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 Pummarò
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riccardo resconi
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Italy
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Inserito - 12/08/2020 :  18:51:30  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a riccardo resconi
Pummarò

Mi chiamo Abenà, perché sono nato di Martedì
Vengo dal Ghana ed esattamente dalla regione di Ashanti
Sono il sesto figlio ed unico maschio, mio papà ringrazia ancora Dio che io sia nato
Ho ancora nelle orecchie le parole pronunciate a mia madre più di una volta
-Donna, non so proprio come fare con te, mi regali solo figlie femmine, vuoi forse vedermi morto? –
Le mie sorelle maggiori spesso raccontavano quando eravamo a tavola di aver visto piangere il vecchio padre per la mia nascita. Facendolo infuriare pur di non ammettere
Un vecchio agricoltore che si spaccò la schiena per darci sempre del cibo da mangiare
E su una di quelle terre si accasciò unendosi per sempre alla polvere
Questo suo rigore e forza mi aveva sempre reso orgoglioso di essere suo figlio
E avevo sempre desiderato essere come lui
Ma nel paese le cose erano cambiate e il lavoro ormai scarseggiava da tempo
Lavoravo davvero poco e vuoi per la mia testardaggine o ambizione miravo a qualcosa di grande
Quando sentii degli uomini lungo la strada che erano appena tornati dall’ Italia, che in quel paese c’erano grosse opportunità, iniziai a pensare seriamente di lasciare il paese
Ma non era facile
Ero l’unico maschio della famiglia e mai avrei voluto arrecargli dolore o difficoltà
E poi in quel paese ero nato, avevo i miei vecchi amici e le mie abitudini
La sera quasi al tramonto, seduto sulla vecchia sedia a dondolo di papà, ammiravo quel dono della natura che avevamo
La savana e i suoi odori e colori erano impagabili, anche l’antilope che si fermò a guardarmi per qualche istante lo sapeva
Rimuginavo sul da farsi e mi addormentai li quella notte, trovando la mattina una copertina che di certo mia mamma aveva poggiato su di me
Una settimana dopo decisi e ne parlai alla mia famiglia, tra facce tristi, lacrime copiose, ma nessun ma
Gli uomini che avevo ascoltato quel giorno sarebbero ripartiti a breve e dovevo trovarli e dirglielo
La partenza fu dopo pochi giorni, su u vecchio camion malandato, che conteneva circa quindici volti neri e spauriti, che non sapevano cosa mai sarebbe potuto accadere
Percorremmo con il camion migliaia di chilometri con pochissime soste anche solo per pisciare o bere
I nostri conducenti avevano fretta, come stessero andando ad un appuntamento a cui non si poteva mancare
Avevo fatto conoscenza con alcuni di quei ragazzi, avevano più o meno la mia età
Nei loro occhi vedevi la rassegnazione per aver scelto di lasciare il paese
Nelle loro parole ne sentivi i ruggiti di fiere affamate nel voler raggiungere uno scopo
Arrivammo al mare che erano le tre di notte, ed altri uomini ci aspettavano, armati fino ai denti
Ci fecero versare la somma pattuita in dollari e per sveltire nel salire sul barcone ci diedero anche delle legnate sulla schiena, senza poter dire nulla
Non avevo mai fatto un viaggio nel mare aperto e ricordo ancora oggi come la più terrificante tra le esperienze
Sbarcammo dopo diverse decine di ore su una spiaggia, anche qui a spintoni ed insulti
Già fortemente privati e disidrati, ci fecero salire immediatamente su un altro camion
Capii dalla musica della radio che ascoltava l’autista che eravamo in Italia
Un motivo che risentii anni dopo, che mi fece sentire tutte le ferite di quegli anni
Riuscii a leggere il cartello di arrivo, un nome Rosarno, e tanti piccoli forellini che sembravano decorazioni, ma in seguito mi dissero di quale fucile
Ci fecero fare varie strade di campagna prima di arrivare ad un campo fatto di baracche in lamiera, che a stento si tenevano su
Qui dopo aver trattenuto i nostri passaporti, quello che chiamavano il caporale, ci indicò con il dito chi entrava in una o nell’altra baracca
La puzza all’interno era violenta, come un *****tto forte e dritto allo stomaco
Ed anche piena di animali morti per ragioni varie
Ero talmente stanco che non tolsi neanche i vestiti e mi lasciai andare su quella branda lurida senza peso
La mattina di buon’ora ci svegliarono e tutti in fila fuori ascoltammo quale erano le nostre assegnazioni
Io andai con il furgone giallo verso i campi rivolti al mare
Il sole stava appena sorgendo, ma lo spettacolo di tutto quel rosso dipinto nei campi mi era sembrato meraviglioso
Solo pochi giorni dopo seppi si sbagliarmi ed invece di aver trovato la fortuna che avevo sperato, capii che ero sprofondato nell’Inferno
Nel girone dei dannati che mi aveva raccontato mio padre, di quando era ancora giovane e non aveva della terra propria
Entravamo nei campi molto presto per uscirne solo quando il Sole era ormai stanco
Con schiene chine raccoglievamo pomodoro, quello che alcuni definivano “l’oro rosso”
Ma per noi non era così
Era solo lavoro, sotto un sole che piegava ogni resistenza, ogni volontà
Ci davano da bere in orari precisi e quando qualcuno crollava per un colpo di caldo, lo caricavano su uno di quei furgoni per non vederlo mai più con noi
La paga era molto bassa e a stento mettevo qualcosa da parte per poter mandare alla mia famiglia
Non ci si poteva fidare di nessuno e cosi nascondevo dentro un barattolo di latta quei soldi, per poi metterli sotto una lista di legno del pavimento, dove normalmente i ratti correvano
Non avevamo un nome per loro, chi chiamavano tutti pummarò
E a chi non stava bene prendeva anche tante legnate quando era un buon giorno
Con i miei compagni stemmo lì diversi mesi
E in tutto quel tempo ebbi modo di conoscere bene la razza umana
Di come e di cosa potesse essere in grado di fare
Nelle nostre baracche, con in compagni di sventura, a volte raccontavamo della nostra terra
Quasi sentendone il profumo e ridendo di storie a volte vere ma anche molto di fantasia
Avevo perso diversi chili e sapevo che non sarei potuto stare lì ancora molto
Ma non avevo ben preciso in testa di quando e come sarei potuto andare via da tutto quello
Un giorno fece un caldo davvero impressionante e mentre ero li nei campi a spaccarmi la schiena e tagliarmi tutte le mani, mi sembrò di vedere quell’antilope, proprio quella che molti mesi prima si era fermata proprio davanti casa
Mi fissava come per dirmi qualcosa, ma non feci a tempo di vedere altro, crollando tra quella polvere come quando mio padre perse la vita
Fui più fortunato di lui in quanto il caporale che ci era stato messo di guardia era uno del mio paese ed anche se non ci si conosceva lui lo sapeva
Mi ritrovai in baracca con una febbre altissima, sudando come non feci mai e trascorsi la notte in preda ad allucinazioni, senza poter reagire
Non arrivarono medici a vedermi se non i miei compagni che mi fecero bere per sfebbrare
Rimasi così per diversi giorni e naturalmente senza paga
Ricordo i lampeggianti e sirene e colpi di pistola
Le forze dell’ordine avevano avuto l’ordine di farci sgomberare
Probabilmente la nostra salvezza
In caserma eravamo in tanti, solo alcuni conoscevano le poche parole in italiano per poter rispondere
E alla domanda di quale è il tuo nome, in molti risposero “pummarò”
Ci imbarcarono con una nave verso la nostra terra
Furono tre giorni di traversata e non dormii se non poche ore
Osservavo il mare e ne sentivo la potenza
Ma anche quel senso di libertà che mi avevano portato via
Mi chiamo Abenà e sono nato di Martedì


(patapump )

   
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