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 PULCINO
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lucia guazzoni
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Inserito - 19/05/2004 :  02:32:56  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a lucia guazzoni
PULCINO

Stanotte è morto Pulcino. Aveva sedici anni ed era un gatto meticcio, metà soriano e metà Main Coon, con un carattere ben definito e un muso da gufo arrabbiato ma dolcissimo quando voleva.
Sedici anni per noi, più di cento per lui. E la sua non è stata una vita facile.
Ci eravamo appena trasferiti a Modena da Padova, io e mio figlio di sedici anni, lasciando a Padova mia madre da sola. Fino ad allora avevamo abitato assieme e, benché mio figlio fin da piccolo adorasse ogni genere di animale, non ne avevamo mai avuto, a parte delle tartarughe e un criceto. Mia mamma non voleva cani o gatti in casa, abitiamo in un appartamento, mi diceva, tu lavori e il bambino va a scuola, chi dovrebbe sobbarcarsi l’onere di portare a spasso un cane o pulire la lettiera di un gatto? Ovviamente io, la nonna, ma io non ho nessuna intenzione di farlo, quindi niente animali. Una volta mio figlio aveva portato a casa una micina bianca e nera, piccola come il palmo di una mano e se l’era tenuta nascosta in camera per una notte, ma al mattino era scoppiata la tragedia, mia madre aveva dato un ultimatum e non scherzava: o via la gatta o via io! Così, tra i pianti di mio figlio, avevamo portato via la gattina.
E poi ci eravamo trasferiti a Modena. Casa nuova, appartamento in pieno centro al terzo piano, io al lavoro dalle sette del mattino alle sette di sera e lui a scuola al mattino e al pomeriggio… chissà. Libero finalmente da imposizioni e gioghi, mio figlio si era espresso in tutte le sue multiformi attività, organizzando una piccola banda di ragazzi, quasi tutti più giovani di lui, inquadrandoli quasi militarmente e andando in giro per la città in bicicletta a distribuire volantini e giornali e poi a radunarsi in una stanza che il parroco aveva dato loro, dietro la sacristia. Anni difficili, quelli. Mio figlio non era ancora un uomo ma non era più un bambino, aveva le sue idee, le sue alzate di testa, le sue fughe, ma alla fine lo ritrovavo sempre in quella stanza dietro la sacristia.
Poi, un sabato, in una delle loro scorribande, lui e i suoi amici trovarono posato sopra un cassonetto della spazzatura due scatole da scarpe chiuse con lo scotch dalle quali venivano rumori strani. Le aprirono e da una schizzò fuori un gatto che svanì nel nulla in preda al panico, mentre nell’altra c’erano quattro gattini minuscoli e affamati. Li portarono nella loro stanza, che ormai era il loro covo, diedero loro del latte, prepararono la cuccia, insomma, diventarono le baby-sitter di quei quattro gattini.
Mio figlio me ne parlava ogni giorno.
- Vieni a vederli, mamma, sono bellissimi!
Ma io non volevo andarli a vedere. Non volevo affezionarmi, non volevo che lui mi chiedesse di tenerne uno, come mia madre dicevo che in un appartamento non si può, non si devono tenere animali. Ma una sera, rientrando dal lavoro, mio figlio mi trascinò a vedere i quattro orfanelli, erano davvero carini. Uno era bianco e nero, uno bianco e soriano e un paio tutti soriani. Tre erano vispi e saltellanti, mentre uno se ne stava in un angolino, da solo. Belli, ma non ne voglio nemmeno uno, chiaro?
Chiarissimo, mi disse mio figlio. Ne abbiamo già piazzati due, la gente si è passata la voce e vengono a prenderseli.
Poi, di nuovo un sabato.
- Mamma, ne è rimasto solo uno, il parroco ha bisogno della stanza, possiamo prenderlo noi solo fino a lunedì? Lunedì c’è una signora che deve venire a prenderselo.
Mi sembrava stupido continuare a dire di no, in fondo per due giorni non sarebbe cascato il mondo… e così entrò in casa Pulcino. Era quello solitario, piccolo e con le zampe davanti storte e gli occhi strabici e quando ti guardava sembrava che ti sgridasse, cavolo, ma proprio questo è rimasto? Il più brutto? Pulcino. Piccolo, indifeso, spaventato e sospettoso. Gli preparammo la cuccia in una scatola, la ciotolina con la pappa e l’acqua, la lettiera, tanto è solo per due giorni. Ed è rimasto con noi sedici anni.
Quel lunedì mattina minacciai mio figlio.
- Se quando torno è ancora qui….
- No, no, lo porto via.
E invece era lì, col suo miagolio sottile e quel nasino rosa che mi guardava come se fossi la sua mamma. Me ne innamorai. E cominciammo a vivere in simbiosi perfetta. Pulcino, quando ero a casa, mi seguiva passo passo, tanto che a volte, girandomi, rischiavo di pestarlo. Poi alla sera saltava sul mio letto e se ne stava lì in un angolino, ogni tanto venendomi vicino, come per sincerarsi che non lo avrei abbandonato.
Cominciammo a portarlo avanti e indietro da Padova, in macchina, chiuso nella sua gabbietta e anche mia madre lo accettò, stava diventando talmente bello che sembrava un gatto di peluche. Pelo folto, striature asimmetriche nere e pancia arancione, come i veri Main Coon, ci disse il veterinario, peccato che non abbia pedigree. Ma a noi e a lui non serviva, era bellissimo così. In casa restava tutto il giorno da solo e dormiva, senza mai combinare guai, senza graffiare divani e poltrone, dormiva e ci aspettava. Poi si scatenava per un paio d’ore, giocando e saltando per la casa per dimostrare la sua gioia nel rivederci e poi se ne veniva a dormire. A volte dovevo partire per lavoro, a volte anche mio figlio era via e allora una vicina di casa aveva le chiavi e andava a dargli da mangiare una volta al giorno, ma lui non vuole mangiare, mi diceva dopo, vuole solo le coccole! Per cinque anni visse in appartamento, senza mai uscire di casa, passando da un davanzale all’altro e diventando sempre più grande, fino a che arrivò a pesare undici chili (il vero Main Coon arriva a quindici) ed era ridicolo quando qualcuno mi chiedeva come si chiamava dover dire “Pulcino”, tutto aveva fuor che del pulcino! Ma ormai quello era il suo nome e rimase.
Quando era estate e lasciavo le finestre aperte con solo gli scuri accostati, lui mi aspettava sul davanzale della finestra, sapeva esattamente l’ora che arrivavo io e quella in cui arrivava mio figlio. Io scendevo dalla macchina, lo salutavo e andavo a fare la spesa, ma se per caso trovavo qualcuno con cui chiacchierare, Pulcino inscenava una pantomima per cui diventò famoso in quella strada: cominciava a miagolare in modo disperato, come se qualcuno lo stesse scannando e nello stesso tempo si sporgeva a tal punto dal davanzale che sembrava dover piombare giù, fino a che dovevo lasciare in fretta il mio interlocutore e correre di sopra, dove lui mi aspettava con un’arietta di possesso. Fu in quel periodo che un mattino di domenica, giorno in cui potevo dormire fino a tardi, Pulcino venne vicino al mio letto e sillabò perfettamente “Ma-ma” perché voleva mangiare. Non me lo ero sognato, aveva proprio detto mamma e da allora lo fece un’altra decina di volte, sempre in casi estremamente eccezionali, per lui almeno. Che ricordi, di quegli anni! Gli facevamo il bagno in vasca una volta al mese e poi lo asciugavamo col phon, fino a che ci graffiò a tal punto che la vasca sembrava la doccia di Psycho e da quel momento finirono i bagni! Adorava i miei profumi, specialmente quello alla violetta, si stendeva con la bocca socchiusa facendo le fusa quando gli avvicinavo la boccetta al naso. E odiava gli spray, di qualsiasi genere e tipo, bastava fargli vedere una bomboletta spray e lui fuggiva, ho sempre avuto il sospetto che nei lunghi pomeriggi in cui mio figlio e i suoi amici si riunivano in casa, gliene combinassero di tutti i colori. Ma Pulcino continuava ad amare mio figlio, a strusciarglisi addosso, a dormire con lui la domenica mattina o quando era ammalato, come se dimenticasse tutte le cattiverie che potevano essergli state fatte, sicuro che, in fondo, anche mio figlio gli voleva bene.
Appena eravamo andati ad abitare in quella casa, un vecchio palazzo nel centro storico, ci eravamo accorti che c’era “una presenza”. A dire il vero c’era qualcuno che camminava per l’appartamento, che tossiva di notte e si schiariva la gola, lo sentivano anche dall’appartamento sottostante e quello di fianco. Ma noi non abbiamo mai visto niente, anche se eravamo certi che c’era, dato che chiudeva le finestre quando pioveva e noi eravamo fuori. Ma Pulcino lo vedeva. Seduto sulle mie ginocchia, alla sera, mentre guardavo la televisione, ad un certo punto alzava il musetto e seguiva con gli occhi “qualcosa” che attraversava la stanza (era sempre lo stesso itinerario, entrava dalla porta d’ingresso, attraversava il salotto ed usciva per una camera). Non ne aveva paura, semplicemente guardava ciò che passava davanti a lui. Come io sentivo soltanto, lui vedeva e io allora gli parlavo, e nello stesso tempo parlavo a chiunque fosse nella stanza, dicevo che tutto andava bene, che non c’era niente di cui aver paura, che eravamo viaggiatori nello stesso vagone ma in tempi diversi. E poi micio si rimetteva a dormire e allora sapevo che anche “la presenza” se ne era andata, invisibile per me.
Poi mia madre si ammalò e lui viaggiò avanti e indietro con me, settimana dopo settimana da Modena a Padova, fino a che lei morì e ci trovammo soli.
In quel periodo mi mangiò i fiori delle violette africane che avevo comprato con grande amore e poi rischiò di morire perché si prese per il collo con una cordicella che usava per giocare legata ad una sedia, lo salvai per miracolo perché rientrai a casa prima del previsto; e un’altra volta mangiò i bulbi dei giacinti, che sono velenosi e rimase due giorni sotto al letto, quasi morto. Quando ebbe i primi calori gli diedi un pupazzetto di stoffa e lui girava per tutta la casa facendo all’amore col pupazzo! Una ragazza dell’Empa mi disse che, se volevo, mi portava una gatta per farlo “sfogare”, prima di castrarlo (in appartamento era quasi obbligatorio doverlo fare). Ma la prima gatta che mi portò doveva essere l’unica della sua razza che aveva deciso di farsi monaca, perché per quanto Pulcino cercasse di…. farla sua, lei continuava a nascondersi, fino a che dovetti rinchiuderla in soffitta fino al mattino seguente. La seconda gatta era una rag-doll, uno di quei gatti che sembrano senza ossatura, fatti di gomma. Ma dovetti di nuovo portarla via, aveva il difetto di non saper assolutamente riconoscere la sua lettiera e di spargere per la casa le sue….evacuazioni! Così dissi alla ragazza dell’Empa di lasciar perdere e portai Pulcino ad operare. L’operazione riuscì benissimo e lui si riprese nel giro di una giornata, vispo e arzillo come prima. D’estate, quando partivamo per un mese di vacanza, lo portavo in colonia, come i bambini! Era sempre lo stesso posto, un allevamento di gatti persiani dove tenevano anche degli ospiti per l’estate e ormai lo conoscevano tutti, Pulcino era rinomato per la sua voglia di coccole, il suo carattere dolce e la sua tranquillità.
Poco dopo comprammo una casa in campagna e in una calda giornata di luglio, ci trasferimmo. La casa era isolata in mezzo ai campi e Pulcino vide e toccò per la prima volta l’erba e la terra. Ricordo ancora quella prima notte che passammo nella casa, non era ancora completamente finita, mancavano le porte e le finestre, a parte il portoncino d’ingresso e la finestra del bagno a pianterreno. I vicini ci avevano detto che c’era in giro una volpe e che nel canale di fianco alla casa c’erano le nutrie e noi non avevamo mai nemmeno sentito nominare le nutrie, eravamo cittadini. Quella sera ci mettemmo a dormire in una stanza al primo piano, con una coperta tirata sulla finestra e due reti per terra, mentre il pianterreno era pieno di scatoloni e mobili. A metà nottata, rumori strani e un verso che faceva accapponare la pelle fuori dalla finestra e dal portoncino. Scendemmo con la pila, il gatto non si era più visto dal pomeriggio, rintanato in mezzo agli scatoloni e spaventato a morte dall’andarivieni di gente che portava dentro scatole e mobili. Giù era crollata una pila di scatole, naturalmente sotto a tutte c’era quella con i bicchieri di cristallo, così ci mettemmo a tirarle su e intanto da fuori quel verso spaventoso, metà grido, metà miagolio, ma di gatto selvatico. Quando cominciò a schiarire, fuori del finestrino del bagno c’era la figura di un animale, i vetri erano smerigliati e l’animale sembrava enorme e grattava, soffiando. Mio figlio disse “La volpe”! Non aprire, non aprire! Così tornammo a letto, cercando di immaginare se la volpe sarebbe riuscita a trovare un modo per entrare, assalgono l’uomo, le volpi?
Al mattino, col sole, tutto era meno spaventoso, così quando vidi che l’animale era ancora fuori del finestrino, aprii appena uno spiraglio: e lì, con gli occhi dilatati dal più puro terrore, c’era Pulcino! Pulcino che era rimasto chiuso fuori senza che ce ne accorgessimo, Pulcino che fino al giorno prima era vissuto in un comodo appartamento tra tappeti e divani, Pulcino che aveva le zampine talmente morbide da sembrare di velluto e che si era ritrovato ad affrontare una lunga notte da solo in mezzo a bestie strane e rumori insoliti. Si catapultò dentro e corse a nascondersi e ci vollero giorni perché venisse fuori a mangiare, terrorizzato dall’idea di rimanere chiuso fuori un’altra volta, mi sarebbe sempre piaciuto sapere le sue impressioni su quella prima notte da incubo!
Ma poi, si sa, la campagna è un paradiso per tutti e Pulcino, un poco alla volta, ne divenne il re. Cominciò ad andare a caccia e a portarmi a casa ogni cosa che prendeva, dai topi (ce n’erano a reggimenti, dato che la casa era stata disabitata per anni) alle lucertole, alle bisce, ai ranocchi. Arrivava e con un brontolio sordo mi posava sul tappeto fuori della porta di casa la sua preda, restando poi in attesa degli elogi. A volte me li portava anche dentro casa, ma insomma, l’importante era che il gatto d’appartamento aveva avuto una metamorfosi ed era diventato un gatto di campagna, furbo e scaltro al punto di tenere a bada le nutrie (scoprimmo presto cos’erano) e a farle addirittura battere in ritirata, quando gonfiava la coda e la schiena era grande come un cane di media statura. In cucina viaggiava sopra i mobiletti, facendo il giro tutto intorno e poi uscendo da una delle finestre ed era curioso come solo i gatti possono esserlo. Appena arrivava qualcuno, lui era il primo ad accoglierlo, ad annusarlo, preferiva annusare i capelli e potevamo fidarci di lui, se la persona gli piaceva andava bene, ma se la rifiutava, dovevamo stare attenti.
Poi ci regalarono Diana, un cucciolo di pastore tedesco di quaranta giorni. Pulcino la osservò da lontano, le soffiò sul muso un paio di volte, le diede qualche buffetto senza unghie e Diana capì al volo che il padrone di casa era lui. Così, quando Diana raggiunse i quaranta chili di peso e la mole di un pastore tedesco normale, quando si incontrava con Pulcino, strisciava e gli lasciava mangiare anche dalla sua ciotola, convinta di essere ancora la “piccola” di casa.
E poi arrivò Lara, dolcissima cucciola abbandonata e tremante, spaventata da tutto e da tutti, che quando mio figlio gridava, anche solo per chiamarmi da una stanza all’altra, si pisciava addosso tremando. E Pulcino la accettò quasi con benevolenza, come se capisse che, benché così piccola, ne aveva già passate tante.
Poi Lara rimase incinta ed ebbe sette cuccioli e uno dei sette rimase con noi e di nuovo Pulcino lo accettò, anche perché Charlie Brown era il classico cane stupidotto da fumetto.
Quello che non accettò fu il cane di mia cugina, Arturo, un bassotto scuro a pelo raso. Il primo giorno che venne a trovarmi, il cane che girava per la cucina, le dissi di stare tranquilla, Pulcino aveva un buon rapporto con i cani. Ma non avevo ancora capito che il buon rapporto l’aveva con i “suoi” cani, non con tutti! E così, dopo aver girato sopra i mobiletti di cucina per un’oretta e aver studiato per bene le mosse di Arturo, Pulcino gli si buttò addosso dall’alto, con le quattro zampe tese e le unghie di fuori e nel giro di pochi minuti il povero Arturo perdeva sangue dappertutto mentre Pulcino si allontanava, tronfio e vincitore. Naturalmente mia cugina non portò più Arturo a casa nostra. Ma Pulcino dimostrava il suo predominio anche con il cane del nostro vicino, un altro pastore tedesco, credo lo abbia graffiato di brutto parecchie volte perché quando vedeva il gatto se ne andava via in velocità. E un giorno che il suo padrone cercò di difenderlo dal gatto, Pulcino si girò inferocito e assalì anche il padrone, graffiandogli una gamba!
Poco tempo fa mi ha telefonato una mia amica che abitava poco lontano da dove eravamo noi e parlando del più e del meno mi ha chiesto se avevo ancora “quella belva di gatto”! Certo, vivo e vegeto! Lei disse che Pulcino l’aveva assalita un paio di volte e addirittura aveva cercato di graffiare il suo cavallo (forse non era vero…) e io ho cercato di spiegarle che non lo faceva per cattiveria ma solo perché aveva ben chiari in testa i confini e le libertà che potevano concedersi gli estranei con lui!
Ad ogni modo passammo dieci anni in campagna, con alti e bassi. Più bassi che alti, a dire il vero. Piansi molto, per diversi motivi, ma Pulcino era sempre lì, sempre vicino a me, sempre dolcissimo a strusciare la sua testa contro la mia, come a rassicurarmi, a consolarmi. Ed era anche lì a farci ridere, spesso. Come quando buttò a terra la gabbia del criceto e passò la notte seduto ad aspettare che si muovesse per prenderlo e il povero criceto, invece, che aveva i piccoli, rimase tutta la notte immobile a difenderli. Il maschio invece lo trovammo sopra una tenda del salotto, dove si era rifugiato e dove Pulcino non aveva pensato di guardare.
O come quando si attaccò alla tavoletta cosparsa di colla per i topi e dovetti lavarlo con la benzina per togliergliela. O quando vide per la prima volta un gallo o un tacchino o quando si arrampicava sugli alberi e poi fingeva di non saper più scendere, fino a quando non uscivo sulla porta agitando la scatola di crocchette e allora arrivava di corsa. Anni pieni, anni densi, con gente che andava e veniva e lui che accettava coccole e carezze da tutti ma poi veniva a letto da me.
Tre anni fa abbiamo lasciato la campagna, la casa, il canale, la terra, gli alberi e ci siamo trasferiti in Friuli. Di nuovo Pulcino ha fatto un lungo viaggio chiuso nella sua gabbietta e si è ritrovato in una casa nuova, con tutto cambiato intorno a lui. Per fortuna anche qui ha trovato prati, alberi. E topi, lucertole, meno ranocchi. Si è adattato benissimo, riprendendo la sua vita indipendente. Notte a letto con me, addormentato sul cuscino sopra la mia testa, sveglia prestissimo, colazione, uscita a caccia, rientro per pisolino pomeridiano, altra caccia, rientro a sera, cena abbondante e poi coccole, passando dalle mie braccia a quelle di mio figlio, sopra al tavolo, fino al momento di andare a letto. Pulcino. Adorato, bellissimo, intelligente. Anche qui ha subito stabilito i suoi confini, guai ai cani che oltrepassavano il selciato davanti casa, ne sa qualcosa una signora con una cockerina nera che si è vista assalita da una specie di gatto selvatico con la schiena arcuata e la coda grossa! Se ne è andata sanguinando, lei e la cockerina e non sono più passate davanti a casa per la passeggiata, chissà perché! O la bambina albanese in carrozzina che piange con una specie di gridolino che gli dava proprio ai nervi, quando vedevo arrivare la nonna con la carrozzina, dovevo correre a chiudere Pulcino perché lui era pronto a partire all’attacco, chissà cosa gli faceva provare quel grido stridulo.
Poi mi sono invaghita di un gattino rosso e l’ho portato a casa. Pulcino non lo ha accolto bene, anche se invece il piccolino lo cercava per avere compagnia. Non lo voleva, si sentiva minacciato nella sua predominanza. E poi le cose sono precipitate, mio malgrado. Fuori della porta di casa, in un giorno di pioggia, abbiamo trovato Topino, un certosino grande come il palmo di una mano e, dopo aver cercato invano il suo padrone, lo abbiamo tenuto. E per ultima è arrivata Minnie, una gattina nera che dormiva sotto ai cassonetti della spazzatura e veniva a bere al rubinetto del giardino. Quando è venuto inverno, freddo e neve, l’ho presa dentro. E Pulcino se ne è avuto a male. Ha continuato a comportarsi come al solito, ignorando i tre intrusi, ma dentro di lui qualcosa si è spezzato. Ha cominciato a mangiare in modo abnorme, era come se continuando a chiedermi da mangiare continuasse ad attirare la mia attenzione, come se volesse di continuo l’assicurazione che gli volevo ancora bene, che era ancora e sempre il mio solo amore. Poi veniva a dormire sul cuscino e allungava la zampina per toccarmi, per sincerarsi che c’ero, che ero lì, solo per lui. Povero il mio Pulcino. Ho fatto morire anche lui. Come ho fatto morire mia mamma. Non ho mai avuto il coraggio di dirlo, ma la verità è questa. Mia mamma ha cominciato a morire il giorno che io e mio figlio l’abbiamo lasciata sola e Pulcino ha cominciato a morire quando ho preso in casa gli altri gatti.
E’ dimagrito al punto che sembrava pelle posata sulle ossa, perso il suo pelo foltissimo e lucido, persa la sua verve. Si trascinava, miagolando, l’avevamo soprannominato Il Lamentoso, il Lagnoso, Micio-Tre-palle-Tre-scatolette, rompiballe….. ma non muori mai, gli dicevo? Hai più di cento anni, fino a quando continuerai a stressarmi? E adesso è morto. Non mi stresserà più. Non verrà più a strusciare la sua testa contro la mia, non mi verrà più in braccio alla sera, guardando la televisione, non chiamerà più ma-ma quando ha fame.
Ieri ancora ha mangiato, oggi niente. Ho chiamato il veterinario e mi ha detto di portarlo lì, gli avrebbe fatto il prelievo del sangue, delle urine, una iniezione di vitamine…. mio figlio ha detto “Lascialo morire in pace” e così abbiamo fatto. Si era disteso sotto alla mia macchina, sulla terra, sembrava trovare conforto grattando il terreno. Lo abbiamo lasciato lì, ogni tanto andavo a guardarlo, a versargli un poco d’acqua in bocca, faceva fatica a respirare e non mi conosceva nemmeno più. Poi mio figlio lo ha messo dentro una scatola di cartone imbottita di stracci puliti e lui è rimasto lì, la testina reclinata, il respiro affannoso, ma calmo, pacifico.
E adesso che sono andata a vederlo, è morto. Così come l’avevo lasciato un’ora fa, arrotolato e addormentato, con le zampine distese, nella sua scatola.
Povero il mio Pulcino. Spero che ci sia un paradiso per i gatti. Spero che tu sia lì. O che tu rinasca, non so come cosa. A volte, quando ce ne stavamo a letto, lui sul cuscino con le zampe posate su di me, a volte gli parlavo e lui sembrava ascoltarmi. Gli dicevo “Cos’eri tu, prima di essere un micio? Forse ci siamo già conosciuti, già voluti bene. O forse ero io che ero una micia con te.” E cosa saremo, dopo? Ci ritroveremo, lo so, ne sono sicura, perché tu non sei stato solo un semplice gatto. Sei stato un pezzo di vita, della nostra vita. Sei stato un amico fedele, un amico che io ho tradito portandogli a casa degli altri gatti. Che sono bellissimi, non c’è che dire. Ma nessuno di loro è come Pulcino. Nessuno di loro ha quel qualcosa in più che aveva lui.
Ecco, avei voluto piangere, ma invece ho scritto questo epitaffio, per te, mio piccolo rompiballe, mio adorato Pulci, mio splendido amico che non potrò mai dimenticare. Perdonami, se puoi. Perdonami se sono stata cattiva, se ti ho fatto del male, se ti ho fatto morire. E fa in modo che ci incontriamo di nuovo, in un’altra vita. Forse tu come essere umano e io come micio, o tutti e due come fiori, come alberi, come stelle……


   
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