosa dirgli.
E' incredibile come riusciamo a fare da soli il medico, il paziente e anche il consolatore di tutti.
Non avevo bisogno di rispondergli...me lo fece capire.
Voleva speranze...e quelle, se era disposto a crederci, ero in grado di dargliele.
Fu l'ultima volta che lo vidi.

Nel mio caso il collega avrebbe potuto cercare quanto voleva che non sarebbe mai riuscito a convincermi.
Io lo sapevo già e da lui mi serviva solo la conferma per organizzare le cose che avevo già deciso di fare.
Così ho cercato di aiutarlo.
Strano quanto la mia voce risuonasse pacata e quasi distante...lo sapevo, eppure...dentro di me speravo di sbagliarmi.

Papà fammi sbagliare!!! Non credo di riuscire ad accettare anche questo!!!
Non è stata già abbastanza dura la mia vita?
Il collega restava impassibile..quindi questi erano solo pensieri.
Mi sembrava di gridarle queste cose.
Evidentemente non era così.

I termini tecnici usati per descrivere l’aspetto ecografico del mio nodulo entrarono nel mio cervello come la fredda e tagliente lama di un bisturi usato senza previa anestesia e, dopo il primo momento di distacco, sentii tutto il dolore che provocava.
Forte, così forte da mozzarmi il respiro.
Lacrime involontarie cominciarono a scorrere sulle guance.

“Dobbiamo fare un ago aspirato per essere completamente sicuri” disse il collega, imbarazzato da quelle lacrime.

Non potevo.
Dovevo passare la visita per l’assicurazione e si sarebbe visto il segno..sarebbe stato come un marchio..il collega che mi avesse visitato avrebbe capito.
Piangi?
No ora non più.
Come mai?
Perché i morti non piangono.

Seguitemi ancora una volta dietro le quinte del teatro.
Il problema che stavo affrontando in quella settimana non era il tumore...quello avrei dovuto affrontarlo dopo..dopo l’intervento.
Il problema del momento era sopravvivere all’intervento e ridurre le complicanze al minimo.
Quello che stavo organizzando: assicurazione, testamento, avvocato, disposizioni, lettere e nastri registrati..tutte queste cose erano in previsione di un “ incidente di percorso”, come lo chiamiamo noi.
I medici-pazienti sono esposti ad ogni tipo di incidente e complicanza, soprattutto le più rare e stravaganti.
Perché?
Perché chi lavora su di loro non riesce ad “isolarsi”...ha sempre presente nella mente che la persona su cui sta lavorando è un collega, uno come lui..e perde l’obiettività.
Il più delle volte vuole strafare: esagera con l’anestetico, col miorilassante, con l’analgesico..esagera con tutte le procedure..e.. capita l’incidente.
Poi perché sono sfortunati.
O vogliamo dire che il fato si vendica su di loro appena ne ha l’occasione?
Tutto è possibile..la mia è solo un’osservazione statistica.

Nel corridoio, il mio amico aspettava.
Il collega radiologo riferì a lui le stesse conclusioni.
Lui si aggrappò a quel tenue filo sospeso sul...nulla.
“L’ecografia non è sicura..devi fare l’esame e aspettare l’esito. Abbiamo un bravissimo anatomo-patologo che ti darà la risposta in due giorni”
“Ti chiamerò appena potrò farlo”.

Fuori c’era il sole.
Era un bellissimo novembre.
Avevo una settimana di vita.
Dopo, se andava bene, solo il nulla e l’attesa...in compagnia dei miei peggiori incubi.

   
Clicca qui per la scheda generale dell'autore
Altri testi dello stesso autore
 
 Nessun Tema...
 
-----------------------------------------
Vai a:

Imposta come tua pagina di avvio aggiungi ai favoriti Privacy Segnala Errori © 2002-2005 Concerto di Sogni - B.A. & R.M MaxWebPortal Snitz Forums Go To Top Of Page