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 I giganti del basket
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Roberto Mahlab
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Inserito - 14/07/2007 :  17:24:29  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Roberto Mahlab Invia un Messaggio Privato a Roberto Mahlab
"Questo autobus è diretto alla fiera?", "Sì", rispose l'autista del mezzo di collegamento tra l'aereoporto di Monaco di Baviera e l'esposizione internazionale dell'articolo sportivo che si svolgeva nei pressi della città tedesca, seppur spiccasse sul parabrezza un enorme cartello che riportava "Servizio fiera". "Questo autobus è diretto alla fiera?", "Sì", ogni singolo passeggero, prima di salire, poneva al guidatore la stessa domanda e riceveva la stessa risposta e mai una volta che quest'ultima non fosse più che gentile. Calcolai che, con sei corse al giorno, la scena si ripeteva per un mezzo migliaio di volte.

Con un'economia europea non in grande forma, la fiera non presentava grosse novità e, prima di tornarmene in aereoporto, feci un ultimo giro degli stand più nascosti e mi imbattei in una società cinese che produceva palloni dal 1921 e con la quale avevo avuto in passato sporadici affari in maniera indiretta. Mi accolsero con amicizia e mi mostrarono gli ultimissimi modelli fabbricati con materiali innovativi e morbidissimi e infine, quando mi alzai salutando, mi offrirono un piccolo omaggio, un modello in scala ridotta di un pallone da basket, del diametro di 15 centimetri, è il caso di dire che fui preso in contropiede, non avrei saputo dove riporlo, la borsa portadocumenti non lo poteva contenere :"tienilo in mano", osservarono i fabbricanti, "e sull'aereo come faccio?", domandai sorridendo per non rischiare di offenderli, "tienilo in mano", fu la risposta cortese.

Riattraversai i saloni della fiera verso l'uscita adocchiando i cestini dei rifiuti dove poter infilare il pallone senza farmi scorgere, ma i pochi che c'erano, erano colmi. Fuori grandinava e mi misi a correre, con la borsa in una mano e il pallone nell'altra, per raggiungere l'autobus che mi avrebbe ricondotto in aereoporto. Lo stesso autista del mattino stava accogliendo i passeggeri, come al mattino ciascuno di essi gli poneva la stessa domanda :"Questo autobus è diretto all'aereoporto?" seppur spiccasse sul parabrezza un enorme cartello che riportava :"Servizio aereoporto". "Sì", rispondeva imperturbabile e gentilissimo l'uomo.

A un chilometro dalla meta, l'autobus affrontò una curva ad una velocità sostenuta e il pallone, che avevo appoggiato sul sedile a fianco del mio, scivolò lungo il corridoio del mezzo, rimbalzando, come in un flipper, negli scalini tra una fila di posti e l'altra, gli altri passeggeri osservavano stupefatti il misterioso oggetto rotolante e il misterioso personaggio che lo inseguiva invano, fino a che, inorridito, mi accorsi che il pallone aveva superato l'autista ed era finito ad incastrarsi nella scaletta di uscita. L'autobus infine si arrestò di fronte all'aereoporto e l'autista raccolse il pallone e pose la medesima domanda a tutti i passeggeri che scendevano :"E' suo questo pallone?", "No", fu la risposta di ciascuno di essi, io ero l'ultimo, feci finta di non capire quanto mi chiedeva, insistette dicendo :"per favore, si riprenda il suo pallone".

In aereoporto cercai nuovamente un cestino ma, ogni volta che mi avvicinavo ad esso, mi accorgevo che gli agenti di sorveglianza osservavano con perplessità i miei tentativi di riporre un oggetto sferico tra i rifiuti e così rinunciai e, facendo rimbalzare più volte il pallone sul pavimento per allontanare qualsiasi sospetto, compresi che mi avrebbe accompagnato fino a casa e mi resi conto che ormai mi ci ero affezionato.
L'aereo era semivuoto e potei riporre il pallone sul sedile vicino al mio, la hostess guardava incuriosita, specie quando gli sistemai la cintura di sicurezza attorno per evitare il ripetersi della vicenda dell'autobus e fu un bene, perchè il volo attraversò una perturbazione sulle Alpi e il comandante non sarebbe stato contento di ritrovarsi un pallone da basket in cabina di pilotaggio a disturbare il delicato lavoro di farci atterrare sani e salvi.

"Ciuff!", era il suono preferito di noi ragazzi durante l'ora di educazione fisica a scuola, dedicata al gioco del basket, avevamo creato una squadra e due volte alla settimana ci affrontavamo tra di noi o con le squadre delle altre classi. Era il suono del pallone che si infilava diritto nel canestro di corda, senza rimbalzare sul tabellone, il risultato di un tiro che si definisce "in sospensione", i piedi si staccano da terra, la mano sinistra fà da perno e la destra dà una leggera spinta e la parabola conclude una delle più ammirate e precise azioni della disciplina sportiva. Mi ritornò in mente mentre l'aereo oscillava tra le nubi temporalesche, quasi la coscienza cercasse un luogo sicuro a cui collegarsi, il pallone regolare da 75 centimetri di diametro, quel pomeriggio della finale scolastica, la scelta dell'allenatore di inserirmi, visto che le aveva provate tutte ma eravamo ancora sotto, palleggiavo senza poter effettuare un passaggio ai compagni di squadra, erano tutti marcati a uomo dagli avversari, una sola possibilità, un "terzo tempo", scatto verso il centro della lunetta, stop, rotazione su me stesso per far perdere l'equilibrio al difensore, spazio vuoto che si libera a destra della lunetta, smetto di palleggiare, il pallone saldo tra le mani, una falcata del piede sinistro, poi una del destro, sono sotto canestro, mi elevo e prima di ricadere, per non commettere l'infrazione del "terzo passo", spingo con il palmo la sfera verso il tabellone, rimbalza leggermente, sfiora l'anello di ferro, pare cadere verso l'esterno, ma invece si infila nel sacco intrecciato, l'urlo dei compagni di squadra, il fischio finale dell'allenatore, abbiamo vinto.

Traballando la hostess risale le file di posti per offrire da bere ai passeggeri, chiedo una tazza di thè, la ragazza lancia un'occhiata al pallone seduto di fianco a me, si trattiene a stento dalla battuta di chiedergli se vuole almeno un bicchier d'acqua, lo circondo con un braccio con fare protettivo.

Il bravo pilota atterra in modo soffice e ci riconsegna alla solida terra, con la borsa in una mano e il pallone nell'altra mi reco alla biglietteria dell'autobus che collega l'aereoporto alla città, parte tra cinque minuti, mi fà fretta la cassiera, non c'è lo spazio fisico per posare da qualche parte la borsa e il pallone e tirar fuori il portafoglio, lancio la sfera in altro, estraggo il portamonete e lo metto sul bancone, riprendo il pallone mentre scende, la ragazza prende i soldi necessari, rilancio il pallone, rimetto il portafoglio in tasca, riprendo il pallone. Uno scherzo per chi non si perdeva una tournee degli Harlem Globetrotters. Corro verso il mezzo di collegamento con l'autista che preveniva con un sonante "Sì", la solita domanda dei passeggeri, se fosse diretto in città, i trucchi dell'esperienza.

Negli intervalli tra le lezioni a scuola ci passavamo la rivista cult :"I giganti del basket", mettevamo via con attenzione le mance dei genitori per comparci le mitiche Converse All Stars, le scarpe da pallacanestro dei nostri sogni. Ogni domenica andavamo al palazzetto dello sport a tifare la nostra squadra preferita e ad accogliere il pivot Chuck Yura che arrivava con la sua solita utilitaria e quando apriva la portiera e usciva, avveniva un miracolo, un essere umano si snodava fino ad elevarsi nei suoi due metri e oltre di statura che, non si sa come, riusciva a comprimere nell'auto.


Finalmente l'autobus mi scaricò vicino a casa, la lunghissima giornata si concludeva e, mentre attraversavo la strada per giungere al mio portone, mi accorgevo degli sguardi dei passanti al pallone che avevo sotto braccio, ero imbarazzato, chissà che pensavano, avrei voluto dire a tutti quanti :"guardate che di solito non vado in giro con un pallone da basket, ero ad una fiera in Germania e me lo hanno regalato e nella borsa non ci stava". Giustificarmi, ma perchè mai avrei dovuto giustificarmi, con quel pallone in mano i miei pensieri camminavano a fianco di Magic Johnson, di Kareem Abdul Jabbar, Michael Jordan, Dino Meneghin, i Boston Celtics, i Los Angeles Lakers, il Maccabi Tel Aviv. Lasciai cadere la borsa, palleggiai due volte, saltai in elevazione, raccolsi una mano sotto il pallone, con l'altra diedi la spinta, la parabola e, pochi istanti dopo, il nitido "ciuff" della sfera che si infilava tra le foglie dell'albero della via. In ogni caso era un canestro, non di corda, di vimini, apparteneva alla famiglia dei pettirossi che avevano la dimora su quell'albero, mamma pettirosso me ne diceva quattro rilanciandomi indietro il pallone e papà si volgeva verso i quattro pettirossini che si stavano nutrendo :"Michael Jordan, quello!, ma se non vede la differenza tra un nido e un canestro! Eh no ragazzi miei, mentre voi mangiate vi racconto di quando ero a scuola io, ero nella squadra, con gli altri pettirossi quella sera affrontavamo in finale le aquile, mancavano dieci secondi alla fine, ottanta pari era il punteggio, mi ritrovai il pallone sotto l'ala e..."

"Guardate che di solito non vado in giro con un pallone da basket"... invece per i giorni successivi lo portai sempre con me quando uscivo, il pallone da pallacanestro che mi avevano regalato e aveva rinfrescato i ricordi, ma certo che ci vado in giro, per me quel piccolo pallone era un gigante del basket.

Roberto Mahlab

I racconti dell'ufficio

   
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