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 Della pesca e del fiume 5
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massimo
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Inserito - 31/07/2003 :  18:10:51  Mostra Profilo  Visita la Homepage di massimo Invia un Messaggio Privato a massimo
Ricordi

Iniziò così un periodo che si protrasse per qualche anno, tre o quattro, non posso ricordare esattamente. Andavamo a pescare abbastanza di frequente, più spesso da soli, altre volte in compagnia di amici di mio padre, accomunati dalla medesima passione, anche se in genere più esperti di noi. Da questi cercavamo di carpire piccoli trucchi e segreti per migliorare le nostre capacità. Seguendo poi i consigli di Fabio, perfezionammo un poco la nostra tecnica, usando ami più piccoli, bave più sottili, galleggianti più leggeri ed affusolati. Imparammo a conoscere abbastanza bene il torrente Scoltenna, soprattutto nella parte bassa che da Strettara arrivava fino alla confluenza con il Leo. Perfezionammo la nostra conoscenza delle caratteristiche e delle abitudini delle varie specie di pesci che popolavano il fiume, vaironi, barbi, cavedani, lasche che noi chiamavamo streggie. Tutto sommato rimanemmo dei principianti, limitandoci a sfruttare le condizioni estremamente favorevoli del fiume, molto ricco di pesce e povero di pescatori.. Eravamo comunque nella media dei pescatori del luogo e, se andavamo in compagnia, non rischiavamo più di sfigurare.
A volte, specialmente in piena estate, quando in Scoltenna il pesce diventava meno propenso a mangiare per il caldo e per il calo della portata d’acqua, andavamo a pescare in Rossenna, da Gombola fino alla confluenza con il Secchia. Il Rossenna è un torrentello appena più grosso del Mocogno, ma con le stesse caratteristiche. Solo l’alveo più largo e meno infrascato consentiva una pesca più agevole. Essendo un affluente immediato del Secchia, era particolarmente ricco di pesce, sempre pronto a mangiare, anche se di taglia media piuttosto piccola. I nostri cestini erano sempre gli stessi: in maggioranza vaironi, poi, in misura decisamente inferiore barbetti e cavedanelli. Raramente potevamo mostrare prede di una certa dimensione, e se a volte questo accadeva, era più per un colpo di fortuna o un insieme di casualità, che per la nostra reale perizia. Ma tanto ci bastava per mantenere viva la nostra passione ed il nostro divertimento. Iniziammo anche ad andare a pesca della trota, con risultati soddisfacenti in quanto è un pesce fondamentalmente stupido che non richiede tecniche particolarmente raffinate.
Ricordo uno dei più begli esemplari di trota catturato da mio padre. Eravamo a pescare, mi sembra di ricordare al Mulino di Mazzieri, a monte del Mulino del Ruoto. Particolare era in quel luogo una specie “funivia” che consentiva di attraversare il fiume per raggiungere il mulino che si trovava sulla sponda opposta. Grossi massi di colore verde scuro, delimitavano l’inizio di un bel pozzo lungo e abbastanza profondo, un posto ideale per il pesce.
Quella giornata non era stata particolarmente pescosa ed i nostri cestini risultavano piuttosto scarsi. Mentre risalivamo il fiume, avviandoci verso casa, ci fermammo proprio in quel posto, per sfruttare quel poco di luce che restava. Qui facemmo gli ultimi tentativi, perché nei pescatori la speranza è veramente l’ultima a morire. Io continuai a pescare con il galleggiante, mentre mio padre volle tentare diversamente, usando un cucchiaino, che aveva appena acquistato da Fabio e che, a quanto ci aveva spiegato, avrebbe dovuto funzionare con le trote e con i grossi cavedani.
Non aveva una canna apposta, si limitò a smontare la montatura dalla sua ed a fissarlo, come gli era stato spiegato, alla beva del mulinello, “in diretta” come si usiamo dire. Fece qualche lancio verso la sponda opposta, proprio dove i massi creavano un giro d’acqua particolarmente indicato come posto da pesci, e che, col galleggiante, non eravamo riusciti a raggiungere. Giusto quattro o cinque lanci, proprio per provare ed invece, improvvisamente, l’abboccata. Immediatamente sentii lo sfrigolio stridulo della frizione del mulinello che cedeva bava e questo significava che il pesce era grosso. Un suono che sentivamo molto di rado. A quell’allarme posai subito la mia canna e mi avvicinai a mio padre, sia per assistere alla cattura, sia per essere pronto ad intervenire in caso di bisogno. La lotta durò più o meno un quarto d’ora, durante il quale la trota sfruttò egregiamente la corrente per tentare di liberarsi, mentre la canna si piegava dando l’impressione di doversi spezzare. Finalmente riuscì e farla giungere, stremata, sui sassi in prossimità della riva, dove io potei afferrarla con le mani e terminare così la cattura. Non ricordo che avessimo con noi un guadino per salpare il pesce. D’altra parte le nostre catture raramente richiedevano tale attrezzo e, in ogni caso, le bave che usavamo erano sempre più grosse del necessario. Se mai capitava, come in quel caso, ci limitavamo appunto a fare scivolare le prede sulla riva finché riuscivamo ad afferrarle.
Guardammo ammirati quella trota, era l’esemplare più grosso che avessimo mai catturato fino a quel momento. Una bella fario, col dorso verdastro che hanno quando stanno nel fiume e quella miriade di puntini neri e rossiche rendono così caratteristica ed inconfondibile la loro livrea.
Anche se quella cattura era stata del tutto fortuita, avevo imparato che una giornata di pesca infruttuosa, possa diventare memorabile per una unica cattura.
Quando andavamo a trote in genere usavamo come esca i lombrichi, che prendevamo dall’orto o nelle prossimità di un qualche letamaio. Avevamo poi imparato che c’era una specie di larve di cui erano particolarmente ghiotte le trote ed anche altri pesci. Non so il nome scientifico, noi le chiamavamo “portasassi”, per la specie di guscio che si costruivano all’intorno, con piccoli sassi, sabbia, ghiaietti. A volte mio padre comperava le uova di salmone, ricordo anche la marca, le Keta, ottima esca, ma costosa e poco pratica se si pescava in corrente.
Utilizzavamo queste esce in quanto nelle zone delimitate per la pesca alla trota, i begattini erano giustamente proibiti, e mio padre non era certo una persona da infrangere leggi o regole.
Mi divertivo a cercare i portasassi. In genere mi recavo il giorno prima con la bicicletta in qualche fosso nei dintorni di Lama. Uno in particolare, vicino a Montecenere, era particolarmente ricco di queste larve. Bastava smuovere qualche sasso o frugare sul fondo e, facilmente si potevano trovare questi piccoli cannoli, minuscole quanto stupefacenti architetture, all’interno dei quali stava, ben protetta, una larva gialla e carnosa. Ne riempivo un paio di secchielli portaesche, mettevo un po’ di muschio umido, per tenerle fresche, e la scorta era più che sufficiente. Un paio di queste coprivano benissimo una amo da trota, più grosso di quelli che usavamo abitualmente.
Le trote abbondavano nella parte alta dello Scoltenna e dei suoi affluenti, dove solitamente andavamo, oppure nella diga di Riolunato. Qui pescavamo “a fondo”, ovvero utilizzando un grosso piombo per tenere ferma l’esca sul fondo, mentre il filo veniva teso fino ad incurvare leggermente il cimino. Un tremito o una serie di sussulti segnalavano l’abboccata. Bisognava allora essere veloci a ferrare la preda finché era intenta a mangiare. In genere era una pesca piuttosto redditizia, solo la trovavo abbastanza monotona, e, se il pesce non era in giornata di mangiare, decisamente noiosa. Ben diversa da quella a fiume, dove, in ogni caso, ci si poteva muovere di continuo.
Mi piaceva di più andare a pescare “al tocco” nei piccoli fossi di montagna. Uno di questi passava proprio vicino alla casa dei miei nonni materni, dove passavano l’estate la nonna e le zie, sorelle di mia madre, con le rispettive famiglie. Spesso io e mio padre approfittavamo delle visite di mia madre per fare una “pescatina” in quel fosso ed in quelli vicini.
A volte andavo a pescare con un mio zio materno, prozio in verità, in quanto marito di una sorella di mia nonna: Giovanni detto Gambone. Era un fungaio di professione e riuscire ad andare a funghi con lui era la quasi certezza di riempire il cestino. Conosceva le “bolate” di funghi nella zona, meglio di chiunque altro. Quando non andava a funghi si dedicava alla pesca alla trota, con un metodo tutto suo, meritevole di essere descritto. Aveva ridotto la tecnica e l’attrezzatura all’essenziale, in compenso era dotato di una esperienza e conoscenza dei trucchi della pesca alla trota come pochi. Usava una cannetta, piuttosto rigida, di circa un metro e mezzo, con una lenza fissa di una settantina di centimetri, di bava piuttosto grossa, direi del 30, un amo grosso, un paio di piombi a venti centimetri dall’amo. Per esca non utilizzava i lombrichi da terra come noi, ma quelli d’acque, che trovava sotto il muschio nei fossi, più rosei, carnosi, resistenti, che possono stare sull’amo a lungo senza spezzarsi. I posti dove andavamo a pescare erano in genere parecchio infrascati, un susseguirsi di correntine e cascatelle, ed i pozzetti, dove stavano le trote, difficili da raggiungere con una diversa attrezzatura.
Innanzi tutto mi spiegò che la trota è sospettosa di ciò che proviene dall’esterno, mentre è pochissimo diffidente per quello che vede in acqua, per questo diventa difficile da pescare. Non perché abbia problemi particolari ad abboccare un’esca ben presentata, ma perché probabilmente l’abbiamo messa in allarme e fatta rintanare, con il rumore di un sasso smosso o la nostra ombra. Si muoveva come un gatto, nonostante l’età, silenzioso e basso per non farsi scorgere, attento a non fare alcun rumore, pareva scivolare sui sassi e tra le frasche.
Arrivato in prossimità di un pozzetto, dove poteva esserci la tana di una trota, allungava piano la canna e faceva scivolare l’esca sulla cascatella che lo formava, in modo del tutto naturale.
Se c’era la trota si avvertiva immediatamente la caratteristica mangiata. Un primo strappo, trasmesso dalla lenza alla canna, ed allora bisogna allentare un po’ il filo, poi due o tre rapidi tocchi, segno che aveva inghiottito. A questo punto dava una veloce ferrata e la trota veniva velocemente salpata senza troppe cerimonie ed infilata nel cestino. E’ il tipo di pesca denominata “al tocco”.
Se poi la trota malauguratamente riusciva a sfuggire, non si perdeva certo d’animo. Posata la canna, si tirava su i lunghi stivali, abitualmente abbassati sotto il ginocchio, fino alla coscia, ed entrava in acqua senza problemi, poiché raramente la profondità superava il mezzo metro. Muoveva lentamente le mani tra i sassi fino ad individuare dove stava la trota, poi un veloce presa ed il pesce finiva nel cestino.
Insegnò anche a me e non era così difficile come, a prima vista, poteva sembrare. Il trucco, mi spiegò, era di tenere le mani con le palme rivolte verso l’alto, sempre strisciano sul fondo del fosso, fino ad individuare la tana della trota. Basta fare scivolare piano uno mano sotto la pancia fino a raggiungere le branchie e qui afferrarla con il pollice e l’indice.. La trota è abituata a sentire i sassi sotto la pancia e non si allarma troppo, se non si fanno movimenti bruschi, ma basta sfiorarle il dorso che schizza via velocemente. Successivamente ho scoperto che funziona con tutti i pesci, specialmente i barbi. L’unico vero problema è la temperatura dell’acqua, sempre gelida.
Se poi capitava una trota di misura inferiore a quella consentita, non la ributtava certo in acqua, si limitava a riporla in una borsina nella tasca posteriore del giubbotto da pesca.
Credo che si potesse definire un bracconiere, ma non sono mai riuscito a considerarlo tale. Penso invece che ragionasse in termini più pratici; la pesca era per lui una fonte di sostentamento, come i funghi. Le mangiasse o le vendesse rappresentavano un reddito, non un piacere come per noi. Allora lo avevo giudicato un pescatore dilettante, e tale poteva apparirmi per la povertà dei mezzi utilizzati. Solo col tempo ebbi la consapevolezza della sua professionalità Aveva raggiunto l’essenzialità della pesca, aveva eliminato tutto ciò che non era strettamente indispensabile per quell’unico scopo di catturare pesci. Sapeva tutto delle trote, dei fossi dove avevano il loro habitat, di quello e di come mangiavano, dei loro istinti e delle loro paure. Era riuscito a ragionare come loro, quasi ad essere loro. Purtroppo questo lo compresi perfettamente solo parecchi anni dopo.
Tra i personaggi che ebbi modo di conoscere i quel periodo, merita di essere raccontato, non fosse altro per un episodio particolare che me lo rese indimenticabile, è il Cavalier Caselli. Era uno degli amici di mio padre con il quale andavamo abbastanza spesso a pescare, un geometra che abitava in una bella casa, subito passata Olina. Ritengo dovesse essere una persona piuttosto influente e considerata in paese, sia perché Cavaliere del Lavoro, sia per la professione di geometra. In una comunità come la nostra, con un’economia ancora prevalentemente basata sull’agricoltura e sullo sfruttamento dei terreni, chi aveva competenza in fatto di confini, divisioni, stime, doveva rivestire certamente un ruolo di una certa importanza.
Il mio ricordo, in verità piuttosto vago, è di un uomo, piuttosto grassoccio, sulla sessantina, sempre in tenuta da pescatore, con baffi ed un cappellino. Era piuttosto disordinato, con l’attrezzatura gettata a casaccio dentro la borsa, piena di bave ingarbugliata. In realtà passava parte del suo tempo invece di pescare a tentare di sistemare inverosimili garbugli, finché non decideva di tagliare tutto e fare un’altra montatura. La lenza tagliata andava così a fare compagnia alle altre. Forse pensava che prima o poi sarebbe riuscito a riutilizzarle. Come pescatore era piuttosto bravo, poiché aveva grande esperienza, e conoscenza del fiume, e questo ne faceva un buon maestro per noi. Dava l’impressione di una persona burbera, o almeno questa era la mia impressione tento che ne ero un po’ intimidito.
Una volta eravamo andati insieme a pescare sotto Olina. Io e mio padre ci eravamo fermati in un posto più a monte, mentre il cavaliere si era spostato a valle, fuori della nostra vista. Ero in un posto dove si vedevano poche mangiate, così, lasciato mio padre, mi iniziai a scandere anche io per trovare un luogo migliore. Aggirato un grosso masso, che mi impediva la visuale, rimasi quantomeno sbalordito quando vidi su un altro masso il Cavaliere che pescava con solo indosso mutando di tipo “tattiche” militari e cappellino in testa. Doveva essere caduto in acqua, evento questo che accadeva piuttosto di frequente, poiché era facile scivolare sui sassi resi viscidi dal muschio bagnato. In genere gli stivali erano sufficienti, o, al massimo. Si potevano riempire d’acqua e bastava svuotarli. Il Cavaliere invece doveva essere caduto in un punto di maggiore profondità ed aveva bagnato completamente tutti i vestiti. Imperterrito, da accanito pescatore quale era, si era limitato a spogliarsi, stendendo tutti gli indumenti sul sasso, per farli asciugare, continuando poi a pescare, come se nulla fosse successo. Mi colpì il particolare delle sigarette, ben allineate a fianco del pacchetto, irrimediabilmente affogato, ed i documenti, patente, licenza…fermati con piccoli sassi.
Quando lo oltrepassai, con forzata noncuranza, cercando far finta di nulla, si limitò a girare la testa verso di me dicendomi che in quel posto il pesce mangiava poco. Considerato che doveva essere caduto proprio in quel punto pensai che non avrebbe dovuto mangiare affatto per lo spavento preso. Più tardi lo vide anche mio padre, ed anche lui rimase certamente sorpreso, perché ogni tanto l’episodio, tornava ad essere ricordato.


   
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