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Renato Attolini
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Inserito - 26/06/2013 :  23:31:54  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Renato Attolini Invia un Messaggio Privato a Renato Attolini
Il caldo è terribile, si sfiorano i 40° all’ombra ma d’altronde non c’è nulla di cui stupirsi: alla fine di Giugno e Luglio alle porte ovunque farebbe caldo a meno che non ci si trovi nell’altro emisfero o ai Poli, ma in particolare in Grecia la temperatura si fa sentire, eccome. Ci arrampichiamo lungo una piccola strada in salita che conduce all’unica locanda di una spiaggetta nei pressi di Argostoli, Cefalonia, Isole Ionie. Dopo aver fatto il bagno in un mare limpido e cristallino, esserci arrostiti sui bianchi ciottoli della spiaggia, accaldati, assetati e anche affamati ci dirigiamo verso l’unica “taberna” che si trova nei dintorni, sperando di trovare un angolo all’ombra e rifocillarci con le gustosissime specialità della cucina greca. Arriviamo all’ingresso e davanti a noi c’è una famigliola di tedeschi, padre, madre e due bambini biondissimi che con educazione ci salutano con un sorriso. Arriva il proprietario, un uomo sulla cinquantina e con fare molto dispiaciuto comunica loro in inglese che il ristorante è tutto esaurito e che non c’è possibilità di essere serviti se non dopo molto tempo. Loro, un po’ costernati se ne vanno e mia moglie mi dice:
“Che succede?”
“Niente” rispondo io “ purtroppo non c’è posto, quindi ci conviene tornarcene in albergo”.
Stiamo per riprendere la strada all’inverso quando mi sento chiamare.
“Ehi, italiano, dove vai?”
Mi giro e mi accorgo che la voce è di un vecchio che stava seduto su una sedia sotto un pergolato e di cui non mi ero accorto prima. Lo guardo e mi sembra di vedere una cartolina: capelli bianchi folti come i suoi baffi, occhi scuri penetranti e una pelle annerita dal sole. Tiene in bocca una pipa spenta, ha lo sguardo severo ma sembra cordiale.
Gli rispondo in inglese, perché in Grecia è la seconda lingua e mi viene in mente quello che mi disse una volta un ragazzo: “Come ci hanno insegnato le nostre madri, piuttosto non mangiate ma imparate l’Inglese.”
“There’s no place, the restaurant is full. We go back.” Il mio livello di conoscenza di questo idioma va dall’elementare al “maccaronico”, ma credo di essere riuscito a farmi capire.
Mi guarda scuotendo la testa e con un tono quasi di rimprovero mi fa:
“Sei italiano, no? E allora parla Italiano!”
Gli dico che non sapevo che lui conoscesse la nostra lingua e lui mi risponde che in quell’isola in molti la parlano e poi mi fa cenno di aspettare.
“YORGO!!!” chiama a gran voce.
Dal locale esce il proprietario e tra loro inizia subito un’animata discussione nella quale io riesco solo ad afferrare una parola che è ripetuta spesso: “Italòs” , italiani.
Pur non capendo nulla, riesco però a intuire quello che si stanno dicendo cioè il vecchio insiste perché si trovi posto per noi poiché non si possono mandare via degli italiani e l’altro risponde che italiani o meno se il ristorante è pieno, lo è per tutti.
Vanno avanti per un po’ e mentre mi sento un po’ in imbarazzo, vedo che quello più giovane sbuffando entra nella cucina e ne esce dopo portando un piccolo tavolo e sistemandolo nel pergolato.
“Se vi accontentate…” dice rivolto a noi leggermente infastidito, ma comunque in Italiano.
“Ma si figuri” faccio io “anzi non vorremmo dare disturbo”.
“Nessun disturbo” mi risponde rassegnato ma cordiale senza più ombra di fastidio “quando mio padre s’intestardisce, non c’è nulla da fare.”
Sediamo al tavolino, ci stiamo comodi tutto sommato. Il vecchio è un po’ distante da noi, lo guardo sorridendo e ringraziandolo vivamente per la sua cortesia e poi lo invito ad avvicinarsi a noi. E’ il minimo che possa fare e oltretutto sembra che lui non aspettasse altro.
Presento me e la mia famiglia e cominciamo a chiacchierare del più e del meno e quando si avvicina Yorgo, io faccio per ordinare ma lui mi blocca con un gesto della mano e confabula velocemente con il figlio che annuisce silenziosamente. Dopo un po’ arrivano bruschette di pane con l’aglio, ciotoline piene di tzatziki, insalatiere con la Koriatiki, gamberetti appena pescati, pesciolini fritti, involtini di foglie di vite, olive nere succulente e pezzi di formaggio feta. Il tutto come antipasto ovviamente e insieme a una bottiglia (la prima) di “Robola” il vino bianco tipico dell’isola.
Mi offro di compartire il cibo col nostro anfitrione che, vengo a sapere, fa di nome Demetrios, ma lui rifiuta gentilmente accettando però di buon grado qualche bicchiere. Il pranzo scorre via lentamente, sia per i numerosi piatti sia per i tempi tecnici dei Greci che, come si sa, non sono dei più veloci ma, come ci diciamo fra noi, non ci corre dietro nessuno e anzi è assolutamente piacevole godersi il fresco della pergola, gustando le prelibatezze locali. E’ arrivato il momento del caffè accompagnato dal digestivo, il famoso Ouzo di cui qui, facendo un gioco di parole, ne fanno un grande uso ma che a me personalmente non piace ma che bevo giusto per la compagnia. Quello che accetto volentieri da Demetrios, anche se non sono un fumatore abitudinario, ma anzi molto saltuario, è invece un sigaro alla vaniglia venduti ovunque in questo paese seppure di provenienza olandese. E’ fra una boccata e l’altra che improvvisamente Demetrios si fa serio e guardandomi fisso negli occhi mi dice:
“Ti sarai forse chiesto come mai vi ho trovato un posto sia pure alla buona, mentre a quella famiglia che era prima di voi invece no, vero?”
“Beh, in effetti, la cosa mi ha un po’ sorpreso, ma ho preferito sorvolare, dopotutto mi hai fatto una grossa gentilezza.” Ribatto io leggermente spiazzato.
“Vedi” mi fa lui “hai visto quei due bellissimi bimbi tedeschi? I loro genitori sono molto giovani e perciò i loro nonni saranno sicuramente nati dopo la guerra o quando questa stava finendo, perciò nessuno di loro ha colpa, ma io quando sento la loro lingua, mi blocco, non ce la faccio. Lo so che sbaglio, ma non ci riesco è troppo forte per me.”.
“Troppo forte cosa?” gli domando.
“Il ricordo” mi risponde e a quel punto volge lo sguardo verso il cielo e sembra volersi estraniare per un attimo dalla conversazione, seguendo il filo dei suoi pensieri.
Da quel momento in poi sarà un monologo, parlerà solo lui ed io mi limiterò solo a cenni di assenso. Lo farà con voce calma ma accorata facendomi venire in mente le parole della canzone di Francesco Guccini “Il vecchio e il bambino”: “Con l’animo assente, gli occhi bagnati seguiva il ricordo di miti passati.”
<Era il 1943” comincia a raccontare ed io mi accingo ad ascoltare mentre il resto della mia famiglia approfitta di qualche sdraio per fare un riposino “io avevo solo 13 anni, vivevo con mio padre, la mia mamma e mia sorella Maria di 20 anni. Sull’isola erano rimasti vecchi, come mio padre, donne e bambini mentre gli uomini erano altrove, al fronte. L’occupazione da parte delle vostre truppe non era poi così terribile e sinceramente devo dire che i vostri soldati non si sono mai comportati da aguzzini, anzi cercavano di fraternizzare con la popolazione e di aiutarci in qualche modo. Solo il nostro orgoglio patriottico c’impediva di accettare le loro offerte. Non era proprio una situazione come quella descritta nei film “Il mandolino del capitano Corelli” o “Mediterraneo”, ma poco ci mancava.>
Fece una pausa guardandomi e sorridendo:
“Sono vecchio ma a me piace tanto il Cinema” e poi proseguì riassorbendosi nei suoi ricordi.
<C’era un vostro ufficiale, il tenente Giorgio Salvini che era proprio un bel tipo. Simpatico, brillante, galante, mi verrebbe da dire: il classico italiano. Beh, questo personaggio aveva messo gli occhi addosso a mia sorella, che allora era proprio un fiore di ragazza. Ogni volta che s’incrociavano, lui si toglieva il cappello, le sorrideva e le faceva un inchino. Maria abbassava il capo, vergognosa, ma si capiva che le faceva alquanto piacere. Una volta si spinse anche a offrile dei fiori e mia sorella li accettò senza pensare a quello che l’aspettava a casa quando fosse tornata. Mio padre quando seppe chi glieli aveva dati, le mollò uno schiaffo e le urlò che lei non doveva dare nessuna confidenza agli invasori, che occupavano la nostra terra e ci toglievano la libertà. Poi prese i fiori e li buttò. Maria scappò via piangendo e fra i singhiozzi riuscì a dire che non ci vedeva nulla di male.
Di quell’episodio non se ne parlò più in casa mia e pensai che ormai fosse stato dimenticato da tutti, mia sorella compresa. Passarono i mesi, arrivò l’estate ed io andavo sempre a fare il bagno al mare, giocando sulla spiaggia con i miei amici. Un giorno mentre ero corso a prendere un pallone che era finito lontano, notai una coppietta appartata intenta a scambiarsi effusioni: mia sorella e il suo bel tenentino. Rimasi bloccato dalla sorpresa e quando loro si accorsero di me, scappai via a gambe levate fino a casa mia. Dopo un po’ di tempo mi raggiunse Maria che, afferratomi per le spalle, mi scongiurò di non dire nulla a nessuno se no sarebbe successa una tragedia. Io la guardai con odio e disprezzo, in fin dei conti aveva disubbidito a un ordine di nostro padre, facendosela col nemico, ma mantenni il silenzio, più che per essere suo complice, per evitare problemi in famiglia.
La volta successiva quando mi recai alla spiaggia, vidi l’amico di mia sorella che evidentemente mi stava aspettando.
“Posso parlarti un momento” mi chiese affabilmente nella nostra lingua che parlava in maniera abbastanza comprensibile, frutto dei suoi studi classici come ebbe a dirmi in seguito.
“Che cosa vuoi da me?” gli risposi in modo ostile.
“Solo parlarti, null’altro” continuò lui senza badare al mio tono.
“E perché” ribattei.
“Beh, il perché te lo puoi anche immaginare” e senza aspettare la mia risposta s’incamminò lungo il bagnasciuga. Io lo seguii forse un po’ per curiosità, dopotutto non mi era antipatico.
Lui tirò fuori un pacchetto di sigarette e me ne offrii una.
“Ma sono troppo giovane!” protestai.
“Vabbè prima o poi dovrai cominciare. Qui in Grecia fumate tutti. Eppoi mi sembri più grande della tua età.”.
Inorgoglito, accettai la sigaretta e quando lui me l’accese, immediatamente mi venne un accesso di tosse convulsa.
Lui rise e io avvampai dalla rabbia ed ebbi l’impulso di fuggire via ma prima che ebbi modo di farlo, lui capì e mi rassicurò:
“Non ti crucciare, la prima volta è sempre così, poi ci si abitua. Non è che sia un gran bene per la salute, tutt’altro, ma sembra che faccia apparire più importanti, più <uomini>” sorrise strizzandomi l’occhiolino.
Si accese la sua e respirò lentamente intanto che passeggiavamo in silenzio. Poi ci sedemmo su uno scoglio e finalmente ruppe il silenzio che cominciava a diventare imbarazzante.
“La guerra è una gran brutta cosa” mi disse fissandomi negli occhi “anzi è molto di più: è un’infamia. Mette uomini l’uno contro l’altro, costretti a odiarsi, a uccidersi, quando in altre circostanze potrebbero essere amici o quantomeno avere buoni rapporti. Vedi, se io non avessi questa divisa, se non ci fosse la guerra, tuo padre probabilmente non mi detesterebbe ed io potrei tranquillamente corteggiare tua sorella. Purtroppo però dobbiamo subire le decisioni di altri e soffocare i nostri sentimenti. Ma è giusto? Maria ed io non ne abbiamo intenzione, ci amiamo veramente e quando questo dannato conflitto sarà finito ci sposeremo. E adesso torna dai tuoi amici a giocare che ti stanno aspettando.”. Mi salutò con una carezza sulla testa.
Avrei dovuto odiarlo, dopotutto era un nemico, uno che era stato mandato per sottomettere la mia gente, la mia terra e oltretutto mi voleva portare via la mia unica sorella. Di motivi per detestarlo ce n’erano e anche troppi, ma non ci riuscivo. Aveva un modo di fare che affascinava e adesso capivo perché Maria ne era rimasta conquistata.
Lo rividi parecchie volte alla spiaggia e spesso passeggiavamo insieme nei suoi momenti liberi che a dispetto della guerra sembravamo molti, ma come dissi all’inizio l’occupazione militare non sembrava assillante, almeno quella da parte italiana. Ma le cose erano destinate a cambiare, purtroppo.
Arrivò settembre e il giorno 8 di questo mese il mondo si capovolse. Sa bene anche Lei cosa successe e nella nostra isola scoppiò il putiferio. Di soldati tedeschi non ce n’erano poi tanti ma si moltiplicarono all’improvviso arrivandone in gran quantità. In fin dei conti la guerra fino a quel momento l’avevamo vissuta in modo non troppo coinvolgente, ma le cose precipitarono all’istante.
Noi greci non riuscivamo a capire fino in fondo perché tra italiani e tedeschi, alleati fino a poco tempo prima fosse scoppiata quella tensione così forte che si poteva tagliare col coltello. La storia è nota: ai vostri soldati fu chiesto di arrendersi e deporre le armi e al loro rifiuto furono considerati non prigionieri bensì banditi e come tale giudicati.
Io queste cose le ho sapute solo dopo, al momento avvertivo che c’era qualcosa di terribile nell’aria anche per il fatto che non si poteva andare più a fare il bagno perché la spiaggia brulicava di soldati e mezzi corazzati tedeschi, per questa ragione non riuscii più a incontrarmi con Giorgio.
Qualche giorno dopo, mentre ero nel cortile di casa con alcuni amici, vidi arrivare di corsa mia sorella che gridava come una pazza. Quando arrivò cadde in ginocchio piangendo e tra le urla e i singhiozzi ci diede la tremenda notizia: “ Gli italiani, li stanno uccidendo tutti. TUTTI!”
Poi si accasciò per terra. La presi fra le braccia cercando di sapere qualcosa di più e lei balbettando indicò con la mano un punto: “Lì alla Casetta Rossa, li hanno portati tutti lì e li STANNO MASSACRANDO!”
Poi cercò di raggiungere quella località, che non è molto distante da qui, ma mio padre, intuendo le sue intenzioni, la bloccò tenendola ferma, cosa che non riuscì con me che senza perdere tempo ci andai correndo come il vento, incurante degli ordini di mio padre che m‘imponeva di restare perché era troppo pericoloso.
Arrivai trafelato, cercando di nascondermi alla vista dei numerosi soldati tedeschi che con i calci dei fucili spingevano i loro prigionieri verso una radura. >
Fece una pausa, tirò una lunga boccata dal suo sigaro e mi fissò dritto negli occhi.
<Quello che vidi quel giorno, nascosto in un angolino dietro un cespuglio, non l’ho mai dimenticato in tutti questi anni e non spunta un’aurora o cali una notte senza che io non riviva quelle scene terribili. Qualcuno, in piedi, era sbattuto contro un muro e falcidiato da raffiche di mitraglia, altri costretti a restare in ginocchio. Loro venivano uccisi con un colpo di pistola alla nuca, con una freddezza e un cinismo a dir poco agghiacciante. Cadevano inermi per terra a decine come birilli. Le urla strazianti di chi si apprestava a morire, i pianti, le implorazioni, le preghiere, le maledizioni lanciate contro i loro carnefici le sento ancora nelle mie orecchie e hanno popolato i miei sogni per tutti questi lunghissimi anni. Poi a un tratto lo vidi: era lui, Giorgio, senza alcun dubbio. Non piangeva, non urlava, non pregava ma sul viso era dipinto un terrore indicibile misto a una disperazione infinita; si rendeva conto che stava per lasciare questo mondo e abbandonare per sempre Maria, il suo grande amore. Non so come, ma mi vide anche lui, seppure fossi ben nascosto. I nostri occhi s’incrociarono per un istante interminabile e le sue labbra si dischiusero nel sorriso più triste che io avessi mai visto nella mia vita fino a quel momento e negli anni a seguire. Dopodiché una pallottola alla testa pose termine alla sua esistenza. Quello sparo più di ogni altro fra i tanti che udii quel giorno ancora mi rimbomba nella mente e spesso mi sveglia di soprassalto nelle mie notti tormentate. A quel punto, inorridito fuggii via.>
La sua voce s’incrina sotto il peso dei ricordi, deve fare un’altra pausa. Sorseggia un po’ di vino e continua a fumare il suo sigaro, perso nei suoi ricordi.
Io sono in preda ad una forte emozione: la terribile vicenda dell’eccidio della Divisione Acqui a Cefalonia è uno degli episodi più tragici della Seconda Guerra Mondiale, inoltre ho letto qualcosa al riguardo ed ho visto sia il film già citato da Demetrios “Il mandolino del Capitano Corelli” sia uno sceneggiato televisivo interpretato da Luca Zingaretti incentrato su quei dolorosi fatti, inoltre in quasi tutte le nostre città c’è una strada intitolata ai “Martiri di Cefalonia”, ma sentirselo raccontare da chi l’ha vissuto in prima persona, è certamente un’altra cosa. Sono qui in vacanza ma adesso non me ne rendo conto: sentimenti contrastanti si agitano in me, dolore per i miei compatrioti, rabbia per i loro assassini, tenerezza per questo vecchio che ancora soffre a distanza di decenni.
Demetrios sembra ricomporsi e riprende a parlare.
“Da quella volta per me gli Italiani sono come miei fratelli, come si dice… “Una faccia, una razza” no? Quando sento parlare la vostra lingua è come sentissi ancora la voce di quel tenente. Quanto a mia sorella sopraffatta dal dolore, non si è mai più sposata ed è rimasta fedele al ricordo del suo amore fino a qualche anno fa, quando poi se n’è andata per raggiungerlo in Cielo. Io invece, ho preso moglie, anche lei non c’è più, e mi è rimasto il mio unico figlio che lei ha appena conosciuto, Yorgo.”.
Io sorrido ma poi un pensiero mi balena in testa e gli chiedo.
“Ma Yorgo in greco non corrisponde a…..”
“Sì” mi fa commosso”proprio così…a Giorgio. L’ho chiamato come lui.”
Fa un caldo tremendo ma mi sento pervadere da un’emozione così forte da farmi venire i brividi di freddo. L’Ouzo, l’ho detto, proprio non mi piace ma ciò nonostante è l’unica cosa di molto forte che ho a portata di mano e ne bevo un bicchiere in un sorso solo. Poi resto come in “trance” per qualche istante sia per l’alcool ingerito che per quella rivelazione.
Sono destato da questo torpore dalle voci dei miei familiari, che finito il riposino pomeridiano, mi chiedono di tornare in albergo. E’ giunto il momento dei commiati, mi avvicino a Demetrios e stringendogli calorosamente la mano lo ringrazio. Grazie per la splendida ospitalità, per il cibo squisito ma soprattutto per quel racconto che mi ha turbato nel profondo dell’anima. Lui
ricambia la stretta senza parlare e mi cinge le spalle in un abbraccio. Dopo aver saldato il conto (assai modico rispetto a quello che ci hanno servito) saluto anche Yorgo, col quale scambio due parole.
“Deve scusare mio padre, ma tutte le volte che viene una comitiva di italiani deve raccontare per forza questa storia, ormai non ci posso far nulla” sospira.
“Scusarlo? Ma scherza? E’ stato davvero un piacere ascoltarlo!” rispondo io.
Poi insieme ai miei me ne vado e intanto che percorriamo la stradina, mi volto un attimo guardando in lontananza dove sorge la località della Casetta Rossa, teatro dell’eccidio. Per un istante mi sembra che riecheggino le urla, i pianti e gli spari.
Mi sento tirare per la maglietta dalla mia piccolina che con la sua vocina mi chiede:
“Papà, ma stai piangendo?”
Non mi ero accorto di avere gli occhi lucidi. La prendo in braccio e baciandola la rassicuro:
“No, amore mio, papà non piange. E’ che qui in Grecia fa troppo caldo e il sudore mi cola sulla faccia.”.


   
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