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Roberto Mahlab
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Inserito - 24/03/2011 :  22:51:50  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Roberto Mahlab Invia un Messaggio Privato a Roberto Mahlab

A Tom Sawyer era riuscito, nel libro di Mark Twain, di convincere gli amici a compiere un lavoro che non aveva voglia di fare, verniciare la staccionata.
"Sapeste che meraviglia e toccherà a me!", affermavo con tono estasiato e i tratti del viso che parevano ringraziare il cielo, mentre gli altri frequentatori della palestra mi lanciavano sguardi perplessi, "un sogno si avvera amici miei, il sogno di ogni palestrato come noi", continuavo mentre guardavano con invidia i miei muscoli scolpiti dai duri allenamenti a sonnecchiare sulla panca, mentre essi sollevavano tonnellate di manubri.

"Ma non volete sapere che cosa avrò la fortuna di fare?", chiedevo convinto che pendessero dalle mie labbra. Sapete come sono i palestrati, troppo timidi e schivi per approfondire argomenti che siano poco più che intellettuali e così dovetti spiegare, :"il 28 di dicembre, in piena pausa invernale, dovrò tenere aperta l'azienda perché mi arriva un container di merce dal porto di Genova, 630 cartoni per un totale di tredicimila chili e per fortuna che il mio magazziniere sarà in vacanza, così lo potrò scaricare io!" e sorridevo con affettata gioia e soddisfazione. "Vi piacerebbe darmi una mano, anzi sostituirmi vero?", mettevo alla prova il loro amor proprio, "e invece no, è una fortuna che capita solo a me, voi sarete a sciare in montagna, so che mi invidiate", concludevo.

Gli amici di Tom Sawyer avrebbero risposto :"ti prego Roberto, fallo fare a noi!". Come ho detto i palestrati non sono intellettuali e forse non avevano letto Mark Twain, almeno spero che sia questa la ragione che li possa scagionare.

"Ok, allora vi saluto, lo faccio io, d'accordo?", uscivo dalla palestra dicendo con tono da rude tagliatore di tronchi delle foreste del Canada, spingevo la porta girevole con una mano mentre mi rivolgevo agli amici, non accorgendomi che mi ritornava velocemente contro e mi colpiva con un sonoro colpo di martello sulla tempia destra. Non so se si accorsero del bernoccolo, ma non gliela diedi vinta e li salutai, :"coraggio, ditelo che siete invidiosi di come passerò il 28 dicembre". Piansi per il dolore dopo, nello spogliatoio, nascosto dietro un armadietto.

Tutto ebbe inizio qualche giorno prima, mi trovavo nel mio deposito merci e vagavo senza meta per le corsie, mentre la mia segretaria e braccio destro e sinistro e mente pensante guidava il muletto sollevando bancali carichi di cartoni e definiva ordini di vendita ai clienti al telefono portatile e scriveva testi su fogli di carta che poi lanciava direttamente verso il fax che li ingoiava e li trasmetteva ai destinatari, le cadde la penna sul pavimento e io gliela raccolsi e mi sentii utile, "allora quando arriva il container?", mi volsi per capire a chi si rivolgeva, "dico a te, quando arriva il container?", mi sentii rinfrancato alla constatazione che chiedeva a me qualcosa e risposi che dal porto mi avevano comunicato che il container ci sarebbe stato consegnato il 28 di dicembre. "Non sarà facile trovare scaricatori per quel giorno, visto che i nostri magazzinieri saranno in ferie", la mia segretaria si rabbuiò e io non posso vederla contrariata e così parole esiziali uscirono dalla mia bocca, :"non c'è problema, lo scarico io!".

All'improvviso tutto quanto cessò, il motore elettrico del muletto si arrestò, il foglio lanciato verso il fax si fermò a mezz'aria, un silenzio carico di sorpresa parve avvolgere il pianeta. Il primo a spezzare l'incantesimo fu un cliente che attendeva una consegna e che esclamò :"Roberto non può deludervi, può solo stupirvi".

Mai nella storia umana frase più distruttiva fu declamata in tono tanto elogiativo.

"Non è così, Roberto può sempre fare di peggio", la mia segretaria ribatté sussurrando dalla disperazione, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro, parole erano state dette, sfide erano state lanciate, testimoni erano stati coinvolti, codici d'onore, orgoglio e credibilità erano in gioco.

"D'accordo allora", il tono della voce della mia segretaria era gelido, "chiameremo solo due scaricatori, il terzo sarai tu", ma non era un riconoscimento, era una accusa di sovversione di un equilibrio, una fredda constatazione di una inevitabile accettazione di qualcosa di inaccettabile, come a farmi pesare la gravità dello sviluppo e scuotendo il capo con disapprovazione :"tutte le conseguenze, le ovvie tragiche conseguenze di cui ti abbiamo tutti avvisato, ricadranno unicamente sulle tue spalle".

I bambini sognano di diventare giornalisti, pompieri, piloti di navi spaziali, io avevo sempre sognato di diventare uno scaricatore di containers, quando i miei genitori mi portavano in azienda nella culla, i miei occhi osservavano incuriositi e stupefatti l'abilità degli addetti allo scarico delle merci e l'idea fissa non mi passò neppure durante l'adolescenza e gli studi e l'età adulta e le assuzioni di responsabilità.

Dopo i primi momenti di shock di fronte alla realtà che presto il mio sogno coltivato fin dalla più tenera età avrebbe iniziato ad esaudirsi, fui sopraffatto dall'enormità dell'impresa che mi si parava dinnanzi e la mia psiche si incaricò di minimizzarla in un tentativo di banalizzazione, trascorsi una settimana al telefono chiamando tutti coloro che conoscevo per raccontare con tono di ovvietà che avrei scaricato io il container in consegna al magazzino, le reazioni non furono incoraggianti, andarono da un semplice :"ma sei matto?", di un affezionato cliente ad un :"ok, pagami prima l'anticipo dell'Iva, che se un cartone ti schiaccia e ti spiaccica almeno non ci perdiamo noi", da parte della compagnia di navigazione.

All'alba gelida del 28 dicembre le strade della città erano deserte, impiegai un quarto d'ora a raggiungere il deposito, con un cenno del capo salutai la mia segretaria, la sua espressione di rimprovero era fissa da giorni sul suo dolce volto, :"speriamo almeno che il camion non arrivi prima degli scaricatori", sospirò osservando la mia tenuta da lavoro, ero imbacuccato come un esploratore artico, "come potrai muoverti conciato così...", levò gli occhi al cielo in segno di esasperazione. "Anche Rocky era imbacuccato prima di salire sul ring della finale mondiale", le spiegai e lei rimase a bocca aperta, penso convinta dalla mia logica.

Il camion arrivò pochi istanti dopo, "apro il portone", dissi con decisione, ma il grosso gancio non voleva staccarsi dal metallo della struttura e guardai la mia segretaria con indecisione, lei lo spostò con un dito, il portone si spalancò, il container era lì, che mi osservava, quasi a farsi beffe di me, devo ammettere che rimasi paralizzato alla vista della sua enorme mole e nella parte più profonda del mio animo si fecero strada il dubbio e la paura, ma tutti i supereroi che ho visto in azione negli unici film che capisco, mostravano timore prima di intraprendere la battaglia finale, "chi non ha paura è un incosciente", ricordo che Superman o Batman o Spiderman dissero una volta dallo schermo rivolti agli spettatori turbati dai nanosecondi della sceneggiatura nei quali essi parevano essere sopraffatti dalla voglia di andarsene e fuggire alle responsabilità.

"Sono in anticipo, dove sono gli scaricatori?", la voce lugubre di un gigantesco autista, ogni muscolo del quale era più largo dell'intera mia persona, rimbombò nel magazzino facendo turbinare i fogli su un tavolo appoggiato alla parete. Inghiottii la saliva e alzai la mano e bisbigliai :"ci sono io". La mia segretaria si mise le mani attorno al viso e il volto dell'autista si tramutò in una smorfia di sarcasmo.


"Il tuo cuore è puro e avrai la forza di dieci uomini", mi avrebbe sussurrato in quel preciso istante Julia Roberts, la mia attrice preferita nella scena in cui mi sarei ritrovato circondato da dodici affamati coccodrilli, raccolsi la grossa cesoia posta in un angolo del magazzino e mi avvicinai concentrato alle ante del container tenute insieme dal sigillo di metallo che univa le rispettive maniglie cave. Lo sforzo della muscolatura delle mie braccia mi fece sudare, le lame della cesoia si strinsero attorno al sigillo, strinsi i manici con tutta la mia forza, ma non riuscii neppure a scalfirne l'anima interna. Mi volsi costernato e osservai gli sguardi attoniti della mia segretaria e dell'autista del camion, strinsero gli occhi come per scacciare una visione a cui non potevano credere, poi l'autista si scosse, mi strappò dalle mani la cesoia e, senza abbassare il suo sguardo dal mio, strinse i manici e il sigillo si spezzò come fosse fragile cristallo, poi mi rimise in mano le cesoie, mi lanciò un'occhiata disgustata e risalì nell'abitacolo del suo camion, dove avrebbe atteso che il container venisse svuotato.


"Che fai! Aspettiamo gli scaricatori!", mi intimò la mia segretaria mentre io aprivo una delle ante, la prima fila di cartoni scivolò pericolosamente verso l'esterno, "non preoccuparti", risposi con tono disperato, "è troppo tardi per preoccuparsi, o riesco a tirare giù i cartoni prima che cadano, o gli scaricatori dovranno disseppellire me prima di riprendere a scaricare il container", aggiunsi.

La fortuna dei dilettanti mi protesse e, dopo essere salito sull'assale del container, tirai su uno per uno tutti i cartoni della prima fila e li posai ordinatamente sul bancale che intanto la mia segretaria aveva innalzato con il muletto all'altezza delle mie mani.

Ero lì, ero solo, ci stavo riuscendo, la brutta figura dell'incapacità di spezzare il sigillo era il passato, il presente erano le mie braccia che si muovevano da sole e sistemavano un cartone dopo l'altro sui bancali sollevati dal muletto. Passò mezz'ora, tre file erano state scaricate e l'umore passò dalla preoccupazione alla sorpresa.

Alle nove precise arrivarono gli scaricatori, due giganti dalle spalle come armadi, la mia segretaria mi disse :"ok, adesso scendi, ci pensano loro". Gli scaricatori salirono, ma io non scesi, al loro fianco tiravo su i cartoni, fila dopo fila, al loro fianco li ponevo sui bancali, ero talmente posseduto dalla concentrazione che non mi accorsi che ad ogni cartone che essi scaricavano, io ne scaricavo due. "D'accordo, hai dimostrato che ce la puoi fare, adesso scendi, stai intralciando il lavoro degli scaricatori, non lasci loro spazio per muoversi", mi implorava la mia segretaria. Ma io non ascoltavo, i miei sensi non recepivano più nulla che non fosse la meccanica delle mie braccia.

Fino a che rimase l'ultimo cartone nell'angolo del container, i due scaricatori si fermarono indecisi, io mi avvicinai deciso, lo raccolsi tra le braccia, corsi verso l'orlo del container come Magic Johnson alla finale del campionato Nba americano, alzai il cartone sopra il capo come fosse il pallone da pallacanestro e lo appoggiai con trionfante e appositamente esagerata lentezza sulla catasta degli altri cartoni sull'ultimo bancale sollevato dal muletto.
Una scena da rivedere al rallentatore : ecco che raccolgo il cartone, corro verso l'orlo del container, alzo il cartone sopra il capo e lo appoggio sulla catasta, canestro, vittoria, la finale mondiale, il pubblico del palazzetto dello sport si leva in piedi come un sol uomo, un boato di esultanza. Rivediamo l'azione al rallenty ancora una volta, ecco, vedete con che sicurezza raccolgo il cartone, le note di "Momenti di gloria" si levano dall'orchestra, le poderose falcate verso l'orlo del container, le mosse laterali per scartare tutti gli avversari, alzo il cartone, estendo le braccia e centro il canestro... la catasta. I miei piedi ritoccano terra, i miei sensi riprendono a riconoscere l'ambiente circostante, i miei occhi si accorgono dei volti degli altri due scaricatori e della mia segretaria che esprimono sorpresa, ammirazione, commozione, stupefazione, mi danno una mano a scendere dal container.

L'autista del camion intanto scende dall'abitacolo dove aveva schiacciato un pisolino, si rende conto che il container è già vuoto e sono passate solo quattro ore da quando il sigillo è stato spezzato, scuote la testa, richiude le ante, risale sul camion e riparte per tornare al porto.

Stringo le mani tese dagli altri due scaricatori, la mia segretaria scuote la testa con una mano alla fronte, sorride, quasi ride, ci avviamo tutti quanti, fianco a fianco, come compagni di una grande avventura, verso il calore dell'ufficio, le pacche sulle spalle si sprecano, insieme, come loro, mi hanno accettato come uno di loro.

Ci sediamo attorno alla scrivania, ci rinfreschiamo con acqua e caffé, i due scaricatori si aprono, come si fa tra colleghi che si rispettano e che riconoscono il rispettivo valore, raccontano di vicende drammatiche, la crisi che ha cancellato i loro posti di lavoro precedenti, l'iscrizione ad una lista di impieghi temporanei, l'attesa di essere chiamati per fare gli autisti o gli scaricatori nei magazzini, la fatica di mantenere le famiglie, le speranze di far studiare i figli affinché possano costruirsi un avvenire diverso, altrove, la disperazione quando i datori di lavoro temporeaneo nelle imprese di costruzione li mettevano da parte per chiamare poveri extracomunitari, senza metterli in regola, sfruttandoli per pochi soldi che essi accettavano per riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena e pagare gli affitti di camere in cui vivevano in cinque o più. E poi il fallimento pilotato delle medesime imprese di costruzione che avevano approfittato dei lavoratori italiani e di quelli stranieri e i cui titolari si erano dileguati con la cassa, senza pagare i debiti.
Non potevo non osservare che situazioni del genere erano l'opposto di una sana società liberale, in cui è interesse del datore di lavoro compensare con correttezza il lavoratore che a sua volta potrà essere un consumatore, il ciclo positivo che fa girare la ruota dell'economia e del benessere comune, ciclo che viene interrotto e dirottato da chi lo spezza sfruttando il lavoratore e provocando la rovina e il fallimento stesso della propria attività, dato che se non c'è compenso al lavoratore, esso non potrà diventare consumatore di quanto qualsiasi attività produce.


E poi passammo a racconti più leggeri, mi dissero di altre esperienze positive, di offerte di lavoro presso servizi di scorta di merci deperibili o di valore, la speranza che si riaffacciava. E i viaggi, mi dissero di quando erano stati chiamati a scaricare merci nei paesi vicini e io, trascinato dall'entusiasmo, mi misi a raccontare che una volta, durante una visita ad una fabbrica in estremo oriente, avevo aiutato di mia iniziativa a spostare dei cartoni nel deposito merci, con i miei amici produttori che erano sbiancati. E poi raccontai delle gru che ad ogni porto che avevo visitato scaricavano i containers interi dalle navi e i miei occhi scintillavano e la mia segretaria schioccò le dita per farmi tornare alla realtà.

Era l'ora per gli scaricatori di tornare alle loro case, li pagai e li ringraziai, "vi ho aiutati bene vero?", sorridevo convinto di ricevere i loro complimenti, "be'...", mormorò uno di essi, "ecco...", aggiunse l'altro, "stanno cercano di dirti che senza di te avrebbero finito un'ora prim...", la mia segretaria si morse il labbro prima di concludere la frase, accorgendosi che la verità mi avrebbe fatto molto male.

Spostai lo sguardo prima su uno degli scaricatori, poi sull'altro, una domanda muta, compresi che condividevano l'osservazione della mia segretaria, abbassammo tutti quanti il capo, imbarazzati ed essi uscirono.

Io non dissi più una parola, mi rimisi negli abiti di tutti i giorni e salutai la mia segretaria con un cenno del capo, quella sera camminai a lungo per le strade della città, senza meta, dentro di me vampate di disperazione, gli occhi bassi, il mio animo in frantumi. Infine mi ritrovai di fronte ad un negozio di piante e fiori, un mondo colorato e bello, mentre io avrei voluto sparire nel luogo più nascosto del pianeta, dove nessuno mi avrebbe mai ritrovato, sentivo di non avere più il diritto di essere parte di qualsiasi società, dovevo ammetterlo, non ero in grado di raggiungere i miei sogni, avevo perso.

"Si è sconfitti solo quando si accetta di esserlo", questo mi stava bisbigliando Julia Roberts, mia fan nei miei sogni di essere una delle punte dei Los Angeles Lakers dopo il primo tempo in cui eravamo stto di venti punti contro i Boston Celtics. Osservai il mio volto deluso specchiato nella vetrina del fioraio, sospirai profondamente e compresi che la forza di non accettare di essere sconfitto era dentro di me.


Hong Kong, tre anni dopo

Dal mio ufficio all'ultimo piano del più alto grattacielo della metropoli asiatica, osservavo le gigantesche navi portacontainers ancorate nel porto più trafficato del pianeta, un elicottero si era appena posato sull'eliporto del tetto sovrastante, l'insegna della mia società sulla carlinga :"Rob Dockers Inc.", l'avevo fondata due anni prima, dopo il ritorno nella mia stessa azienda come scaricatore ufficiale, mi ero fatto le ossa e poi avevo spiccato il grande balzo ed in breve tempo i miei sogni erano divenuti realtà, ero a capo della più grande società di scaricatori di porto del pianeta, venivo chiamato personalmente dagli armatori quando c'era una emergenza e la mia personale attività era divenuta leggendaria tra i frequentatori dei locali dei bassifondi dei maggiori porti di tutti gli oceani.

Era il primo pomeriggio di una domenica, avevo passato la mattinata in ufficio ad aggiornare la tabella dei miei record della settimana, sedici containers scaricati in cinque giorni, prima del riposo del sabato. Squillò il telefono, "Rob, qui è Jaruski", Jaruski era il proprietario di metà delle navi mercantili che solcavano il Pacifico, se mi chiamava di domenica pomeriggio, significava che era proprio nei guai, "Rob, ho bisogno di te, la mia ammiraglia, la 'Pearl of Java', attraccherà tra dieci minuti al porto di Hong Kong, ci sono quattro contenitori che devono essere scaricati entro sera, si tratta di merce estremamente deperibile che deve subito essere rispedita in soccorso alle popolazioni colpite dal maremoto in Nuova Guinea, solo tu puoi riuscirci!". "Lo so Jaruski, tra dieci minuti sono in porto con il mio elicottero, vedi di organizzare che le gru mi facciano trovare pronti i quattro containers sul molo diciassette".
"E la nostra cena?", una soffice voce proveniente dalla poltrona mi fece voltare, era la voce di Julia Roberts, eh sì, non vi avevo ancora detto del secondo sogno che si era avverato?.
"Mia cara", le risposi con un inchino e un baciamano, "sono solo le due del pomeriggio, alle sei avrò finito di scaricare i quattro containers, alle sette ti passerò a prendere con la Limousine e un mazzo di rose rosse".


Dieci minuti più tardi feci il mio ingresso sul molo diciassette, Jaruski era stato di parola, i quattro containers erano allineati sulla banchina, mi tolsi con un gesto deciso la giacca del mio sarto di Bond Street, mi tirai su le maniche della camicia dai polsini d'oro, mi slacciai la cravatta di cashemire, raccolsi una cesoia dalle mani di un deferente marinaio e, semplicemente tenendola tra due dita della stessa mano, spezzai uno dopo l'altro tutti e quattro i sigilli. Luci abbaglianti si accesero attorno al molo diciassette, gli spalti appositamente innalzati dalle autorità erano colmi di pubblico, l'orchestra sinfonica della filarmonica di Londra, fatta arrivare precipitosamente da Jaruski, con la magica bacchetta di Riccardo Muti, attaccò con il tema dell'Arlesienne di Bizet, mi volsi e mi inchinai verso gli spettatori che risposero con un boato e poi fu solo danza, roteavo tra le mani quattro cartoni alla volta come palline di giocoliere e poi uno dopo l'altro cadevano come piume sui bancali prediposti con sapiente regia. All'ultimo cartone dell'ultimo container, comparvero i quattro tenori del gruppo Il Divo che intonarono l'Alleluhia di Leonard Cohen, tra la commozione del pubblico sugli spalti, fuochi artificiali illuminavano il cielo oscurato dal tramonto. Raccolsi la mia giacca, ringraziai gli spettatori, feci un cenno della testa a Jaruski che non riusciva a contenere la soddisfazione, risalii sul mio elicottero, tornai a casa a cambiarmi per l'invito a cena con Julia, quando arrivai sotto la sua casa, sbirciai l'orologio, ero in largo anticipo. Entrai dal fioraio e comprai un mazzo di rose rosse, scorsi il mio volto specchiarsi nella vetrina del negozio :"si è sconfitti solo quando si accetta di esserlo", quelle parole che avevo ascoltato nel mio animo tre anni prima nel momento più buio della mia esistenza, mi tornarono alla mente. Ancora pochi minuti e Julia mi avrebbe chiesto di spezzare con le mie dita il sigillo dorato che teneva insieme i gambi delle rose, di modo da poterle spargere in un vaso di cristallo di Boemia, ne avevo fatti produrre migliaia di quei sigilli dorati, in memoria di quel sigillo lontano, ne avrei usato uno per ogni mazzo di fiori che ogni giorno, di ritorno dal porto, avrei porto alla mia dolce Julia.


Roberto Mahlab
(I racconti dell'ufficio)

   
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