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 Dei Tarocchi, di una Gazza Ladra e di sorrisi
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Lucidalba
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Filtrava una luce strana in quella stanza. Dipingeva di pesca i muri colorati dal tempo. Il concerto delle cicale aveva preso il posto del ronzar di quel ventilatore che restava immobile, appeso al soffitto. Immote anche le ombre create dalle imposte accostate con l’intento di scacciar i caldi raggi.
Laccate di viola, le lunghe unghie seguivano i polpastrelli della mancina che scivolavano sulla prima lama del mazzo che reggeva nella destra. Vi passarono sopra tre volte, l’indice e il medio. Alla quarta, una leggera pressione, portò con sé la prima carta che venne presa fra quelle dita. Il pollice a sostegno. Fluido movimento, accompagnato dal musicar dei gioielli e dei sonagli che portava al polso, e il Matto fu posto sopra la ruvida e sudicia superficie del tavolo. Scuro noce, probabilmente, segnato dal tempo e dai numerosi unguenti che erano stati creati sopra di esso. Inesorabilmente aveva osservato il corso degli eventi, impotente, anche quando La Serpe gli aveva conficcato quel suo coltellaccio nelle lignee membra. Aveva gridato, si. Nessuno lo aveva sentito, solo La Zingara, sua Signora e quella strana bambina, seduta in un angolo in disparte, colei che sarebbe stata chiamata La Gazza Ladra.
Nuovi tintinnii e l’Eremita fece la sua comparsa accanto al Matto. Sorrise La Zingara, seppur le sue labbra non si fossero atteggiate a sorriso. Ma si può sorridere in tanti modi, questo Lei lo sapeva e lo aveva messo in pratica. Fissa maschera indossava, nessuna emozione si lasciava scappare, ma lei era nata ridendo e il sorriso non si cancella e neppure si nasconde ad occhio capace. Fu forse ciò che attirò la bambina, fu ciò che la spinse a rivelarsi, a parlare. O forse no.
Sfregarono le unghie sul Tarocco coperto. Rabbrividì La Sfregiata, che sempre stava poggiata contro lo stipite della porta che uscio non aveva, ma solo alcuni fili di perline, che tintinnavano quando vi passava qualcuno in mezzo. Rabbrividì dunque, perché sapeva che quel sottile stridio, quasi impercettibile, s’udiva solo alla comparsa di quella lama. Ignorava, la donna superstiziosa. Le era stato detto il vero significato, ma era di testa dura e quella carta proprio non le andava a genio, quel ricordo era ancor troppo radicato in lei. La Morte fu adagiata accanto alle altre due carte. Ancor la mancina si posò sul mazzo. Aveva sognato quella notte ed ora lasciava alle carte il suo realizzarsi. Ne prese un’altra, l’ultima. La Ruota. La Turca aggrottò le sopracciglia nel veder il Tarocco in più. Rimase però ferma, appoggiata alla parete, le braccia incrociate al petto.
Il mazzo posò da una parte, alla sua destra. La mancina alzò, le dita leggermente aperte. Così il palmo passò, tre volte, a qualche centimetro dalle carte, in senso rotatorio, senza far tintinnar alcun bracciale, alcun sonaglio. Pure le cicale sembravano mute e pareva che il Tempo si fosse fermato ad osservar ciò che accadeva.
La mano fermò, le dita strinse in un pugno che avvicinò al volto. L’unghia del pollice posata sulle labbra lievemente dischiuse. Anche la destra mosse, ad afferrar il polso sinistro. Rimase così per alcuni istanti, poi lentamente si alzò e restando silente, abbandonò la stanza, senza prestar attenzione alle figure che avevano assistito, senza neppure rivolger loro uno sguardo, neppure a La Sfregiata, quando le passò accanto, per uscire. Il suo tempo si era compiuto.
- Le Lame hanno taciuto.- Null’altro disse La Turca, seguendo poi, dopo alcuni istanti, La Zingara.
Per tre volte si fece il segno della croce, La Sfregiata. E per tre volte la fece al contrario, come era d’uso in altra religione, giusto per ingraziarsi anche in quel modo, lo strano Dio a cui si rivolgeva. Ultimo sguardo alla stanza, poi scomparve anch’ella, nel buio corridoio.
I quattro Tarocchi rimasero lì. Immobili, a ridere del fare altrui, a urlare, gridare, il loro significato, specie ora che non si aveva orecchie per intenderli.

Innumerevoli piccoli cerchi si rincorrevano nella superficie increspata di piccole pozzanghere d’acqua e pantano. D’improvvisero vennero infranti, mentre nudo piede sprofondava in quella melma. Nessuna imprecazione giunse dalla giovane bocca, forse perché quella specie di corsa non le permetteva di far altro che respirare, o forse la presenza della madre le aveva riportato alla mente alcune buone creanze. A piccoli e rapidi passi seguiva le due, capo chino, per ripararsi al meglio dalla pioggia, mentre nel nero mantello si stringeva. Non sopportava quella cosa bagnata e umida, non sopportava quando le carezzava le mani e le braccia, per questo cercava di sottrarle a quella fine pioggerellina. Leste entrarono nella Casa. Lei e l’altra rimasero presso la soglia, la porta sempre aperta, mentre La Madre proseguì nel buio corridoio fin quando La Sfregiata, che a quei tempi veniva chiamata semplicemente La Greca, non le venne incontro. Si scambiarono alcune parole, monosillabi più che altro e La Greca sparì ancora, dentro una stanza. Al cenno de La Madre, le due si mossero, forse vagamente diffidenti, non proprio a loro agio in quel posto che odorava di incensi e malie.
Passarono attraverso i fili di perline, attaccati all’arcata della porta senza uscio e lì accanto rimasero ad osservar La Madre avvicinarsi ad una strana donna. Di nero vestiva, numerosi strati di sottile seta nera, quasi trasparenti, se visti singolarmente. La destra alzò, il palmo ben in vista, ad imporre l’immobilità all’altra donna.
Aggrottò la fronte, la Bambina, quando vide La Madre arrestarsi al gesto della donna. Non capiva come potesse ubbidir in quel modo a un solo cenno, ad un ordine. Ed incrociò lo sguardo di quella strana donna, che pareva aver occhi solo per lei. La Madre si voltò verso le due, seguendo lo sguardo della donna e silente rimase.
- Fuoco.- Disse La Zingara e null’altro, distogliendo poi lo sguardo dalla bambina riportando la sua attenzione su La Madre.
Già sul ripiano del tavolo erano stati stesi sette Tarocchi. Sette, perché quello sarebbe stato il numero di loro. Sei ne doveva aspettare. Così era stato detto. Una sola carta era stata scoperta, le altre celavano la propria figura. La Zingara fissò La Madre e indicò le carte, poi lasciò che le mani si perdessero fra le ampie maniche della veste e attese. La Terza carta fu scelta. La Papessa.
Lentamente La Zingara mosse il braccio e La Greca scomparve nel nero corridoio, per poi tornare alcuni istanti dopo, con una tazza in mano, che posò vicino alla carta scoperta. Le mani dai polsi adornati di bracciali, afferrarono la tazza, colma di liquido nero dall’amaro aroma e la porsero a La Madre che bevve in un unico sorso per restituir poi la tazzina che La Zingara lesse, attentamente.
- Donna, Madre, Sorella e Figlia sarai. Tu parli e il verbo diventa realtà. Eterna fra le Illuminate sarai seppur in altre spoglie. Due semi e due Frutti tu doni. Voi che la Luce avete coltivato per generazioni, senza neppur comprendere. Legate dai numeri, legate dagli astri. Nulla è dato al caso- Nuovamente serrò le labbra ed immobile rimase, mentre La Madre tornava ad osservar le figlie.
La Grande si avvicinò, come richiamata da qualche voce, seppur nessuno avesse parlato. Sol un lieve tintinnare si udì, quando La Zingara annuì lievemente. Si scostò il cappuccio dal volto e rimase qualche istante ad osservar le carte. Sembrava facesse la conta, ma ben presto scelse la seconda carta, Il Bagatto.
- Tu vedrai una sola cosa nella tua vita, Figlia. Ma sarà ciò che cambierà le cose
Affermò La Zingara, perché aveva visto e aveva letto negli occhi di quella bambina, ciò che era, prima ancora che le carte parlassero, e sorrise, di quel sorriso nascosto dietro rigida maschera.
Fu allora che l’altra bambina, parlò. Alzò il braccio sinistro, l’indice puntato su La Zingara:
- Nelle Luci dell’Alba c’è la chiave del Tutto, la Vita si sussegue fra Ombra e Luce.
Null’altro pronunciò e detto ciò fu come se non avesse mai aperto bocca. S’avvicinò al tavolo, per sceglier la carta, ma repentina la mano de La Zingara le afferrò il piccolo polso. Neri occhi incrociarono quelli grigi, ancor infantili. A sé la strascinò, a sé la strinse forte. Profumava di selvatico, questo la Bambina ricordò di quell’incontro. Questo e le parole che con strana voce la donna proferì:

“Rapido batter d’ali
Scivola una piuma,
Danza cullata dal Vento,
Sfiora raggio di Luna
Bacia la Terra
Polvere di Strade contorte
Bianca e Nera
Tenebra e Luce
E ora le Luci dell’Alba illuminano
Paesaggio incantato di specchi infranti
Illusioni dipinte su maschere di porcellana.
Brilla l’anima, scintillante sogno, invitante calore d’un cuore.
Profumo dolce d’un respiro
Ombra scura e splendente nasconde l’incanto.
Gazza ladra di anime perdute.
Aurora Lucente a custodire preziosa anima.”


Si era persa fra i corridoi, La Sfregiata. Persa nei corridoi della sua mente, mentre quelli reali attraversava, ripercorreva. E poi si fermò, quando lo sguardo incrociò i suoi stessi occhi riflessi in quell’immagine irreale. La mano alzò verso lo sfregio ed osservò la stessa donna eseguir stesso movimento, imitandola. Nessuna deturpazione nel volto suo. I polpastrelli scivolarono sulla pelle, carezzarono la carne imperfetta, mentre lo sguardo seguiva i gesti dell’altra, in quel volto perfetto. Lei che vedeva il passato, ogni giorno riviveva ciò che era accaduto. Lei che vedeva il passato, ancora parlava con l’Eterna, il cui corpo era stato cremato alla Morte e le cui ceneri erano state riposte in un’urna posta sull’unica mensola della stanza presso la quale stava il tavolo, perché guardando quei resti, ne vedeva il passato, fino alla nascita.
Ben ricordava, dunque, quel giorno. Certo, lei lo rivedeva ogni dì, guardandosi allo specchio.
Il Vento lo aveva portato con sé, quel ramingo. Bastardo di nascita, unico sopravvissuto di un parto gemellare. Parto immondo d’una portatrice di luce. Immondo per le sue genti. Secondo per venuta al mondo, aveva ricevuto il dono della Sorella, morta mentre lui nasceva, ancora uniti da quello strano cordone ombelicale. Seguendo i segnali era giunto alla Casa mentre una folata di frizzante vento ne apriva le porte. La Zingara lo attendeva, così come la carta, la quinta. La Morte.
- Tu che sogni il Futuro, tu che chiudi il cerchio, come La Serpe che si mangia la coda, sarai la chiave del mutamento.
Anche a lui furono rivolte parole ambigue, ma queste andarono perse dal Figlio del Vento, quando nella stanza fece il suo ingresso la bambina, che nel frattempo era cresciuta ed ostentava, impertinente, il suo essere femmina. E lui, La Serpe, colui che aveva visto le Salamandre e di loro s’era perdutamente innamorato, perse la testa per lei, in cui Fuoco ardeva impetuoso.
Selvatica, diffidente, felina creatura, grigio sguardo rivolgeva, insolente, verso l’uomo che aveva il dono. Scuotendo il capo, ornato da lunghi e corvini capelli, aveva abbandonato la stanza, lei che cercava di sfiorar il mistero del tutto nell’uno e dell’uno nel tutto.
Colei che era bambina, era diventata donna e colei che era diventata donna, rubò la sua prima anima, quell’anima che si era persa per lei. Fu così che venne il momento di sceglier la sua carta, che mai era stata girata. La settima, il Matto.
- Colei che fra le Luci dell’Alba è nata, colei che vedrà ad occhi chiusi, sarà Gazza Ladra di anime perdute, Custode del Fuoco.
Ma la passione non si spegne, divampa, così come il Fuoco, alimentato dal Vento. Passarono giorni, settimane, mesi, anni…il tempo è cosa talmente relativa da essere quasi ininfluente, ma La Serpe non dimenticò La Gazza Ladra, anzi, con pazienza addomesticò quel suo cuore selvaggio e fu sua. Per sette giorni e sette notti si persero l’uno nell’altra, fin quando il gallo cantò l’ottavo giorno e lei scomparve improvvisamente.
Presso la Casa, La Serpe tornò in cerca di lei, angosciato, inquieto, tormentato, che egli non sapeva che il Fuoco l’aveva scottato e ciò che la Sorella gli aveva dato, lui or aveva donato a colei che era stata sua, chiudendo così il cerchio. La Zingara lo attendeva come sempre, perché anche questo aveva scorto.
Ma sulla soglia, la Greca vide. Vide ciò che era successo ed inveì contro di lui, perché vedeva tutto perso, vedeva il futuro rompersi, la speranza infrangersi. Con violenza s’accanì contro di lui. Si mosse la Turca, perché lei sentiva ciò che provavano gli altri. Lei aveva girato la quarta carta, Gli Amanti. Percepiva dunque i sentimenti più profondi e presagiva guai, eppure improvvisamente si fermò, lo sguardo posò su La Zingara e capì che ciò che stava accadendo doveva succedere.
Una lama di metallo fu sfoderata, con un unico gesto fu lasciata libera di portar violenza. Incise sulla carne, deturpando per sempre il volto de La Greca. Con altrettanta forza la lama, che mai prima d’ora era stata usata, fu conficcata sulla superficie del tavolo, a ferir il Tarocco della Morte.
Così La Serpe se ne andò, assolto il compito per il quale era nato e vissuto. Così se ne andò, malato d’amore, pazzo di passione e mai più tornò, consumato da quel Fuoco tanto voluto.
E fu così che La Greca scoprì la sesta carta, la sua, Il Mondo. Fu così che assunse nuovo nome.


Fu presso la Casa che nacque il Figlio de La Grande. Fu mentre urlava, presa dai dolori del parto che gridò la sua unica profezia:
- Colei che nacque fra le Luci dell’Alba e d’anime perdute si sazia, partorirà la Luce.
Nacque un bambino. Maschio. E il dono di quella donna, lì si spense.

Nello stesso istante accadde ciò che era stato detto. O forse fu anni dopo, questo non è importante. La zingara del cielo splendeva radiosa, regale, femminea come sempre, illuminando ciò che voleva, capricciosa creatura, lasciando nell’Ombra, ciò che nell’Ombra doveva rimanere. A gambe aperte, in un campo di grano, La Gazza Ladra, gridava il nome della Sorella, quel nome che solo lei sapeva, in preda ai dolori di un parto privo di bambino. Nessuna gravidanza, nessun infante. Eppur nove mesi passarono finché giunse quella notte e ciò che uscì dal suo ventre, il dono ricevuto da La Serpe a lei tornò. Luce accecante che l’avvolse.
Più nulla ricordò di quei momenti, solo La Sfregiata avrebbe saputo ciò che le era accaduto, leggendolo nei suoi occhi, leggendo il suo passato. Si risvegliò in una stanza scura. Le cicale cantavano le loro canzoni.


Aprì gli occhi lentamente ed altrettanto lentamente si alzò dal letto, risvegliata da quel concerto di cicale. Conosceva quella stanza, quella Casa, eppure le sembrava diversa, la vedeva diversa. Percepiva nuovi suoni, nuovi colori e sensazioni. Si girò di scatto, verso la parete ad Est e vide. Ad occhi chiusi vide la Nera Signora, attraversar il muro, la veste come nuvola di fumo denso, scuro. Il volto scoperto ne rivelava la meravigliosa bellezza. Rimase per alcuni istanti ad osservarla, incantata, sedotta. Fra le mani teneva, salda, la falce d’argento che luccicava, così come splendeva la mezzaluna in cielo. Gli sguardi si incrociarono ed un brivido freddo percorse la schiena della donna e poi, così com’era venuta, Madama Morte s’allontanò, per andar a tender la mano ad un vecchio che presto avrebbe danzato con lei.
Mosse passo verso la stanza, quella del tavolo, continuando a veder ciò che era, ciò che era stato e ciò che sarebbe stato. Davanti a lei vedeva aprirsi numerose vie, spalancarsi innumerevoli porte. Avanzando d’un passo, alcune scomparivano, altre comparivano improvvisamente. Alzando un braccio, accadeva lo stesso. Ogni gesto provocava un cambiamento di quel che parevano le vie del destino. Nessuno era nella stanza, solo La Madre, custodita nell’urna. La vide, come per la prima volta e le sorrise, con il cuore, con lo spirito. Un nuovo sorriso. Poi lo sguardo si perse e si ritrovò, soffermandosi su quattro carte, stese sul tavolo, una accanto all’altra. Il Matto, L’Eremita, La Morte e La Ruota. Vide e capì.
Era giunto il suo momento.

   
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