massimo
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Italy
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Inserito - 30/07/2003 : 15:53:30
Si torna a pescare Finalmente, eravamo sul finire di aprile, mio padre un giorno mi chiese se volevamo tornare a pescare. Era quello che attendevo da tempo, che però non osavo chiedere, specialmente dopo avere visto lo Scoltenna in piena e quasi con la paura che parlandone venisse scoperta, in chissà quale modo, la mia fuga al fiume. Iniziammo così a prepararci, perché una battuta di pesca comincia prima di arrivare al fiume, cominciava quando, riordinando ed organizzandoci, cominciavamo a pregustare quello che sarebbe accaduto. Innanzi tutto controllavamo l’attrezzatura per vedere ciò che mancava o che doveva essere sostituito. Fatta mentalmente la nostra lista ci recavamo a Pavullo, al negozio di Fabio, che oramai ci conosceva e ci trattava più da amici che da clienti. Acquistati gli indispensabili begattini, ne approfittavamo per comperare un galleggiante, qualche amo, o un rotolo di bava, arricchendo in questo modo la nostra attrezzatura, in verità poco più che essenziale. Eppure quel poco allora bastava. Tornati a casa, dopo cena ci mettevamo seduti alla tavola di cucina, e controllavamo che tutto fosse in ordine, ami ben legati e senza ruggine, galleggianti a posto, scatole dei piombi ben fornite. Poi ci mettevamo a legare gli ami con la bava da pesca, per avere le lenze già pronte per l’indomani e non dovere così perdere troppo tempo, se mai avessimo “strappato”, perché a quel tempo ce li legavamo noi gli ami. Ricordo mio padre che mi insegnava. Si calava gli occhiali sulla punta del naso, era il suo modo per vedere meglio da vicino, poi prendeva un piccolo amo dalla scatolina, facendolo aderire al dito umettandosi appena di saliva la punte. Era difficile maneggiare ami così piccoli. Quindi, afferratolo saldamente, cominciava a legarlo contando ogni giro che faceva intorno al gambo ad alta voce. Stringeva il nodo e tagliava la lenza perché fosse della giusta lunghezza, un po’ più di mezzo metro. Da allora ho continuato a pescare per oltre trent’anni, seppur a periodi alterni, ma sempre mi sono legato gli ami, e sempre come mi aveva insegnato mio padre. Sistemavamo le lenze su pezzetti di sughero, rettangolari, di circa dieci centimetri per cinque, spessi poco meno di uno. Ben allineate, ad intervalli regolari, puntando l’amo al sughero, avvolgendo la lenza e fissando l’anella finale con un piccolo chiodino. Dieci lenze per ogni sughero. Andavo a letto con il desiderio che venisse subito mattina, pregustando l’indomani passato a pescare sul fiume con mio padre, che, particolarmente in quelle giornate, era per me guida, amico, compagno. Mi addormentavo sognando di essere un grande pescatore, immaginando retini pieni di grossi pesci e mio padre che si vantava per le mie catture al caffè con gli amici. Ci recammo così nuovamente nel negozio di Fabio. Erano passati vari mesi dall’ultima volta che ci eravamo recati lì per questo i saluti che ci scambiammo furono più calorosi del solito. Mio padre si informò sullo stato del fiume e della possibilità di pescare. Fabio ci confermò che l’acqua era giusta, che il pesce già da un po’ aveva ricominciato a muoversi ed a girare, e soprattutto, che i pescatori, frequentatori assidui del suo negozio, avevano fatto belle pescate. Solo ci consigliò di andare a pescare più a valle di dove andavamo di solito, poiché il pesce, risalendo da valle, ancora non aveva raggiunto la parte alta dello Scoltenna. Ci indicò alcuni posti a valle del ponte del Prugneto, descrivendoceli minuziosamente, tanto che li avremmo potuti riconoscere facilmente. Ci dette anche dettagliate istruzioni dei punti dove si pescavano le varie specie. “C’è un grosso masso in mezzo al fiume, fate la passata molto vicino. Sotto c’è una tana di barbi. Se cominciano a mangiare vi stancate di prenderne. Mi raccomando, qualche begattino a monte per pasturarli, ma senza esagerare, giusto per smuoverli un poco.” I discorsi di Fabio mi confortarono non poco, perché, attraverso i suoi racconti, mi sembrava di rivivere le sue pescate, quasi di parteciparvi. Era comunque certo che il giorno seguente saremmo tornati a pescare. Cominciò poi a mostrarci le novità, in particolare delle nuove canne appena messe sul mercato. Erano le prime canne telescopiche, in vetroresina piuttosto pesanti, ma costituivano un’innovazione che, in poco tempo, avrebbe soppiantato le vecchie e tradizionali canne in bambù. Mio padre cominciò ad osservarle con interesse, aprendone qualcuna, soppesandola e muovendola per provarne la maneggevolezza, mentre Fabio ne spiegava le caratteristiche e ne decantava le qualità. Forse un po’ più pesanti e meno flessibili delle canne in bambù, avevano però il vantaggio di essere più resistenti e difficili da spezzare, e, soprattutto molto più funzionali in quanto si potevano montare in brevissimo tempo. Quando poi cominciò ad informarsi sul prezzo, fui certo che ne avrebbe acquistata una. Conoscendolo sapevo che non avrebbe fatto perdere tempo inutilmente a Fabio e che non si informava per semplice gusto di farlo. Finì infatti che mio padre comprò una bella canna nuova, di colore rosso bruciato, con relativo mulinello ed io diventai erede della sua in bambù. Ricordo bene quella canna, che mi ha accompagnato in innumerevoli giornate di pesca per vari anni, finché si spezzò in modo irrimediabile quando, in un laghetto, catturai la mia prima grossa carpa. Finalmente venne mattina e, dopo una veloce colazione, caricammo sulla 600 la nostra attrezzatura. Appendevamo fuori il sacchetto dei begattini, legandolo allo specchietto retrovisore, per tenerlo più fresco, soprattutto per evitare che qualche larva si liberasse all’interno dell’auto, dando luogo ad un proliferare di mosconi. Da quel sacchetto potevi individuare immediatamente l’auto di un pescatore, quasi insegna distintiva della nostra categoria. Il posto che dovevamo raggiungere, distava meno di una quindicina di chilometri, una ventina di minuti d’auto. Una distanza breve, un tempo ragionevolmente corto, eppure quel viaggio mi sembrava non dovesse finire mai. Dopo Renno cominciai ad distinguere lo Scoltenna che scorreva sul fondo dell’ampia vallata. Cercavo di individuare i posti indicatici da Fabio, senza peraltro riconoscerne alcuno. Al termine di un tratto di strada particolarmente tortuosa, dopo avere affrontato una serie di tornati, arrivammo in fondo alla valle. Costeggiammo il fiume per un breve tratto e finalmente potevo osservarlo con attenzione. L’acqua diversa da come l’avevo vista precedentemente. Non limpida e trasparente come d’estate, né fangosa e torbida come l’avevo osservata durante la piena. Azzurrognola invece, lasciava intravedere il fondo in prossimità della riva, mentre il centro del fiume, era inghiottito da un azzurro cupo. Se avessi avuto allora, la mia esperienza attuale, avrei immediatamente giudicato le condizioni del fiume pressoché ideali per la pesca. Giusta portata d’acqua e trasparenza. Attraversato il fiume passando per il Ponte del Prugneto, abbandonammo la provinciale ed imboccammo una stradella che costeggiava il lato destro dello Scoltenna, fin quasi alla sua confluenza col Leo, dove diventa Panaro. Rallentammo per osservare meglio e cominciai a riconoscere infine i posti indicatici. Ci fermammo infine in una piazzuola, prossimi ad un posto giudicato tra i migliori. Nessuno lo occupava, ma in verità era abbastanza raro incontrare altri pescatori, ed allora non c’era certamente la “caccia al posto” o l’affollamento attuali. Se per caso vedevi due pescatori nello stesso posto, significava che erano amici a pesca insieme. Montammo velocemente le canne, e, dopo avere lanciato qualche begattino a monte per fare pastura, iniziammo finalmente a pescare. Come descrivere questi momenti, sempre diversi e sempre uguali. Le prime infruttuose passate, la delusione che cresceva, la delusione ed il sospetto che si insinuava piano, la prospettiva di una giornata poco felice. Poi il primo sussulto del galleggiante, la prima abboccata. Un vairone. L’emozione della cattura, dell’afferrarlo con la mano, slamarlo delicatamente ed infine riporlo nel cestino. Che lo prendessio io o mio padre, come più spesso succedeva, non faceva differenza.Ora avevamo la certezza che il pesce c’era e che mangiava. Comunque la giornata non sarebbe stata persa. Poi un altro, un altro ancora. Un cavedanello, un barbo. Man mano si procedeva cominciavamo ad individuare, con sempre maggiore precisione, i posti dove stava il pesce, le tane dei barbi, il punto dove i cavedani si imbrancavano. La passata diventava sempre uguale, i movimenti quasi automatici. Ogni tanto una cattura di un pesce più grosso della media, ed allora un fischio per attirare l’attenzione e mostrarlo all’altro con orgoglio, prima di metterlo nel cestino. Quando il pesce cessava di mangiare, o anche solo rallentava, ci spostavamo a valle o a monte in un altro posto. A volte migliore, ed allora ci fermavamo, altre, se non dava risultati dopo i primi tentativi, ci si spostava nuovamente, o si tornava in uno precedentemente lasciato. Alla fine, a volte soddisfatti, altre meno, confrontavamo i nostri cestini, le nostre catture, poi, stanchi, tornavamo a casa, già progettando la successiva pescata. Rimanevo a lungo dentro l’atmosfera di quella giornata ed il rinnovato desiderio di ripeterla.
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