The Harp of David
periodico di cultura filosofia politica informazione scienza e arti varie
Distr.: 5.877 contatti                 Speciale Medio Oriente - 20 giugno 2003

IN QUESTO NUMERO:
 
Comprendere la storia
    Francesco Lucrezi, Sul valore giuridico della Dichiarazione d'Indipendenza di Israele
Misteri della ragione
   Carmine Monaco, Perché l'Europa non si schiera al fianco delle donne e degli studenti iraniani in lotta per la libertà e la democrazia?
Per farsi un'idea
    Franco Auriemma, Ho capito che Bernand Lewis ha ragione
Scrivere
    Roberto Mahlab, Il segreto del te' (racconto)
    C.M., Gerusalemme (poesia)
 
Nel prossimo numero:
Lucio Russo, Flussi e riflussi. Indagine sull'origine di una teoria scientifica
Ottavia Niccoli, Rinascimento al femminile
Martin Rees, I sei numeri dell'universo
Fabio Ballabio, Ebrei e cristiani nei film di Woody Allen.
Abraham B. Yehoshua, Il lettore allo specchio. Sul romanzo e la scrittura.
    e altro...
 

COMPRENDERE LA STORIA
 
Qual è, alla luce della Dichiarazione, la legittimità del risorto Stato ebraico? Qual è il valore costituzionale della Dichiarazione stessa? Di chi, secondo la Dichiarazione, è la patria lo Stato di Israele, chi ha diritto a esserne cittadino? Infine, Israele, sempre secondo la Dichiarazione, nasce come Stato moderno, o ‘rinasce’ come la nazione cancellata, nel 70 d.C., dall’impero romano? Le risposte a questi e ad altri interrogativi. 

Sul valore giuridico della Dichiarazione d’Indipendenza di Israele*

di Francesco Lucrezi*

* F. Lucrezi è professore di Storia del diritto romano e Consigliere nazionale della Federazione Associazioni Italia-Israele. Il seguente articolo è in corso di pubblicazione per "Teoria e diritto dello Stato", 2003. Ringraziamo il prof. Lucrezi per averci concesso l'onore di questa anteprima.

 *  *  *

La Dichiarazione di Indipendenza di Israele, pronunciata a Tel Aviv, il 14 maggio 1948 (5 di Iyar 5708), dal governo provvisorio, presieduto da David Ben-Gurion, atto fondativo del risorto stato ebraico, rappresenta, sul piano giuridico, un documento alquanto peculiare, frutto della particolare congiuntura storica in cui fu steso e approvato, e delle singolari caratteristiche tanto della diaspora ebraica quanto dell’ideale sionista. Se il sionismo, secondo il progetto di Theodor Herzl, avrebbe dovuto porre fine alla diaspora (cosa che, invece, non è avvenuta, se non in parte), così la rifondazione di Israele avrebbe dovuto portare al compimento, e quindi alla fine dello stesso sionismo (come ebbe a dire lo stesso Ben Gurion, poco dopo la conquista dell’indipendenza, da quel momento un ebreo avrebbe potuto essere sionista solo per poche ore, quelle della durata di un volo per Tel Aviv). Anche questa idea, però, la fine del sionismo, si è rivelata illusoria, in ragione della persistenza tanto della diaspora quanto dell’incancellabile legame tra essa ed Erez Israel (ossia tra l’ebraismo ‘dentro’ e ‘fuori’ i confini della patria ebraica): la Dichiarazione d’Indipendenza, così, non è lo spartiacque tra età dell’esilio ed età della nazione, tra sionismo e post-sionismo, ma una sorta di palingenesi, di salto di qualità dell’intero ebraismo mondiale. E di tale indissolubile legame, così come delle contraddizioni e aporie da esso implicate, la Dichiarazione stessa dà eloquente testimonianza.

Per apprezzare il valore giuridico di tale atto, cercheremo di dare risposta a quattro domande di fondo:

  1. Qual è, alla luce della Dichiarazione, la legittimità del risorto Stato ebraico?

  2. Qual è il valore costituzionale della Dichiarazione stessa?

  3. Di chi, secondo la Dichiarazione, è la patria lo Stato di Israele, chi ha diritto a esserne cittadino?

  4. Israele, sempre secondo la Dichiarazione, nasce come Stato moderno, o ‘rinasce’ come la nazione cancellata, nel 70 d.C., dall’impero romano?

1)

La Dichiarazione di Indipendenza fa riferimento, come base della legittimità dello Stato, essenzialmente a tre fattori: l’antico diritto storico degli ebrei sul suolo della "propria antica patria" (3° comma: nella parte centrale della Dichiarazione, si parla di "diritto naturale e storico"); la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 (5° c.); la Risoluzione 181 del 29 novembre 1947 delle Nazioni Unite (9° c.). Di questi tre, il prevalente sembra senz’altro essere il primo, che rinvia alla millenaria sovranità statuale ebraica in terra d’Israele, nonché al mai interrotto legame di appartenenza tra popolo ebraico ed Erez Israel. Il riferimento al "diritto naturale" richiama quello alla "legge di natura" scritto nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, giustamente definita "figlia del giusnaturalismo": ma se i "Founding Fathers" si appellarono alle "Laws of Nature and of Nature’s God", i padri costituenti d’Israele, pur rappresentanti di un popolo nato e cresciuto nella fede nel Dio unico, preferirono dare allo Stato un fondamento puramente laico, evitando qualsiasi riferimento alla divinità come sorgente di legittimità, ma sancendo unicamente un appello al suo sostegno (finale della Dichiarazione: "confidando nell’Onnipotente, noi poniamo le nostre firme…"): una scelta, questa, che è il segno della netta prevalenza, tra le forze che realizzarono l’indipendenza, di quelle di ispirazione laico-socialista (e che, forse, con più difficoltà potrebbe essere oggi ribadita, tenuto conto dell’acresciuto peso, nella società israeliana, dei partiti di ispirazione religiosa).

Quanto ai riferimenti alla Dichiarazione Balfour (così detta dal nome del Ministro degli Esteri Britannico, che dichiarò il favore di Sua Maestà alla costituzione di un "focolare nazionale" ebraico in Palestina) e alle Nazioni Unite (che, com’è noto, nel ’47 sancirono la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo: spartizione accettata dagli ebrei, ma rifiutata dalla totalità del mondo arabo), essi denotano un evidente bisogno di legittimazione innanzi alla comunità internazionale: entrambi potrebbero essere considerati superflui, se si tiene conto che la Dichiarazione Balfour non fu altro che una semplice lettera di intenti, significativa sul piano politico, ma priva di effetti vincolanti su quello giuridico, e che la maggioranza degli Stati arabi creati dopo lo smembramento dell’impero turco erano stati fondati, dopo la prima guerra mondiale, a seguito di semplici accordi (spesso soltanto bilaterali) tra le potenze ex coloniali. Ma evidentemente la nascita delle Nazioni Unite, nel 1945, aveva suscitato l’effettiva speranza di un nuovo ordine di legalità mondiale, che in tale Assemblea avrebbe visto il primo riconoscimento dei diritti dei popoli: una speranza talmente radicata, nei padri di Israele, che le Nazioni Unite sono menzionate, in un testo di soli 18 commi, ben cinque volte; e una speranza, si può dire, che sarebbe poi stata, segnatamente dal punto di vista israeliano, ampiamente delusa, se si considera l’atteggiamento a dir poco severo che avrebbe sovente assunto, negli anni successivi, l’Assemblea Generale dell’ONU (che sarebbe arrivata, nel 1977, ad approvare una vergognosa risoluzione, poi revocata negli anni ’90, di equiparazione di sionismo e razzismo). Ma c’è anche da ricordare che, al momento della loro costituzione, nel ’45, le Nazioni Unite contavano tra i propri membri una maggioranza di Paesi democratici (e della stessa Unione Sovietica di Stalin si aveva una conoscenza alquanto lontana dalla realtà) - al contrario della situazione odierna, che vede una netta prevalenza di regimi totalitari -, e che gli ideali delle Nazioni Unite, indicati, nella Carta di San Francisco, nella costruzione di un mondo di pace, giustizia e fratellanza, sembravano in assoluta sintonia con l’ideale sionista. Quanto questi ideali siano stati disattesi (e non solo dal punto di vista dello stato ebraico), è sotto gli occhi di tutti, ma Israele, se così si può dire, resta condannata dalla stessa Dichiarazione di Indipendenza a vedere la propria esistenza legata al benestare di una istituzione che così poco mostra di amarla e rispettarla, e che tanto si è allontanata dalla propria originaria missione.

2)

La Dichiarazione di Indipendenza, com’è noto, non è una carta costituzionale: essa stessa, al 12° comma, prevedeva che una Costituzione avrebbe dovuto essere promulgata da un’Assemblea Costituente, da eleggersi non più tardi del 1° ottobre 1948. L’Assemblea fu eletta, ma la sua prima delibera, nel ’49, fu quella di spogliarsi della funzione costituente, trasformandosi in Parlamento ordinario (la Knesset), e ciò in quanto, essendo stata eletta dal popolo, si vide depositaria di un’autorità di gran lunga superiore rispetto a quella del governo provvisorio - che era privo di tale legittimazione –, e fu pertanto subito chiamata ad affrontare le vitali emergenze della guerra e della ricostruzione. Né la redazione di una Costituzione sarebbe mai stata affrontata in seguito, in ragione di una serie di gravosi problemi, quali quello della conciliabilità tra la natura ‘ebraica’ dello stato e il suo carattere ‘democratico’ (Theodor Herzl, nel suo famoso opuscolo, Der Judenstaat, non a caso aveva parlato, infatti, di uno ‘Stato degli ebrei’, piuttosto che di uno ‘Stato ebraico’), e quindi della definizione del diritto di appartenenza delle minoranze musulmane e cristiane (composte da cittadini a pieno diritto, ma non ebrei), e della stessa natura laica o religiosa dell’identità ebraica dello Stato (forte è stata ed è ancora l’opposizione all’idea di Costituzione da parte della maggioranza dei religiosi, secondo cui fondamento di uno stato ebraico non può essere altro che la Torah).

Nel 1950 una legge, chiamata Harari dal nome del deputato proponente, avrebbe dato il via a un lungo e lento processo costituente ‘a tappe’, attraverso l’emanazione, a maggioranza qualificata di voti, di una serie di ‘leggi fondamentali’, destinate a dar corpo, in un non definito futuro, a una forma di Costituzione (la prima legge fondamentale, sulla Knesset, non sarebbe stata approvata che nel 1958). Nel 1992 due leggi fondamentali, sulla ‘Libertà di occupazione’ e sulla ‘Dignità umana e libertà’ (implicanti, secondo l’allora Presidente della Corte Suprema, il grande giurista Aharon Barak, una "rivoluzione costituzionale"), avrebbero portato, per la prima volta, una ‘clausola limitativa’, la quale così recitava: "Non vi saranno violazioni di diritti previsti da questa legge, tranne che per una legge consona ai valori fondamentali dello Stato di Israele, designata per una giusta causa e in misura non superiore al necessario". Le leggi ordinarie, dunque, sono state assoggettate al giudizio della Corte Suprema, la quale (diventando, così, oltre che Corte di Appello e Cassazione, anche un equivalente di Corte Costituzionale) avrebbe potuto e dovuto sindacarne la conformità alle leggi fondamentali (assurte quindi al rango di ‘leggi costituzionali’, come riconosciuto in una successiva pronuncia della stessa Corte), giudicando, in caso di presunta violazione, se questa avvenga nel rispetto dei "valori fondamentali" dello stato.

Sorse, però, il problema di definire quali fossero questi "valori fondamentali", cosicché, il 9 marzo del 1994, fu approvato un testo riveduto della legge fondamentale sulla Libertà di occupazione, nel quale si spiegava che tali valori erano quelli indicati in una bozza del Ministero della Giustizia, che faceva a sua volta esplicito riferimento alla Dichiarazione di Indipendenza. Le leggi ordinarie, quindi, devono conformarsi alle Leggi fondamentali, ma possono ad esse derogare in ossequio alla Dichiarazione di Indipendenza. Com’è evidente, la Dichiarazione di Indipendenza, in quanto norma sovrastante rispetto alle Leggi fondamentali, è quindi salita su un rango superiore a quello di una stessa Carta Costituzionale.

3)

La Legge del Ritorno, approvata (non come legge fondamentale, la prima delle quali, come detto, risale al 1958) nel luglio 1950 dalla Knesset (e poi completata dalle successive Leggi della Cittadinanza, del 1952 [che chiariva la posizione dei cittadini non ebrei] e dell’Ingresso, sempre del ’52 [sui visti di entrata e i limiti di soggiorno nel Paese per i non israeliani]), sancisce che ogni ebreo che lo desideri, al momento del suo trasferimento (attraverso la ‘aliyà’, la ‘salita’ nella Terra Promessa) in Israele, acquisti immediatamente (in quanto ‘olè’, ‘salito’) la cittadinanza israeliana. Tale legge deriva direttamente da quanto statuito nella Dichiarazione di Indipendenza, che stabilisce che lo Stato ebraico "aprirà le porte della patria a ogni ebreo" che vi faccia ritorno, conferendo all’intero "popolo ebraico la condizione di membro nella famiglia delle nazioni con tutti i privilegi" (6° c.), e "sarà aperto all’immigrazione ebraica e alla riunione degli esiliati" (12° c.).

Se la "completa uguaglianza di diritti sociali e politici", "senza distinzione di religione, razza o sesso" (12° c.), è garantita a tutti gli abitanti del Paese, e quindi anche alla minoranza araba, è evidente che il carattere ‘ebraico’ dello Stato, e la sua incondizionata accoglienza verso tutti gli ebrei del mondo, pongono le basi di una singolare estensione della cittadinanza nei confronti dell’intero popolo mosaico. La cittadinanza israeliana, è da notare, non viene automaticamente estesa a tutti gli ebrei, ma solo a coloro che esercitino tale facoltà, effettuando la aliyà, e ciò crea un indissolubile, peculiare rapporto di appartenenza tra il popolo israeliano e la golà, l’ebraismo della diaspora, ‘potenziale’ cittadino dello Stato. Se alcune insofferenze serpeggiano, da tempo, in alcuni settori della società civile israeliana, verso la perpetuazione della legge del ritorno come diritto incondizionato (in particolare nei confronti degli ebrei residenti nei Paesi liberi e opulenti, che avrebbero ormai avuto più di mezzo secolo per esercitare tale diritto), è da credere che queste non potranno mai valere a rinnegare tale principio basilare, che è scolpito in modo ineludibile nella Dichiarazione di Indipendenza. Israele sarà sempre la ‘patria potenziale’ di tutti gli ebrei.

Si noti che la Dichiarazione di Indipendenza non si pronuncia sulla definizione di chi possa dirsi ‘ebreo’, cosicché tale problema, ai fini dell’esercizio dei diritti previsti dalla Legge del ritorno, si è più volte presentato innanzi alla giurisdizione israeliana, fino alla Corte Suprema. Particolarmente noto il caso dell’ebreo Rufeisen, noto come ‘fratello Daniel’, convertito al cattolicesimo ed entrato in un ordine religioso, che chiese di essere registrato come ebreo, vedendosi respinta la richiesta dalla Corte Suprema, nel 1962, con la motivazione che nell’ebraismo nazionalità e religione non possono essere separati. Altro caso controverso fu quello dei figli di un padre ebreo e una madre non ebrea, gli Shalit, per i quali i genitori chiesero la cittadinanza, pur non avendo provveduto alla loro conversione; la Corte Suprema, nel 1968, accolse, a maggioranza, la richiesta. Solo nel 1970 la Legge del Ritorno è stata emendata, per includervi una definizione di chi sia ebreo, secondo la quale è da considerare tale chi sia nato da madre ebrea o si sia convertito all’ebraismo e non appartenga ad altra confessione religiosa (lasciando tuttavia aperta la questione di quali conversioni siano da considerare valide, se solo quelle effettuate secondo il rito ortodosso, o anche quelle promosse dalle sinangoghe riformate: la Corte Suprema, nel 1987, emanò una sentenza di apertura, ma il problema è tuttora oggetto di discussioni e contrasti).

4)

Sul piano storico, civile, culturale e religioso, non c’è dubbio che quella di Israele, nel 1948, sia non una ‘nascita’ ma una ‘rinascita’, a distanza di quasi 19 secoli, della stessa identità statale cancellata, nel 70 d.C., dall’impero romano. Una rinascita compiuta dai discendenti degli esiliati, che, sulla stessa terra degli antichi re, profeti e sacerdoti di Israele, intorno alla stessa Gerusalemme di Davide e Salomone, hanno fatto rifiorire la patria perduta – caso unico nella storia -, professando la stessa religione, parlando la stessa lingua, osservando le stesse tradizioni del remoto passato. Significativamente, il numero degli ebrei presenti in ‘Erez Israel’ al momento dell’Indipendenza (circa 650.000 anime, in gran parte scampati alla Shoah) è ritenuto coincidente, secondo la tradizione, con quello dei seguaci di Mosé che, verso il 1200 a.C., si affrancarono dalla schiavitù d’Egitto e, traversato il deserto, raggiunsero la Terra Promessa, per ivi dar luogo alla prima ‘nascita’ della nazione.

Sul piano giuridico e costituzionale, si può senz’altro dire che la rinascita di Israele, nel senso non solo di un riacquisto di sovranità e indipendenza da parte di un popolo che ne era stato spogliato in età antica, ma di una vera e propria ricostituzione di un’identica identità statuale, ‘interrotta’ o ‘sospesa’ per una quasi bimillenaria ‘parentesi’, rappresenti un unicum, una realtà senza analogie o precedenti storici (nessuno, per esempio, vedrebbe una qualche forma di continuità giuridica tra l’Italia di oggi e la Roma di Cesare, o tra l’Egitto odierno e quello dei Faraoni). Eppure, nel caso di Israele, tale continuità esiste, anche sul piano del diritto, e trova proprio nella Dichiarazione di Indipendenza la sua solenne sanzione, già nel 1° comma (che apre la Dichiarazione ricordando che il popolo ebraico proprio in Erez Israel "ha ottenuto per la prima volta un proprio stato"), e poi nel 2° (che ricorda l’ininterrotta fedeltà, nei secoli dell’esilio, alla patria perduta), nel 3° (che ricorda i secolari sforzi degli ebrei per "ristabilirsi nella propria antica patria"), nel 4° (ove si rammenta la proclamazione, in occasione del Primo Congresso Sionistico, del 1897, del "diritto del popolo alla rinascita nazionale nel proprio Paese"), nel 5° (che afferma l’esigenza di ‘ristabilire’ lo stato ebraico in Erez Israel).

Certamente, i concetti di ‘stato’ e di ‘sovranità’ nel mondo antico erano ben diversi da quelli contemporanei, ma proprio la singolare, ancorché unica, realtà del caso israeliano dovrebbe, a nostro avviso, contribuire a fare accettare un’interpretazione più ‘estensiva’ ed elastica dell’idea di statualità, facendo prendere atto che una moderna sovranità possa riproporre la realtà storica e giuridica di un’entità del passato, sospesa ma non cancellata. Perché la continuità tra l’antico e il moderno Israele non è simbolica ma concreta, reale, come può essere dimostrato da svariati esempi.

La Knesset, il Parlamento unicamerale israeliano, si presenta come la ricostituzione della stessa Knesset Ha-Ghedolah dei tempi di Esdra e Neemia (V sec. a.C.), di cui riproduce, anche nel numero di membri (120) la funzione di rappresentanza popolare. La legge istitutiva dello Yad Va-Shèm, il sacrario della Shoah, del 1953, estende una ‘cittadinanza della memoria’ (non ‘onoraria’ o ‘simbolica’, ma giuridicamente effettiva, ancorché post mortem) a tutti gli ebrei d’Europa sterminati durante l’Olocausto, mostrando un’estensione retroattiva della sovranità dello stato risorto. Tale forza retroattiva è evidente e dichiarata anche nella legge della Knesset che permette di perseguire, senza limite di prescrizione, i crimini nazisti contro il popolo ebraico (e la Corte, durante il processo Eichmann, nel 1961, respinse, in ragione di questa dichiarata retroattività legale, le eccezioni della difesa, secondo cui il processo sarebbe stato illegittimo, venendo l’accusato giudicato in forza di una norma non solo scritta dopo i fatti oggetto del giudizio, ma addirittura promulgata da uno stato che, al tempus commissi delicti, non esisteva). Molti settori del vigente diritto israeliano (in particolare in tema di diritto di famiglia: matrimonio, divorzio ecc.) sono ancora disciplinati dalla halachà (la parte precettiva della Torah, ricavata dai 613 precetti [mitzvòt] del Pentateuco), ossia dalla medesima normativa in vigore nell’antico Israele, ed è sempre ad essa che si fa riferimento – attraverso l’interpretazione del Rabbinato, a volte sollecitata dalle stesse autorità civili – per la soluzione di alcune questioni controverse (p. es., in tema di bioetica). E ancora, quando, agli inizi degli anni ’60, furono scoperti 27 scheletri sulla rocca di Masada (dove, nel 73, d.C., si tolsero la vita gli ultimi zeloti combattenti contro Roma, per non cadere vivi nelle mani del nemico, e dove periodicamente, ai giorni d’oggi, i soldati di Israele giurano di difendere la patria ["Masada shall never fall again"]), il governo d’Israele, avendo mostrato di credere all’identificazione – pur contestata – di tali resti nelle spoglie di alcuni dei resistenti, volle ad essi tributare onoranze di stato.

Gli esempi addotti – pur potendosi l’elenco allungare – dovrebbero essere sufficienti. Ma non si può chiudere questa nota senza accennare al lungo e triste capitolo della presunta ‘continuità negativa’, ossia agli ostili pregiudizi di chi ha mostrato (o mostra ancora) di ritenere che lo stato ebraico non sia risorto ‘creditore’, nei confronti della storia, di milioni e milioni di martiri, ma piuttosto ‘debitore’, per sempre, per la sola, ‘eterna’ e terribile colpa del ‘deicidio’. Singolare esempio di tale idea ‘malata’ di continuità, e di un suo risvolto giuridico, si ebbe in un’iniziativa concertata che, subito dopo la costituzione della Corte Suprema israeliana, nel 1949, vide giungere al Tribunale, da varie parti del mondo, una serie di istanze tendenti a chiedere la revisione della sentenza di condanna pronunciata, dal Sinedrio di Gerusalemme, contro Gesù di Nazaret. Il Presidente del Tribunale, Moshe Smoira, chiese al giovane Procuratore Chaim Cohn, studioso di diritto ebraico e romano antico, di rispondere con cortesia – nonostante l’evidente spirito malevolo delle richieste – ai sottoscrittori, spiegando le ragioni dell’incompetenza della Corte (invito che fu volentieri raccolto da Cohn: il quale, anzi, si interessò talmente al caso richiamato da dedicare anni di studi alla vicenda, poi sfociati nel celebre libro, ora tradotto anche in italiano, Processo e morte di Gesù. Un punto di vista ebraico).

L’Israele moderno, dunque, è veramente nato – per usare il titolo dell’altro, noto libro di Herzl – come ‘Altneuland’, patria nuova e antica. Oggi, a distanza di cinquantacinque anni dalla sua fondazione, esso non figura più, ormai, tra i più ‘giovani’ dei circa duecento Paesi rappresentati alle Nazioni Unite, ma resta certamente, e resterà per sempre, il più antico.

Nota bibliografica

Sulla fondazione di Israele, dal punto di vista storico, politico e militare, esiste una vastissima letteratura, di cui è offerta una precisa rassegna nel recente volume di G. Codovini, Storia del conflitto arabo israeliano palestinese. Tra dialoghi di pace e monologhi di guerra, Milano 2002, a cui si rinvia anche per la completezza della documentazione sul profilo giuridico della questione. Cfr. anche: N. Garribba, Lo stato di Israele. Nascita, istituzioni e conflitti dal 1948 ad oggi, Roma 1987; S. Flapan, The Birth of Israel. Myths and Realities, London Sidney 1987; Z. Sternhell, La nascita di Israele. Miti, storia, contraddizioni, trad. it. Milano 1999.

In particolare sull’aspetto diplomatico, cfr. J.C. Hurewitz, Diplomacy in the Near and Middle East, New York 1958; sulla Dichiarazione Balfour, L. Stein, The Balfour Declaration, London 1961.

Sulla Legge del Ritorno e sul rapporto tra Dichiarazione di Indipendenza, Leggi Fondamentali e leggi ordinarie israeliane, cfr. S. Guberman, Lo sviluppo giuridico in Israele: i primi 50 anni, in Israele a cinquanta anni. 1948-1998, Jerusalem 1998.

Sul diritto ebraico, e segnatamente sui rapporti tra moderno diritto israeliano, sistemi giuridici contemporanei e diritto biblico, cfr., per tutti: A.M. Rabello, Introduzione al diritto ebraico. Fonti, matrimonio e divorzio, bioetica, Torino 2002; Id. (ed.), European Legal Traditions and Israel. Essays on Legal History, Civil Law and Codification, European Law, Israeli Law, Jerusalem 1994; Id. (ed.), Essays on European Law and Israel, Jerusalem 1996; A.M. Rabello, A. Zanotti (edd.), Developments in European, Italian and Israeli Law, Milano 2001; A. Gambaro, A.M. Rabello, Towards a New European ‘Ius commune’. Essays on European, Italian and Israeli Law, in occasion of 50 years of. E.U. and of the State of Israel, Jerusalem 1999; D. Piattelli, Libertà individuali e sistemi giuridici. Profili storico-giuridici (Mondo antico ed Israele), Torino 1997.

Sulla giurisprudenza della Corte Suprema israeliana, cfr. M. Elon, The Principles of Jewish Equity in the Decisions of the Supreme Court of Israel, in Rabello (ed.), ‘Aequitas’ and Equity: Equity in Civil Law and Mixed Jurisdictions (Papers of the 2° Int. Conference on "Aequitas and Equity", Jerusalem 1993), Jerusalem 1997, 291ss.

Il saggio di Teodoro Herzl Der Judenstaat. Versuch einer modernen Lösung der Judenfrage è stato pubblicato, in traduzione italiana, nelle edizioni di Roma, 1955, e Genova, 1992.

La vicenda delle istanze di revisione della sentenza di condanna di Gesù è rievocata dalla stesso H. Cohn, nella premessa all’edizione italiana del suo libro Processo e morte di Gesù. Un punto di vista ebraico, Torino 2000, IXs. Sul punto, cfr. anche Lucrezi, Deicidio ed espiazione, ora in Id., Messianismo regalità impero. Idee religiose e idea imperiale nel mondo romano, Firenze 1996, 45s.

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  MISTERI DELLA RAGIONE

C'è qualcosa che non va negli oppressi iraniani: non riescono a suscitare la solidarietà delle masse pacifiste e democratiche occidentali, nessuno li aiuta, nemmeno a parole

Nessuno si schiera al fianco delle donne e degli studenti iraniani in lotta per la libertà e la democrazia

Mentre centinaia di arrestati rischiano la pena di morte come "nemici di Dio", c'è chi confonde la protesta dei neo-bonzi di Roma, Londra e Parigi con quella degli studenti...

di Carmine Monaco

La rivoluzione fondamentalista del 1979 rovesciò il regime dello shah tra il compiacimento di alcuni governi e partiti europei: la sollevazione ebbe inizio nelle università iraniane e trionfò quando agli studenti si unirono i commercianti, portando il paese ad una situazione di totale stallo economico. L’ayatollah Ruhollah Khomeini rientrò in patria dalla Francia, a cose ormai fatte, tra gli osanna di una popolazione a cui non restava che sperare che il puro e semplice ritorno alla shari’a dei primi secoli potesse risolvere, in cambio della rinuncia alle libertà "occidentali" (bene, anzi, mal garantite dallo shah), tutti i problemi causati dai fallimenti delle società liberali e socialiste registrati in molti paesi islamici e l’impoverimento che ne era seguito. Khomeini instaurò invece una teocrazia basata su una personale teoria di dittatura religiosa chiamata velayat-e faqih, che conferiva al supremo leader spirituale il ruolo di tutore della nazione, con alte responsabilità morali e soprattutto un potere letteralmente di vita e di morte sui "cittadini" iraniani. Il nuovo regime religioso prese il posto di tutte le leggi religiose minori, mentre al supremo leader si attribuivano più poteri del Presidente, la facoltà di cancellare unilateralmente qualsiasi accordo precedentemente stipulato e, soprattutto, si negava a chiunque la possibilità di criticarne le azioni e le decisioni. In tal modo, prima Khomeini e poi Alì Khamenei, sono arrivati ad esercitare un dominio pressoché assoluto e divino che, nel comunicato dei duecento intellettuali schieratisi con gli studenti, viene stigmatizzato come un atteggiamento eretico e una forma di oppressione della dignità umana.

Anche in Iran il fondamentalismo ha così sconfinato nell’integralismo, ovvero nella violazione sistematica di tutti i diritti umani come metodo privilegiato di lotta politica, sociale ed economica. Formalmente, lo Stato iraniano accetta la maggior parte dei Diritti umani espressi nella Dichiarazione universale del 1948, alla condizione esclusiva che non siano in contrasto con la shari’a. Sul piano pratico, i risultati che conseguono da questi funambolismi giuridici sono, in ambito familiare, l’assoluta subordinazione della donna all’uomo e la piena liceità della poligamia: le ragazze possono legalmente sposarsi già all’età di 9 anni lunari, ossia 8 anni e 9 mesi del calendario solare; gli uomini possono avere fino a 4 mogli ed un numero illimitato di "mogli temporanee", hanno il potere di prendere tutte le decisioni riguardanti la famiglia, inclusa la libertà di movimento delle donne e la custodia dei figli, poiché i mullah ritengono che: "Tua moglie, che è una tua proprietà, è in effetti la tua schiava", e come tale possono ripudiarla unilateralmente; inoltre, è fatto assoluto divieto alla donna musulmana di sposare un non musulmano. Come si vede, l’imposizione del velo alla donna è forse uno dei mali minori.

In materia di diritto penale le pene sono quelle imposte dalla shari’a: taglio della mano destra per il furto, morte o amputazione per il brigantaggio, flagellazione per l’uso di bevande alcoliche, condanna a morte per l’apostasia, lapidazione per la fornicazione e per ogni caso di condotta sessuale "indegna". L’atroce pena della lapidazione fu tra le prime "innovazioni" introdotte dai fondamentalisti: allo scopo di infliggere grandi sofferenze e dolore prima del sopraggiungere della morte, la legge specifica la grandezza delle pietre: gli uomini vengono sepolti fino al torace, le donne più in fondo, affinché non si veda il seno durante l’esecuzione. Le semplici azioni "impudiche" sono invece punite con pene che vanno dalla reprimenda verbale a 74 frustate, fino all’imprigionamento da un mese a un anno: è impudico l’errato modo di coprirsi i capelli ed il corpo, ad eccezione della faccia e delle mani, l’uso di cosmetici e finanche il fatto di sorridere per strada o di indossare "indumenti alla moda, come vestiti o gonne senza un lungo soprabito". La hejab (il codice dei costumi imposto a tutte le donne per nascondere il presupposto diabolico potere seduttivo dei corpi femminili) bandisce qualsiasi soprabito corto o a mezze maniche e proibisce anche di indossare qualsiasi "oggetto impudico, appariscente e scintillante su cappelli, collane, orecchini, cinture, braccialetti, occhiali, scialli, anelli, sciarpe o cravatte".

L’attuale rivolta degli studenti iraniani – ben lungi dall’essere fomentata dagli Stati Uniti, anche se la presenza delle truppe angloamericane in Iraq e in Afganistan incoraggia sicuramente le loro speranze – è, come si vede, una lotta per l’accoglimento reale e sostanziale dell’insieme dei Diritti umani nel sistema giuridico iraniano; è una battaglia per la democrazia, ma è soprattutto un confronto interno alla società iraniana, che vede, da una parte, una ristretta élite oscurantista che consolida i suoi privilegi attraverso il terrore e le violenze dei bassidji e dei miliziani di Ansar–e–hizbollah, e dall’altra, i giovani (che costituiscono la maggioranza della popolazione) che lottano per l’ingresso in un mondo moderno, per il diritto al progresso, alla scienza, alla tecnologia, alle comunicazioni, all’informatica, al libero mercato mondiale. Un mondo pieno di possibilità al quale i giovani iraniani non hanno accesso a causa dei divieti imposti dall’autorità religiosa, che rifiuta anche i Diritti umani alla stregua di qualsiasi altro "prodotto" della civiltà occidentale: "Non accetteremo la dichiarazione dei Diritti dell’Uomo finché non sarà preceduta da quella dei Diritti di Dio". Un falso pretesto, in quanto i Diritti dell’Uomo non nascono in occidente o in oriente, né a nord o a sud: nascono con l’Uomo e sono perciò inalienabili. La civiltà occidentale si è limitata ad accettare per prima questa evidenza, spesso controvoglia.

Per chi ha il dono della fede, i Diritti umani possono anzi costituire il più grande regalo che Dio abbia fatto alla sua creatura preferita. Alcuni tra i leader degli studenti iraniani riconoscono un ordine naturale di cui Dio è l’autore e intorno al quale possono incontrarsi tutti i credenti, ciascuno nel rispetto della propria fede. Fatto impossibile per l’integralismo dell’ayatollah Khamenei, che pretende di difendere unicamente i diritti di Dio (e dei suoi ministri), alla luce di una interpretazione a senso unico del Corano che, con l’applicazione letterale della Sunna e dalla shari’a, impone alla popolazione e soprattutto ai giovani e alle donne, il ruolo di vittime di uesta distorta visione del mondo. Ciò spiega perché questi sono i principali protagonisti della nuova rivolta. La recente ondata di contestazioni al Presidente Mohammed Khatami nasce dalla mancata realizzazione del processo di riforme promesso, che avrebbe dovuto vedere proprio i giovani e le donne fra i principali beneficiari di una società più tollerante, meno dura, con una maggiore libertà personale e di espressione.

Ma Khatami non è riuscito, non può ed è molto probabile che nemmeno voglia attuare alcun processo di riforme, perché ciò significherebbe minare alla base l’intera concezione teocratica fondamentalista, costruita proprio sull’affermazione della diversa natura dell’uomo e della donna e del ruolo subalterno di quest’ultima nella società e nella famiglia. Le donne, considerate fisicamente, intellettualmente e moralmente inferiori agli uomini, non possono partecipare alla pari in alcun campo di azione sociale o politica: al "positivo", il ruolo primario ed i doveri delle donne sono la procreazione, la cura dei figli, il benessere e la soddisfazione dei mariti; al negativo, le donne sono viste come l’incarnazione della seduzione sessuale e del vizio, e per questo le interazioni delle donne con gli uomini e la visibilità dei corpi femminili sono sottoposte ad una opprimente sorveglianza che è il paradigma del dominio esercitato dall’autorità religiosa sull’intera società iraniana. Il dominio maschile viene esercitato mediante: la moltiplicazione del potere di controllo sulle donne nell’ambito familiare, l’abolizione dei minimi diritti delle donne nella famiglia e nella vita pubblica, il perfezionamento – ad opera dei mullah fondamentalisti – del sistema di apartheid fra uomini e donne, la soppressione delle attività femminili, fino a conseguire la totale invisibilità pubblica delle donne, allo stesso modo in cui sparisce la società civile iraniana dietro il velo steso dall’autorità religiosa.

Ignoriamo le ragioni per le quali gli occidentali in genere (per evitare di scendere in dettagli scomodi) negano il loro appoggio, anche solo verbale, agli studenti iraniani che manifestano nelle piazze a Teheran, Shiraz, Ahvaz, Mashad e Ishafan, per chiedere che il loro paese diventi finalmente una democrazia dopo venticinque anni di dittatura religiosa, culturale, politica e militare. Forse sarà per l’afa, per le scuole e le università ormai chiuse, per la scarsa audience televisiva e la difficoltà oggettiva di fare demagogia ed usare politicamente la battaglia di quei giovani…

Ciò che sappiamo è che, secondo il Rapporto annuale del Human Rights Watch (Osservatorio sui diritti umani), da quando Khatami è diventato presidente, nel 1997, "i diritti umani non sono migliorati, ed in alcune aree sono peggiorati", in quanto sono state applicate nuove leggi e politiche restrittive nel campo dell’istruzione e della sanità per separare uomini e donne e segregare queste ultime; che il Parlamento e i leader religiosi continuano a proporre e a mettere in atto numerose leggi o politiche che hanno e avranno effetti negativi su salute, istruzione e benessere e sul futuro delle nuove generazioni iraniane; che donne e uomini continuano ad essere arrestati e spesso selvaggiamente picchiati per "essersi mal velate" o per "condotta dissoluta", come l’avere un minimo trucco o il trovarsi in compagnia di uomini non loro parenti; che il 90 % delle ragazze dei distretti rurali è costretta ad abbandonare la scuola per essere date in sposa secondo le leggi dei fondamentalisti; che la percentuale di suicidi fra i giovani è in drastico aumento, anche a causa di matrimoni forzati e molestie; che per le donne è possibile ottenere il riconoscimento dei loro diritti naturali di madri, dopo il divorzio, solo se il padre è dichiarato drogato, alcolizzato o "moralmente corrotto"; che la porzione di eredità destinata a una donna è solo la metà di quella dell’uomo; che ci sono solo 3 donne per ogni 10.000 manager anziani e il resto sono uomini; che uno studio internazionale ha classificato le condizioni di lavoro in Iran al 108esimo posto su 110 nazioni; che ancora secondo l’Human Rights Watch, "le esecuzioni dopo processi ingiusti proliferano" e che "la tortura durante gli interrogatori è diffusa", e comprende pestaggi, colpi di frusta, deprivazione del sonno, esposizione a forti suoni, mancanza di cibo e minacce a parenti, al fine di procacciarsi confessioni o di incriminare altri; che le stesse Guardie Rivoluzionarie hanno ammesso l’esistenza delle "gabbie", cubi di 70 x 80 x 80 cm (o anche più piccoli), dove vengono tenuti i prigionieri politici per settimane o mesi, per stroncarne le resistenze, così piccole che non ci si può sedere a gambe incrociate e bisogna sedersi accovacciati. E bendati. Dall’alba al tramonto.

Ciò che sappiamo è che in Iran i minori continuano ad essere condannati a morte, perché secondo il mullah Hosseini Kooh-Kamarei, "chiunque raggiunga l’età della pubertà può essere soggetto a qualsiasi sentenza penale. Non c’è distinzione fra un adolescente che ha raggiunto l’età della pubertà e un 50enne, per quanto riguarda la detenzione e la pena". L’età della pubertà per i ragazzi è 14 anni e per le ragazze è di 8 anni: le donne, si sa, maturano prima, anche se soltanto per essere condannate a morte.

Forse le speranze riposte in Khatami sono state eccessive. Nei fatti, sotto la sua guida, il Consiglio Supremo della Rivoluzione Culturale decise di non sottoscrivere la Convenzione delle Nazioni Unite sull’Eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), il più importante accordo internazionale sui diritti delle donne. Anche nell’ambito della libertà di stampa, l’elezione di Khatami alla Presidenza non ha portato alcun aumento del numero di pubblicazioni, mentre un’indagine più approfondita rivelò che gli unici quotidiani o periodici a ricevere permessi erano quelli che lo sostenevano, e che gli editori delle nuove pubblicazioni erano per lo più comandanti della Guardia Rivoluzionaria, giudici religiosi o membri della polizia segreta, e che alcuni di essi erano persino coinvolti nella tortura ed esecuzione di prigionieri politici: attività di solito difformi da una azione "riformista".

La libertà di espressione è stata talmente ridotta che una legge proibisce la discussione di tematiche legate ai Diritti umani al di fuori dell’interpretazione della shari’a, mentre un’altra legge proibisce la pubblicazione nei mezzi di comunicazione di materiale in difesa dei diritti delle donne, onde "evitare di creare conflitto fra i generi. Chi sostiene i diritti delle donne è soggetto a incarcerazione e frustate per le violazioni commesse".

Dunque, niente libera cultura in Iran, nessuna libertà individuale e sociale: solo la velayat-e faqih. Chiuse tutte le pubblicazioni indipendenti. Il termine "islamico" viene anteposto ad ogni principio riformista, dando così luogo ad espressioni quali "società civile islamica", "diritti umani islamici", "diritti delle donne islamiche" e "governo della legge secondo la velayat-e faqih". E’ bene specificare ancora che il significato pratico di queste espressioni fondamentaliste non ha niente a che fare con gli standard universali in base ai quali altre nazioni ed organi internazionali usano questi termini, ed implica pochi o assolutamente nessun cambiamento in Iran. La vera via verso il cambiamento è l’annullamento del sistema della velayat-e faqih e la laicizzazione della società, come disperatamente sanno quei giovani che oggi protestano, nella quasi totale indifferenza occidentale, a parte l’ovvia (e criticata) soddisfazione del Presidente americano Bush.

FONTI

"Hardliners Step Up Pressure on Press", Agence France Presse, 26 maggio 1998.
"Mullahs' regime declares execution 'legal' for girls over 8 and boys over 14", Comunicato stampa, National Council of Resistance of Iran, 24 dicembre 1999.
"The Subjection of Women", Parliamentary Human Rights Group (Gruppo Parlamentare per i Diritti Umani), Regno Unito, Novembre 1994.
Ali Safavi, "Who is Mohammed Khatami? In The Myth of Moderation: Iran under Khatami", Comitato per gli Affari Esteri, National Council of Resistance of Iran, 1998.
Associations of Iranian Women, "Iranian Women: A Century of Struggle for Equality", febbraio 1996.
Elaine Sciolino, "New Iran's Alternative Voices Demand to Be Heard", New York Times, 20 luglio 1998.
Farzin Hashemi, "Khatami's Political Allies in The Myth of Moderation-Iran Under Khatami" Comitato per gli Affari Esteri, National Council of Resistance of Iran, 1998.
Human Rights Watch, Iran, 1999, 2000, 2001.
Laila al-Marayati, "Discourse needed on Islam interpretation of rights", Los Angeles Times, 16 maggio 1998.
Maurice Copithorne, Rappr. sp. Comm. Diritti Umani, "Situation of human rights in the Islamic Republic of Iran, 21 settembre 1999.
Mohammed Mohaddessin, "Iran election, 2000", Washington Times, 17 febbraio 2000.
U.S. News and World Report, 1998-2002

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PER FARSI UN'IDEA

Ho capito che Bernad Lewis ha ragione

Dopo anni di "appassionata e sincera militanza antisionista", un lettore ci confessa di aver capito molte cose.

di Franco Auriemma 

Non pensavo di essere diventato un antisemita e confesso che è stato molto difficile ammettere la verità con me stesso. Mi convincevo di essere semplicemente "antisionista", in fondo non chiedevo che i sacrosanti diritti del popolo palestinese, anche se mi rendevo conto che alcune mie reazioni e frasi spontanee non potevano che essere catalogate come antisemite, "ma è la rabbia", mi dicevo. Ero arrivato al punto che, per "moderare" la mia furia antisionista, rileggevo le pagine di Primo Levi quasi come un calmante, una sorta di panacea. Un giorno, la mia compagna mi ha detto: "Ti comporti come uno di quei sacerdoti assetati del sangue delle proprie vittime, e che mentre le sacrificavano si inventavano cazzate religiose per giustificarsi con se stessi e con gli altri!" Mi scuso per il termine, ma mi ha detto proprio così, ed io mi sono infuriato sulle prime, anche se poi si è insinuato in me il dubbio che potesse avere anche minimamente ragione. Così ho cercato di capire. Ho acquistato, ad esempio, due libri di Bernand Lewis, un autore di cui non debbo essere certo io a tesserne le lodi, dato che è unanimemente considerato la massima autorità negli studi mediorientali (è, tra l'altro, Cleveland E. Dodge Professor Emeritus di studi medio-orientali alla Princeton University). I libri sono La costruzione del Medio OrienteSemiti e antisemiti.

Da La costruzione del Medio Oriente ho appreso tanto: è davvero "un dono prezioso, un'opera di rara limpidezza dove storia e politica vanno di pari passo, si affrontano, si ricongiungono per infine aprire una nuova finestra sulla realtà possente, eppur sfumata, che è quella parte del mondo chiamata Medio Oriente", come giustamente scriveva Igor Man sulle pagine de La Stampa. Franco Cardini rilevava invece su Avvenire che "questo libro è stato fatto tradurre in ebraico dal Ministero della Difesa d'Israele e in arabo da dalla Fratellanza Musulmana. E' la prova migliore non solo dell'autorevolezza ma anche dell'equità e dell'onestà intellettuale dell'autore". Ma ciò che conta è il fatto di scoprire dati e fatti storici che tanti giornalisti ed opinionisti mancano di dire, forse per ignoranza più che per malafede, dato che la storia di quell'area è cosa davvero complessa: dalla realtà della storia si ricava che per quanto riguarda la storia di Israele e dei suoi rapporti con il mondo arabo, tutto si può dire tranne che lo stato sionista si sia comportato come uno stato razzista e colonialista. Si tratta di una menzogna colossale che fin troppi sono interessati a ripetere in continuazione, fino a farla diventare una verità comunemente accettata, il che costituisce una nuova forma di antisemitismo, forse peggiore delle precedenti.

Illuminante, al riguardo, è il testo Semiti e antisemiti, in cui viene illustrata la storia dell'odio nei confronti degli ebrei che ha attraversato, "in forme più o meno violente, l'intera storia del cristianesimo, raggiungendo la sua manifestazione più estrema con il genocidio nazista. E chi aveva previsto che gli orrori dell'Olocausto lo avrebbero estirpato una volta per tutte ha dovuto ben presto ricredersi". L'aspetto della faccenda che mi ha riguardato da vicino è stato l'antisemitismo massicciamente diffuso nell'Islam, "che per secoli ne era rimasto immune". Il mio atteggiamento più o meno inconsapevolmente antisemita veniva alimentato proprio dalla propaganda intorno al conflitto arabo-israeliano. Mi dicevo: "Se anche ministri e politici europei, come il francese De Villepin, concordano sostanzialmente con alcune delle dichiarazioni degli estremisti arabi riguardo al complotto imperialista americano-sionista, una ragione ci sarà!" Poi ho scoperto che tante di queste dichiarazioni ricalcano fedelmente i temi classici dell'antisemitismo europeo, come quei falsi storici (inventati dai russi) che vanno sotto il nome di Protocolli dei Savi di Sion, oppure (di fabbrica cristiana) le false citazioni del Talmud, i sacrifici rituali, l'odio verso l'umanità, le teorie massoniche e quelle sui complotti per la conquista del mondo (queste ultime di stampo nazifascista, e non solo). Oggi queste accuse sono ampiamente riprese dalla propaganda islamica, attraverso una rilettura del Corano "volta a giustificare e a fomentare il disprezzo verso gli ebrei", al fine di distruggere lo Stato di Israele per sostituirlo con uno stato arabo-palestinese, "obiettivo apertamente dichiarato dalle organizzazioni palestinesi e dai governi arabi che le spalleggiano". Con ciò non voglio commettere l'errore di attribuire ogni colpa ai palestinesi, dopo aver commesso quello di attribuire tutte le colpe agli israeliani e agli ebrei in genere. So però che l'attribuire ogni responsabilità, dovere e onere a Israele è sicuramente una forma di antisemitismo.

Ciò che più mi rattrista è il ruolo giocato da tanti governi e partiti europei, che perseguono una politica che spesso non favorisce il raggiungimento della pace. Oggi si parla molto di "Road Map", ma credo occorra ancora una volta sottolineare che "il traguardo della pace non potrà che identificarsi con il reciproco riconoscimento del diritto di esistere, condizione irrinunciabile sulla strada della pace". Bisogna lavorare per far cessare gli opposti estremismi e soddisfare la grande maggioranza dei popoli israeliano e palestinese che vuole la pace, per non dover più seppellire i propri figli. 


SCRIVERE. 1
 
Una poesia dedicata ad una città fondata sul cuore dell'uomo nato dalla terra: Gerusalemme. A lei e a tutti i suoi abitanti auguriamo un futuro di pace, serenità e prosperità, nella speranza di poterla visitare presto. 
 
GERUSALEMME 
di Carmine Monaco
 

Quand d’Amsterdam le coq d’or chantera, La poule d’or de Harlem pondera.

Les Centuries De Nostradamus

 

Gerusalemme, città di Davide,

canzone e canto, narrante e narrata.

Strade impolverate e cupole d’oro,

invetriate fiammeggianti di chiese,

campanili e minareti,

il Muro del Tempio e la cittadella.

Tra le pietre arroventate dal sole

una colomba batte le ali

intorno all’Orologio della città,

tendendo il collo verso l’alto del cielo,

per implorarne una due gocce di pioggia nel becco.

Un indolente beduino si accarezza la barba,

un chassid innamorato si strugge

fissando un tulipano nel negozio di un fioraio,

i pellegrini chiacchierando si guardano intorno,

altri dentro, in silenzio.

Da una finestra cadono le note di Mendelssohn,

una soldatessa compra pane e dolci da portare a casa,

un vecchio signore aspetta l’autobus

che sale dalla città vecchia,

il bambino gonfia un palloncino.

Al bar un uomo d’affari sorseggia la sua birra ghiacciata,

la ragazza gli serve pezzetti di focaccia alle erbe,

lo sguardo dell’uomo cade nella scollatura.

Fa caldo, si suda.


 
SCRIVERE. 2
 
Il segreto del te' 
Un racconto da Concerto di Sogni
 
di Roberto Mahlab
 
 
 
Bagdad - 1942

Aveva sette figli e figlie e non sapeva se li avrebbe rivisti a sera. A loro pareva ogni volta una cosa strana, che quasi li obbligasse a bere il te', appena tornati a casa, il mondo era in fiamme, dovevano nascondersi, ma lei versava loro quel te', una delle poche erbe che si trovassero in abbondanza sul mercato, in foglie, non in bustine e l'aroma riempiva presto l'aria e i loro animi, anche se non capivano il perché, forse non si erano mai accorti che anche il loro nome era un aroma, tipico di quei luoghi. La preparazione era una cerimonia....come l'ascolto delle notizie di Radio Londra per
conoscere per quanto ancora il suo popolo sarebbe stato colpito e mentre lei versava quella profumatissima e calda bevanda nei piccoli bicchierini di cristallo intarsiato che si chiamavano "stikan", i suoi figli incantati ascoltavano e capivano il perché e non si sentivano più obbligati, ma parte di parte.

Milano e Tel Aviv - 1992

Aveva sette nipotini e nipotine e ora lei sapeva che li avrebbe rivisti a sera. A loro pareva ogni volta una cosa strana, che quasi li obbligasse a bere il te', appena tornavano a casa da scuola, il mondo era in pace e volevano correre sempre fuori, ma lei versava loro quel te', un'erba particolare importata in fiore dal nord dell'India, mai nelle loro case qualcuno avrebbe pensato alle bustine, e l'aroma riempiva presto l'aria e i loro animi, come l'aroma che ora sapevano era il significato del loro nome.
La preparazione era sempre una cerimonia....come l'ascolto delle notizie di Radio Londra, lei continuava a sintonizzarsi, per avere le notizie sul suo popolo in pericolo. La cucina non mancava mai di quei bicchierini intarsiati, provenienti da Oriente e quando lei versava quella bevanda, i bambini ascoltavano e capivano il perche' come i loro padri e non si sentivano piu' obbligati, ma parte di parte.

In ogni tempo

Si riempie a metà un bollitore con un lungo beccuccio e un coperchio, lo si pone su fuoco medio.....si versano tanti cucchiaini più uno di fiore di te' in una teiera di porcellana, a beccuccio stretto.....quando dal bollitore comincia ad uscire un filo di fumo, si abbassa il fuoco e si versa l'acqua bollente nella teiera, fino a tre quarti... si ripone il bollitore senza coperchio sul fuoco quasi spento e si appoggia la teiera dove prima c'era il coperchio, per alcuni minuti, finché le foglie del te' si sono aperte e hanno ceduto colore e aroma all'acqua... si riempiono a metà le tazzine con il contenuto della teiera e poi si completa con l'acqua dal bollitore, per dare alla miscela il gusto forte o il gusto fine, come si preferisce... poi lo zucchero... puo' parere sorprendente, e qui non c'entra molto, ma mi hanno sussurrato che a una donna interessa quanti cucchiaini di zucchero un uomo mette nel te'...! boh!

Europa Centrale - 1998

"Ti troverò quel bollitore e anche una teiera con il beccuccio stretto, per evitare che le foglie di te' si riversino nella tazzina... e poi ti spieghero' la cerimonia..."

Bagdad - Gennaio 1993

I missili si alzarono in volo, l'obbiettivo voluto era quel quartiere di Tel Aviv, proprio quello dove ora risiedeva chi tanti anni prima aveva portato via con se' il segreto della cerimonia del te'...

Europa Centrale - 1999

"...e prima di versare il te' dalla teiera, strofinanala con il dorso della mano ...tre volte ...si leverà il coperchio e una nuvola di color royal blu si librerà nell'aria ...e tu potrai pronunciare tre desideri ...la felicità, la ricchezza, la salute e questo è facile ...ma metterli nel giusto ordine, questo è difficile"


Tel Aviv - Gennaio 1993

La teiera non aveva più coperchio, una nuvola di colore royal blu si era librata nell'aria, come il sospiro di un'anima.... "la felicità, la ricchezza, la salute... ricorda, un po' di tutte e tre le cose... sei parte di parte, che siano parte di tutto" ...e nessuno rimise il coperchio sulla teiera.

Europa Centrale - 1999

"Aspetta... aspetta... cinque minuti... anche se devi uscire... il tempo di versarti un te'...."
"Va bene grazie, cinque minuti...", ormai tutta la famiglia saprà nei secoli dei secoli il perché e osserverà incantata per le eterne generazioni... non ci volevano mai più di cinque minuti per la cerimonia della preparazione del te', di quel legame, che è un po' di tutto.

(Dedicato a mia nonna, zicharon uberacha', memoria e benedizione)
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