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Meno di cinque giorni. Mancavano meno di cinque giorni; cinque dannati giorni alla data fatidica. Cosa doveva avvenire, ancora non lo sapevo. L’unica certezza era che avrei dovuto incontrare R.B.
Da solo. A casa sua.
Chi, poi, fosse R.B. era un mistero. Non era il mio datore di lavoro, ne’ un vecchio compagno di scuola ritrovato dopo tanti anni. Era solo un uomo, uno che da quasi due mesi mi spediva, ogni giorno, una busta con dentro un ritaglio di giornale raffigurante una lettera dell’alfabeto.
Quando avevo ricevuto la prima lettera, non ci avevo fatto molto caso. Avevo pensato che fosse lo scherzo di qualche amico. Ma il secondo giorno, quando arrivò la E, mi sedetti alla scrivania con due buste in mano. Giocherellai per qualche secondo con quei due ritagli di carta. Poi mi accorsi che formavano una parola: SE.
Pensai che fosse una stupida coincidenza.
Con il passare dei giorni, però, mi resi conto che qualcuno mi stava mandando un messaggio. Forse era uno scherzo. O forse no. Ma alla seconda settimana le lettere che avevo ricevuto erano:
S-E-N-O-N-V-U-O-I-M-O-R-I-R-E.
Dunque: “Se non vuoi morire”.
Come scherzo sarebbe stato di pessimo gusto. Non conoscevo nessuno idiota abbastanza da mettere in piedi uno scherzo di questo genere. Quindi era vero: qualcuno mi stava minacciando. O forse ricattando. Ma chi? Non ero uno che aveva nemici, io. Non ero una persona in vista, uno con conoscenza altolocate. Non ero uno che si può prendere di mira, insomma.
Ricevetti l’ultima lettera il 2 Dicembre. Il testo completo del messaggio era il seguente:
”Se non vuoi morire vieni a casa mia il 7 Dicembre alle ore 9. Sii puntuale.”
Sull’ultima busta erano riportati un indirizzo ed una sigla: R.B.
Mancavano cinque giorni, dunque. Ed io non avevo potuto chiamare la polizia perché, si sa, in questi casi è meglio non rischiare: nella mia vista avevo visto abbastanza film da sapere che quando si è ricattati… chiamare la polizia è l’ultima cosa che si deve fare. Come se non bastasse, Mr. R.B., nell’ultima busta, aveva incluso la fotografia di una squadra di poliziotti. Sopra la foto, in rosso, era stata dipinta una croce. Come avvertimento fu sufficiente.
Non andai a lavoro, quegli ultimi giorni. Li passai ad angosciarmi per quello che sarebbe potuto accadere. Seduto alla mia scrivania, continuavo a fissare quelle dannate lettere che spiccavano sul legno scuro come se avessero avuto vita propria, come se avessero voluto liberarsi dalla loro consistenza cartacea per afferrarmi e farmi male. Magari uccidermi. Ero stanco, decisamente troppo stanco. Per questo non prestai attenzione ai miei deliri di persecuzione. Ma, nonostante la mia natura profondamente razionale, non riuscivo a convincermi di essere al sicuro, con quelle lettere posate sulla mia scrivania. Per questo decisi di bruciarle nel caminetto.

Alla fine il giorno fatidico arrivò. Inutile dire che la notte prima non dormii affatto.
Quando il primo raggio di luce spuntò dalla finestra, mi alzai e mi preparai. Si fa per dire, ovviamente: non potevo prepararmi per il semplice fatto che non sapevo a cosa stavo andando incontro. Non mi preparai: mi vestii. Poi uscii nell’aria fredda della Londra mattutina.
Attraversai il parco e andai a prendere la metropolitana. Quando scesi, all’uscita c’era un sottopassaggio. Non sapevo se andare a destra o a sinistra. Optai per la sinistra e mi trovai davanti ad un pub: era chiuso, ma lì davanti c’era una vecchia signora con le borse della spesa, dalla quale venni a sapere che avevo sbagliato strada. Tornai indietro. Voltai a destra. Mi incamminai per la salita. Quando arrivai nel luogo dell’appuntamento mancavano ancora dieci minuti alle nove.
E Mr. R.B. aveva detto di essere puntuale. Non potevo permettermi un ritardo, ma non potevo neppure osare essere in anticipo. Così decisi di sedermi sul marciapiede. Accesi una sigaretta e l’aria fredda mi penetrò tanto a fondo nei polmoni che mi sembrò di sentirli spezzarsi in due.
Alle nove precise sentii un rumore e mi voltai: la porta era stata aperta. O meglio: socchiusa. Non sapevo cosa mi aspettasse là dentro. Mi avvicinai, mentre il tacco delle mie eleganti scarpe nere batteva sul pavimento e rimbombava in quell’aria di vetro. Entrai. Era buio, buio pesto. C’erano delle insegne verdi luminose, con delle frecce bianche. Compresi che dovevo seguirle.
Arrivai così in una stanza. Faceva ancora più freddo che fuori. Un’ondata dell’odore che più detestavo (e ancora detesto!) mi avvolse: odore di disinfettante, di ospedale.
Vidi una piccola lucina rossa, sotto alla quale era posizionato un interruttore: lo premetti e la luce si accese. A tre metri da me vidi una porta. Su di essa era appeso un foglio battuto a macchina:

Ci sono delle telecamere, dentro.
Registrerò tutto. Non temere:
non manderò il filmato alla polizia.
Sarei stupido, se lo facessi.


Con molta indecisione aprii la porta. Nella stanza c’era un piccolo tavolo con sopra un’accetta.
E c’era un altro foglio con scritto:

LORO HANNO RIFIUTATO

Non ci fu bisogno di un grande sforzo per capire a chi fossero riferite quelle parole perché, proprio in quel momento, vidi un enorme tavolo di acciaio sul quale erano distesi quattro uomini e tre donne. Stetti lì imbambolato a guardare quei sette corpi per molto tempo. Sembrarono giorni.
Probabilmente non fu più di un’ora. Inizialmente credetti che fossero cadaveri. Invece no, erano vivi. Erano legati al letto d’acciaio con dei lacci di cuoio e dovevano essere lì da molto tempo, perché avevano le piaghe da decubito. Non potevano parlare perché (me ne accorsi dopo) la loro lingua era stata rimossa. Emettevano solamente dei mugolii, dei suoni gutturali la cui interpretazione non era certo difficile, perché potevi anche leggergliela negli occhi. AIUTO, era ciò che quegli occhi chiedevano. Dovevo aiutarli. Iniziai così a slegare la prima donna, ma sul muro di fronte a me si accese un’altra insegna. E poi un’altra. E un’altra ancora.
Dicevano tutte la stessa cosa: LORO HANNO RIFIUTATO.
Alla fine… lo feci, con un freddo distacco del quale non mi ritenevo capace. Agii come un metodico automa che esegue un movimento meccanico. Non ero un uomo, in quel momento: non urlai, non gemetti, non vomitai come si fede fare nei film. Tagliai e basta. Tagliai pezzo per pezzo.
E poi tornai ad uscire nella fredda aria di vetro della Londra mattutina.


21 Giugno 2001
Cara Miriam,
non ho mai raccontato a nessuno ciò che avvenne quel 7 Dicembre.
Ma mia moglie deve conoscere ed accettare tutto di me.
Per questo ho preferito dirtelo, in modo che tu possa sentirti libera di cambiare idea e non sposarmi.
Ovviamente, spero che sarai disposta a condividere con me questo peso e ad amarmi nonostante tutto, così come io ti amo: senza riserve e senza condizioni.
Perdonami per averti taciuto quest’esperienza fino ad ora. Temevo che ti avrei persa.
Ma ho dovuto dirtelo. Non posso continuare questa lettera, perché ricordare fa troppo male. Sono sconvolto. Quindi concludo qui e aspetto la tua decisione.
Spero che saprai continuare ad amarmi,

Peter.


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