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Gabriella Cuscinà
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Inserito - 15/04/2009 :  17:52:48  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Gabriella Cuscinà Invia un Messaggio Privato a Gabriella Cuscinà

L’azienda del latte
Di
Gabriella Cuscinà

Questa è un’opera di fantasia.
Ogni riferimento a persone, fatti e situazioni
della vita reale è puramente casuale.

1
Diego e la sua famiglia avevano risentito molto degli effetti del dopoguerra. A quei tempi infatti, nel parmense, i loro terreni erano stati espropriati dall’amministrazione comunale per realizzarne un parco urbano e avevano perduto la casa caduta sotto i bombardamenti. Dunque non li aveva ereditati come sarebbe stato suo diritto, essendone l’unico erede. In realtà quei vasti terreni non furono mai trasformati in parco, furono invece ceduti gratuitamente ad una cooperativa che vi edificò stabilimenti per la commercializzazione del latte e dei suoi derivati, un’industria del latte, un’azienda insomma che divenne miliardaria ma che si è trovata rovinosamente in crisi e il suo proprietario è stato indagato. Da quel momento, Diego ha avuto la sensazione che una giustizia divina c’è per tutti alla fine. Si è convinto d’essere stato vittima di un furto e di un’ingiustizia. Cioè che quei miliardi siano stati il provento di un latrocinio perpetrato a danno della sua famiglia, rubati a lui che da ragazzo, giocava in quei giardini dove i tigli esalavano il loro delicato aroma e lasciavano cadere pallidi fiori sui vialetti e sulle aiuole. L’odio verso i proprietari di quell’industria ha accompagnato la sua esistenza.
Ricorda la propria infanzia tra quelle vaste campagne, tra gli alberi di pesco e di melograni, tra i filari d’uva e i campi seminati a pomodori. A quei tempi, un grande aiuto all’andamento familiare erano stati i pacchi di viveri che gli Americani fornivano a tutti gli ex militari che avevano operato per loro, e suo padre aveva fatto parte di quegli ex militari. Diego era cresciuto a cioccolato, latte in polvere e prodotti liofilizzati. Aveva iniziato la scuola con un grembiule di stoffa americana, acquistata a poco prezzo.
Il padre aveva avuto un’officina di ricambi d’auto e commercializzava pezzi statunitensi con cui riforniva meccanici come Lamborghini il quale, prima di iniziare a produrre trattori e auto sportive, riparava veicoli americani rimasti dopo la guerra.
Il nonno era stato un agronomo e aveva amato le sue campagne di un amore assoluto, intenso, fatto di notti insonni e giornate trascorse a controllare la maturazione della frutta e degli ortaggi. Perse le terre e le campagne, si era messo a commerciare automobili, e l’auto di famiglia era stata una De Soto, acquistata da un cliente che l’aveva vinta a poker a Walter Chrysler, incallito giocatore e proprietario dell’omonima marca automobilistica.
Dopo gli studi, Diego aveva iniziato a occuparsi anche lui del commercio di autovetture e aveva gestito una concessionaria di auto, ma quest’attività non sempre era tranquilla, infatti una volta si era ritrovato coinvolto in una rissa con un cliente. Avrebbe preferito occuparsi delle campagne del nonno e fare l’imprenditore agricolo, ma non erano più sue. Le guardava da lontano e vedeva enormi capannoni industriali, costruzioni in cemento armato, dove prima ondeggiava il grano e gli uccelli volavano felici.
Qualche anno dopo, aveva lasciato l’Italia ed era andato a vivere e a lavorare negli Stati Uniti. Aveva voluto abbandonare il suo paese, nauseato da ciò che succedeva negli ambienti del commercio e provando un odio e un rancore profondo verso chi gli aveva rubato le sue bellissime terre per costruirvi un’industria del latte. Ma l’Italia gli è rimasta nel cuore e i ricordi tornano a traboccare più che mai come una pentola bollente di cui non può sollevare il coperchio senza vederne travasare fuori tutta l’acqua.
2
Aveva sposato Rachele, una bella ragazza del suo paese e insieme si erano stabiliti a San Francisco, una città dalla popolazione cosmopolita. Vi aveva trovato lavoro e benessere senza difficoltà, neppure per la lingua che già conosceva da bambino. Aveva imparato ad amare quella gente dalle origini più svariate, che sapeva convivere fianco a fianco in perfetto accordo senza sentire l’impulso di cambiare gli altri o essere cambiati. Era stato affascinato dal Golden Gate, il ponte sospeso nel vuoto non poteva lasciarlo indifferente. Il suo profilo d’argento l’aveva incantato.
Rachele si era presto abituata alla lingua, al ritmo e alle abitudini di quella città sull’oceano. Abitavano in una villetta in collina, ma quante volte lui era ritornato con la mente alle campagne del nonno, alla casa tra i filari di tigli e di betulle, ai luoghi incantati della sua giovinezza. Gli erano rimasti nel cuore e li ricordava sempre. Ripensava ai luoghi e alle tante persone conosciute, ai parenti, agli amici cari. Per esempio, in un piccolo paese vicino al suo, c’era un’antica villa padronale; aveva fatto amicizia con il giovane erede e ne aveva conosciuto la storia. Spesso lo ricordava e ciò che gli aveva narrato riviveva nella sua mente.
Si chiamava Antonio ed era tornato nella sua casa dopo anni trascorsi in un collegio svizzero. Soffriva di amnesia e non rammentava i luoghi dell’infanzia. Suo zio l’aveva mandato in Svizzera in una scuola esclusiva e l’aveva fatto tornare a diciotto anni perché riprendesse il suo posto nella tenuta dei genitori. Dopo il disastro che li aveva uccisi, era stata amministrata da quell’unico fratello del padre.
Il paese si trovava nelle immediate vicinanze di una miniera, ma Antonio non lo rammentava. Tutto risultava confuso nella memoria, a cominciare dalla notte in cui un boato tremendo aveva squassato l’aria e parte della villa era crollata seppellendo il padre e la madre, che erano stati i ricchi proprietari della miniera di zolfo. Gli aveva raccontato la sua triste vicenda e Diego non l’aveva più dimenticata. Gli aveva narrato che era vissuto chiuso in se stesso, triste, spaventato e isolato da tutti. In collegio soltanto un ragazzo gli era sempre accanto, un ragazzo molto simile a lui nell’aspetto, magro, scuro di capelli e di occhi, ma sorridente e che teneva i riccioli eternamente scomposti. Di carattere era molto diverso, sempre allegro e scherzoso, con una gran voglia di vivere e divertirsi. Si chiamava Nuccio ed erano stati inseparabili. Lo istigava a tralasciare lo studio, a distrarsi e a seguirlo quando scappava dal collegio per frequenti scorribande. Antonio l’aveva invidiato, gli piacevano le sue risate, i suoi scherzi e le canzoni improvvisate alla chitarra. Lui invece aveva sempre un’aria malaticcia e sofferente e non ricordava nulla dei suoi primi anni di vita, che erano stati annullati da qualcosa che lo aveva reso incapace di reagire, di vivere serenamente e normalmente come tutti gli altri ragazzi. Si sforzava di ricordare, ma un vuoto enorme s’affacciava alla mente. Era un baratro che lo paralizzava e lo rendeva ansioso. Si era fatto promettere da Nuccio che sarebbe andato al paese a trovarlo. Contava di rivederlo poiché era l’unico di cui si fidasse e che sapesse comprenderlo. Antonio era tornato in quell’antica dimora austera e bellissima, immersa nel verde, con ampi saloni d’accesso. Un’ala della villa era stata distrutta e quella visione gli aveva procurato un senso di panico, un’ansia incomprensibile.
Un anziano signore e una ragazza bruna lo avevano accolto al suo arrivo.
-Antonio! Ben tornato! Finalmente sei qua ragazzo.- Lo zio abbracciandolo gli aveva manifestata la consueta affettuosità. In quegli anni era andato spesso a trovarlo in collegio e lo conosceva come un uomo buono e onesto, generoso e retto sotto ogni punto di vista. La ragazza invece era sua figlia; anche lei cordiale e affettuosa, ma non l’aveva mai vista. Sottile e graziosa, con le lentiggini sul naso e un sorriso affascinante. Doveva avere circa la sua età, forse qualche anno in più. Si chiamava Stefania.
-Sono sicura che andremo d’accordo. Siamo cugini, ma mi piacerebbe che diventassimo amici,- aveva detto con slancio, sorridendo e rivelando due graziose fossette agli angoli della bocca.
Gli avevano fatto rivedere tutta la villa. All’interno maestosa e ricca di mobili antichi. Lo zio affermava che era appartenuta a dei principi e che il padre di Antonio l’aveva acquistata molti anni prima di morire.
Lo aveva portato nell’ala distrutta: -Questa parte non l’ho fatta ricostruire. Sarai tu a farlo. Ormai sei il padrone. Sono rimasto qua solo per badare alle proprietà di mio fratello. Quando lo vorrai, io e mia figlia andremo via e torneremo in città.-
Quella zona della villa gli aveva prodotto una strana sensazione di malessere, come un morso allo stomaco, qualcosa d’indecifrabile. E non ricordava nulla, non riusciva a ricordare nulla. Nemmeno tutto il resto della casa, come se fosse stato cancellato da un colpo di spazzola.
Antonio ricordava bene solo il collegio, solo Nuccio, la sua spavalderia, la sua aria scanzonata. Lo avrebbe voluto accanto a sé a confortarlo, a dire che non importava se non ricordava; un giorno forse avrebbe ricordato. Gliel’aveva detto tante volte. Ma adesso gli mancava saperlo vicino, pronto a proteggerlo e a incoraggiarlo. Lui invece era sempre stato disincantato e depresso, continuamente oppresso da un senso di vuoto e d’impotenza.
-Zio per favore, restate qui con me, non potete lasciarmi solo!-
-Va bene figliolo, non preoccuparti, resteremo fin tanto che avrai bisogno di noi. Io e tua cugina rimarremo con te. Stefania d’altronde, vive volentieri da queste parti. Si è diplomata qualche anno fa e non vuole frequentare l’università. Ama la campagna e la quiete di questo posto. Si è occupata volentieri della tenuta e della vendita dei prodotti, come ho fatto d’altronde io. Tu piuttosto non vorrai andare all’università?-
-No, preferisco non dovermi confrontare con altri ragazzi che non conosco e che non sanno nulla della mia amnesia.-
Poi una dottoressa andò a visitare Antonio. Diceva d’essere una psichiatra e di poterlo aiutare a risolvere il suo problema. Secondo lei, doveva trattarsi di qualcosa che aveva a che fare con la morte dei genitori. Forse Antonio era presente e qualcosa o qualcuno l’aveva salvato. Bisognava fare in modo di ricostruire nella sua mente i momenti dell’esplosione. Doveva sottoporsi a delle sedute di analisi. Il ragazzo aveva accettato. La dottoressa si sarebbe recata periodicamente da lui e avrebbe sorvegliato i suoi miglioramenti. Ma doveva anche uscire, divertirsi e mangiare molto, andare in paese e parlare con la gente. Doveva cercare di distrarsi e condurre in qualche modo la vita degli altri ragazzi della sua età.
Questa era stata sempre la cosa più difficile. Gli altri ragazzi non erano come Antonio. In collegio si divertivano, cantavano, scherzavano e lo prendevano in giro. Andavano a casa periodicamente e tornavano a scuola pieni di regali e storie da raccontare. Ma fra tutti, solo Nuccio l’aiutava, lo consigliava, gli diceva di reagire, di non pensare al vuoto della memoria. La cugina voleva essergli amica, ma non avrebbe mai sostituito Nuccio. Non poteva farlo, perché quello era come un altro se stesso e gli mancava terribilmente.
Improvvisamente, un giorno mentre si stava recando in paese, lo incontrò. Veniva verso di lui e l’abbracciò: -Antonio! Sono qua! Lo vedi, sono venuto come ti avevo promesso. Sapevo che avevi bisogno di me e sono arrivato.-
Si era sentito felice di rivederlo, ma stranamente frastornato da quell’apparizione inattesa. Nei giorni successivi, lo incontrò sempre nello stesso posto. Andavano insieme a passeggiare per la campagna assolata, fra gli alberi di carrubo e verso il fiume. Erano loro due soli e avevano modo di confidarsi. Antonio gli raccontava il suo tormento di continuare a non ricordare nulla. Nulla di ciò che era stato, della sua casa, di quei luoghi incantevoli. Soprattutto non rammentava la morte dei genitori.
-La dottoressa dice che forse mi trovavo nelle vicinanze durante l’esplosione e mi sono salvato in qualche modo, restando scioccato. Quindi quel trauma m’ha tolto la memoria.-
-Deve essere così Antonio. Prova a ricordare. Com’era tua madre? E tuo padre? Dovevano essere giovani.-
-C’è una loro fotografia in un salone. E’ l’immagine di una giovane donna molto bella e di un uomo più anziano. Io però non li ricordo. Non soffro neppure perché vedo il volto di due sconosciuti.-
-Ma non ti devi compatire! Non farlo. Non pensare mai che il male ti abbia reso un handicappato, poiché non lo sei. Un giorno guarirai. Devi guarire.-
Continuavano a camminare tra i binari dei treni, sotto i ponti della ferrovia e tra gli alberi di castagno. Quel paesaggio era splendido, con i campi che si stendevano a perdita d’occhio e le genziane che formavano macchie gialle tra il verde dei cespugli. La salute di Antonio ne traeva giovamento, in quanto era più colorito e più in forze.
Un giorno la cugina glielo fece notare e lui arrossì. Era molto timido e aveva paura di tutto. Nonostante le assicurazioni della dottoressa, pensava che non sarebbe mai guarito e che la sua memoria non sarebbe più tornata.
Stefania s’era accorta dei suoi frequenti rossori e aveva capito quanto Antonio fosse impreparato ad affrontare il mondo e il futuro. In una società fatta di arrivismo e di culto dell’immagine, un ragazzo così spaurito non poteva trovare una sua collocazione. Avrebbe dovuto restare sempre là in paese a vivere una vita da eremita, un ricco eremita, ma pur sempre un recluso e un dimenticato dal resto del mondo.
-Prova a pensare ai tuoi giochi d’infanzia, Antonio,- gli aveva detto Stefania -pensa ai giorni in cui eri felice con la tua mamma. Io non c’ero perché stavo in città, ma papà mi ha detto che eravate una famiglia serena. Che partivate spesso e che tu eri un bambino sempre allegro e giocherellone.-
Niente. Non ricordava niente. Né i viaggi, né quella serenità cui aveva tanto spesso anelato.
-Non riesco a ricordare Stefania, non posso sforzarmi più di quanto faccia.-
-Devi volerlo con tutto te stesso. La volontà è una grande arma. Con la volontà si sollevano le montagne. Se tu avrai la volontà di ricordare, un giorno ricorderai. Sai, in fondo tutti possiamo fare qualsiasi cosa. Basta volerlo veramente.-
Quelle parole lo avevano colpito e, da quel giorno, Antonio si era recato spesso nell’ala distrutta della villa. Pensava che se avesse cercato di superare la fobia che provava per quel posto, forse avrebbe potuto cominciare a ricordare. Bisognava volerlo, volerlo davvero con tutta la volontà, come diceva la cugina. Così restava fermo in quella zona demolita mentre un forte tremito gli prendeva lo stomaco, e una voglia di scappare lo faceva vibrare nelle viscere, ma non si muoveva. Rimaneva immobile, ripensando al passato. Poi quando non ce la faceva più, scappava davvero e correva fuori, all’aria aperta verso la campagna. Incontrava Nuccio e gli raccontava i suoi sforzi e la sua determinazione.
-Bravo Antonio! Continua, continua, non ti dare per vinto. E’ vero, la forza di volontà è una gran cosa nella vita. Coloro che hanno volontà, sono le persone migliori. E tu sei in gamba. Puoi farcela. Devi farcela!-
Tornava allora sempre là, finché un giorno non gli sembrò di riudire una voce: -Questi esplosivi potranno essere rivenduti. Per ora, li conserveremo tutti qua.-
Un’altra voce diceva: -Antonio, non ti avvicinare mai a questo posto. Promettilo.-
Improvvisamente aveva fatto un balzo. Aveva ricordato. Aveva riudito la voce dei genitori. Stava cominciando a ricordare.
Il padre aveva trovato una quantità di esplosivi non utilizzati nella miniera e pensava di rivenderli. Ma la madre non voleva che il figlio mettesse piede in quell’ala della villa che veniva utilizzata come deposito. Sì, era così, il vuoto della memoria si stava colmando. Gli era parso il caso di chiedere conferma delle sue reminiscenze.
-Zio, mio padre conservava dell’esplosivo nella parte distrutta, è vero?-
Lo sguardo di quello s’era illuminato: - Hai ricordato! Certo, l’esplosione è avvenuta proprio a causa delle cariche di dinamite che tuo padre ammassava. Però in pochi n’eravamo a conoscenza e mio fratello non voleva che si sapesse. Si è conosciuta la verità solo dopo la sua morte, purtroppo.-
Da quel giorno, Antonio aveva compreso che avrebbe dovuto continuare a sforzare la memoria. Perché solo lui si era salvato?
Chiese consiglio a Nuccio. La risposta fu che doveva concentrarsi sulla madre. La voce che gli raccomandava di non avvicinarsi a quel luogo doveva essere la sua. Infatti gli sembrava di riudirla: -Non ti avvicinare Antonio, promettilo.-
Quanta dolcezza in quella voce! Gli ripeteva sempre la stessa cosa. Allora perché l’ala distrutta gli procura tanto panico?
Era tornato in quel luogo quasi ogni giorno e la paura si attenuava. Lentamente cominciava a sentirla meno violenta e opprimente. Riusciva a sopportarla senza più voglia di scappare e voleva risentire la voce della madre. Ricordava quella voce, dolce, cara. Aveva un timbro melodioso, un tono armonioso. La sua voce!
Piegato sulle ginocchia, era scoppiato a piangere violentemente. Era il pianto di un dolore cocente, un dolore antico, straziante. Il dolore per qualcuno perso per sempre. Un qualcuno che aveva amato moltissimo, di un amore profondo, come solo un bambino sa amare la sua mamma.
Il pianto si era fatto convulso, dirotto, la mente pareva scoppiare, e tra le lacrime, la voce: -Non puoi venire con me. Torna a dormire Antonuccio. Nuccio della tua mamma.-
A questo punto, aveva fatto un salto. Aveva sollevato il capo, immobile. Era rimasto a fissare il vuoto inebetito.
Nuccio! Lei lo chiamava Nuccio. Usava quel vezzeggiativo!
Si era preso la testa tra le mani comprimendola. Gli era parso d’impazzire.
Nuccio!
Era scappato via lontano, all’aperto, all’aria pura. Si era asciugato gli occhi con il dorso delle mani correndo, correndo. Doveva raggiungere il posto in cui s’incontrava sempre con l’amico. Ma sapeva già che non ci sarebbe più stato, per il semplice motivo che non c’era mai stato. Non era mai esistito. Correva e nella nebbia del suo cervello si rendeva conto che Nuccio era lui stesso. Un parto della sua fantasia. Creato come autodifesa. Un altro se stesso. Era quell’Antonio che sarebbe stato se non avesse sofferto di amnesia. Sarebbe stato allegro e contento, scanzonato e felice se solo fossero vissuti i genitori e se non avesse perso la memoria.
Si era seduto sui massi, al sole, tra i cespugli di margherite selvatiche. Soffiava una brezza leggera e gli scompigliava i capelli. Se li era toccati. Erano i capelli di Nuccio. Di colui che aveva solo immaginato. Si era identificato in lui perché sapeva di essere come lui, ma di non riuscire a manifestarlo. Si guardava intorno: l’amico non era lì accanto a lui, ma era con lui, perché Antonio era sempre stato Nuccio. Questa scoperta gli aveva procurato un senso di sgomento e gli aveva fatto battere il cuore. Ma era più libero e pensava che lentamente sarebbe potuto diventare un ragazzo come tutti gli altri, sereno, tranquillo.
Aveva parlato di tutte queste cose con la dottoressa. Nell’ultima seduta di analisi, era riuscito a ricordare la notte in cui aveva lasciato la madre ed era andato a letto, lontano dal luogo dell’esplosione. Si era appena coricato quando un frastuono tremendo aveva squassato tutta la villa. Era corso fuori dalla sua camera e aveva visto crollare della mura. Un grido disumano gli era uscito dalla gola: -Mamma!-
Poi nulla.
Ecco il buio, il vuoto, la paralisi della mente.
La dottoressa aveva detto che in quel preciso momento doveva aver perso la memoria. La sua mente di fanciullo aveva rifiutato l’accaduto e aveva preferito cancellare ogni ricordo, ogni immagine del passato. Il trauma e lo shock erano stati troppo forti e il cervello s’era oscurato, si era difeso coprendo ogni memoria di ciò che era stato. Antonio aveva compreso che quella diagnosi era esatta. Ma era guarito e aveva riacquistato la sua autonomia e la sua libertà. Avrebbe portato in cuore quella pena enorme, quel sentimento di perdita, ma avrebbe reagito e la forza della sua volontà lo avrebbe aiutato nella vita. Quella stessa forza di volontà che aveva insegnato a Diego quando da ragazzo, gli aveva raccontato tutta la sua storia e le sue sventure. Ad Antonio era stata rubata l’infanzia, a Diego erano state rubate delle terre magnifiche. E perché poi? Per costruirvi delle industrie del latte che col tempo si sarebbero rivelate fallimentari.

3
La determinazione e la volontà ferrea erano state una prerogativa di Diego dal giorno in cui s’era ritrovato in terra straniera e aveva dovuto inventarsi un nuovo mestiere. Aveva lentamente avviato un’attività d’intermediazione con l’Europa, ovvero un’organizzazione che svolgeva servizi per conto terzi e si occupava della promozione e distribuzione sul mercato statunitense di prodotti di produzione europea e viceversa.
Era divenuto ben presto un esperto di marketing e oggi i suoi proventi gli consentivano una vita ricca e agiata.
Quando era bambino, nei terreni del nonno, vi erano degli alberi di betulla alti e frondosi. Spesso Diego si andava a sdraiare all’ombra e giocava con le formiche che si nascondevano tra i sassi. Aveva scoperto due alberi vicinissimi, perfettamente identici e attaccava ai loro rami una piccola amaca. Si dondolava beato tra il frusciare dei rami e il cinguettio degli uccelli. Un giorno aveva strappato delle foglie a uno degli alberi di betulla e aveva avuto la netta sensazione che l’altro albero tremasse, vibrasse e desse segni di paura. Il bambino s’era meravigliato e aveva voluto ripetere l’operazione. Ancora una volta, strappate le foglie di uno, l’altro albero aveva vibrato e aveva abbassato le fronde in segno di terrore. Diego aveva intuito che quelle piante erano creature vive e percepivano il dolore come ogni altro essere vivente. Allora aveva carezzato le fronde della betulla spaventata e l’aveva sentita frusciare di piacere e agitarsi di gioia. Ma forse era solo un’illusione. Poi un giorno correndo s’era fatto male a un ginocchio, vi aveva posato sopra una foglia di quell’albero e da essa aveva visto fuoriuscire una specie di olio. Poco tempo dopo, la sua ferita era perfettamente risanata.

Diego aveva un solo figliolo che era nato e cresciuto negli Stati Uniti. Quando ebbe conseguito il diploma, il ragazzo non volle più rimanere a San Francisco e chiese al padre di poter andare a studiare e a laurearsi in Italia. I genitori lo accontentarono e lo fecero partire, sebbene a malincuore.
Rachele era una signora dall’espressione dolce e malinconica, forse a causa della miopia che rendeva il suo sguardo grave, intenso e sognante. Da ragazza era rimasta senza padre, però si era laureata e aveva trovato Diego, l’uomo della sua vita. Aveva i capelli castani e ondulati che portava corti e che le conferivano un’aria sbarazzina. Non era del tutto longilinea poiché amava la buona cucina, ma era slanciata, cosicché il suo personale lo stesso risultava piacente ed elegante. A tal proposito, spendeva parecchio in abiti e accessori, indulgendo in capi costosi e ricercati e il suo gusto evidenziava sempre molta classe e sobrietà. Si circondava di pochi amici, persone che conosceva bene e a cui era legata da molto affetto, quindi la sua vita scorreva serena e tranquilla, senza scosse e novità rilevanti. Portava sempre le lenti a contatto e senza di quelle non avrebbe distinto una bicicletta da una moto. Non aveva mai voluto imparare l’uso del computer proprio a causa della vista e non lavorava nell’azienda di Diego avendo preferito occuparsi d’altro. Ma arrivò il momento che dovette addestrarsi all’uso del computer, visto che nel suo ufficio tutto era stato informatizzato. Così frequentò vari corsi di informatica, conobbe istruttori preparati e altri che invece riuscirono a confonderle le idee. Dopo alcuni mesi ad ogni modo, ne aveva acquisito una dimestichezza encomiabile e vi lavorava con efficacia e destrezza. Si sentiva finalmente un’esperta e questo la gratificava e la faceva sentire importante.
Durante la pausa pranzo, non tornava a casa dal lavoro, perché si sarebbe trattato di riattraversare tutta la città; quindi restava in ufficio, oppure si recava in un vicino ristorante a consumare un celere pasto. Da quando però aveva appreso a chattare, si dilettava a scambiare messaggi con il mondo intero. Aveva ricevuto lettere, le erano giunte informazioni dall’Italia. Insomma si teneva collegata con centinaia di persone e s’intratteneva volentieri al computer, visto che le permetteva di trascorrere piacevolmente quell’oretta libera prima di riprendere a lavorare. Tra le varie persone che la contattavano, un giorno s’imbatté in qualcuno che aveva come user name: Farfalla cinese. Le mandava a dire di essere una persona amante della buona lettura e che avrebbe volentieri scambiato commenti e pareri sui libri letti. Rachele amava leggere e trascorre il poco tempo libero con dei buoni libri in mano. Quindi chattare sulle ultime novità editoriali la intrigava parecchio. Si lanciò dunque in lunghi messaggi e riceveva, come risposta, pensieri e dissertazioni varie su questo o quest’altro romanzo e su problemi esistenziali. In effetti le loro comunicazioni avevano cominciato a esulare dalla lettura e ora vertevano su temi vari. Lei si faceva identificare come 008, e tale username le era parso subito comico e divertente. Non vedeva l’ora, in ufficio, di poter iniziare a collegarsi con la sua nuova amica. Capiva di avere con lei moltissime cose in comune, condividevano gli stessi punti di vista, avevano le stesse opinioni e gli stessi gusti in fatto di libri, viaggi e teatro. Una volta Farfalla cinese le aveva raccontato di avere un solo figlio maschio. Come lei! Ma che strana cosa la telematica! Le aveva dato la possibilità di conoscere una signora tanto simile a se stessa, che diversamente non avrebbe mai potuto conoscere. E lo strano era pure che la loro amicizia si nutriva di messaggi e confidenze on line. Eppure la gratificava egualmente, non sentiva la necessità di vederla in viso o di conoscere di persona la sua interlocutrice. Quello che l’affascinava era il suo modo di pensare e di scrivere, di porsi in relazione con lei e di inviarle di continuo pensieri, idee, opinioni, critiche, commenti, suggerimenti.
Un giorno, parlò a Diego della sua nuova conoscenza telematica. Fu entusiasta nel descrivere la personalità di quella signora, il suo corretto comportamento on line, le sue battute, le sue frasi salaci, insomma la compagna ideale per chattare. Il marito era parso sulle prime molto meravigliato, era quasi rimasto a bocca aperta a sentir raccontare tutte quelle cose e quelle novità. Poi aveva chiesto: -Qual è il tuo username, scusa?-
Lei aveva risposto che era 008, un’identificazione un po’ strana e da ebeti, ma era stata la prima che le fosse saltata in mente.
-Ah! 008!- aveva detto Diego. Poi si era messo a ridere come un pazzo.
-Non c’è niente da ridere!- aveva esclamato Rachele tutta offesa, -Vedi, mi trovo molto meglio a chattare con la mia amica che a trattare con te.-
Se n’era andata in cucina a preparare la cena con fare pieno di sussiego.
Il giorno dopo, Farfalla cinese si lanciò in un mare di dissertazioni filosofiche e psicologiche; le scriveva che mai s’era sentita tanto felice come da quando chattava con lei. Aveva trovato la persona giusta con cui sfogarsi, confidarsi, l’essere umano che la capiva, l’apprezzava e le prestava la giusta attenzione.
Per un attimo, Rachele ebbe il sospetto che non si trattasse realmente di una donna. Oppure, un momento! Poteva essere un gay. Ma no! Era impossibile! Una così brava signora, che parlava sempre di buoni sentimenti e di correttezza nell’agire! Non era possibile, aveva avuto un brutto pensiero. Macché, stava diventando come suo marito che vedeva il torbido ovunque. Si mise a chattare con l’amica e volle anche chiederle dove abitasse e che lavoro facesse. Le rispose che abitava nella sua stessa via, ma non poteva parlare del proprio lavoro giacché si trattava di qualcosa di molto delicato. Questa era bella! Nel sua stessa via!
Ma chi era mai? Adesso voleva diventare 007; doveva scoprire assolutamente chi fosse la signora che chattava con lei.
Durante quella settimana, osservò i suoi vicini, li scrutò, si soffermò a scambiare amene chiacchiere con loro. Il buio però rimaneva assoluto.
Una sera, Diego le disse: - Scusa, perché non fissi un appuntamento con Farfalla cinese?-
-No, ho paura che rifiuti l’invito.-
-Prova, tanto cosa ci perdi?-
-Perdo un’amica, forse neppure mi scriverà più perché mi crederà troppo impicciona e curiosa.-
-No, se si comporterà in questo modo, vorrà dire che davvero ha qualcosa da nascondere. Le relazioni umane, secondo me, devono sempre essere alla luce del sole.-
Questo ragionamento del saggio consorte la convinse. Fu così che l’indomani Rachele si pose dinanzi al computer prendendo l’iniziativa che riteneva foriera d’insuccesso. Comunicò alla sua misteriosa amica che aveva voglia e piacere di conoscerla e vederla in volto. Le dava appuntamento in un noto bar della città. Si sarebbero viste, se possibile, durante la sua pausa di lavoro. Per farsi riconoscere avrebbe indossato un tailleur rosso con camicia bianca.
L’indomani, altro che insuccesso! Farfalla cinese rispondeva che volentieri l’avrebbe incontrata. A sua volta, per farsi riconoscere, avrebbe avuto in mano un mazzolino di rose rosse. Che strano però! Delle rose in mano! Il suo fiore preferito e poi come ad un incontro galante del secolo scorso.
Quella sera, raccontò a casa dell’appuntamento fissato e del come sarebbe avvenuto. Diego cominciò a sghignazzare e non la finiva più di ridere.
-Non vedo cosa ci sia da ridere tanto. Capisco che l’evento somigli ad una storia da romanzo d’appendice! Ma! Poi ti racconterò.-
Arrivò il giorno fissato. Rachele si sentiva come una scolaretta scema e trepidante, tutta vestita di rosso e bianco in una giornata da diluvio universale. Entrò nel bar e si guardò attorno. Non c’era nessuno che avesse rose in mano. Guardò meglio: una signora stava prendendo il caffè e aveva un sacchetto della spesa. Un’altra teneva un ombrello chiuso. Un signore era con il cane. Insomma di fiori neppure l’ombra. Pensò all’improvviso che Farfalla cinese ci avesse ripensato, o addirittura che si fosse beffata di lei. Mentre questi cattivi pensieri le attraversavano la mente, vide entrare nel bar il marito. Lui aveva in mano un enorme mazzo di rose rosse.
Che significava tutto ciò? La stava prendendo in giro? Già si sentiva furibonda. Ma il consorte la salutò: -Buon giorno signora 008, io sono Farfalla cinese.- L’abbracciò divertito, mentre si squarciava un velo dinanzi agli occhi di lei. Si sentiva improvvisamente stupida. Come aveva fatto a non capire! Era lui! Farfalla cinese era lui!
Restò dapprima come una statua di cera, poi si riscosse e finse d’essere offesa. Diego però le stava dicendo tante paroline affettuose, frasi scherzose e salaci. Non resistette e scoppiò a ridere anche lei.
-E brava Farfalla cinese! Mi hai giocato proprio un bel tiro!-
-Ma sai che all’inizio non avevo capito che 008 fossi tu? Poi hai raccontato tutto e l’occasione dello scherzo era troppo allettante.-
-E dire che ero tanto affezionata alla mia amica telematica!-


4
Il porto di San Francisco è sempre pieno d’imbarcazioni d’ogni tipo.
Un’estate, Diego e sua moglie vollero fare una piccola crociera. Dunque affittarono una barca a vela insieme ad alcuni amici. Lui aveva seguito con passione un corso di vela e si sentiva un esperto. Avevano deciso di raggiungere l’isola di Guadalupe nel Pacifico, di fronte alle coste della Bassa California. Quando erano partiti avevano dovuto affrontare varie ore di navigazione con un mare in tempesta.
-D’accordo,- aveva gridato Diego piantato davanti al verricello, -andiamo di bolina.-
-Sì, è meglio,- aveva risposto Tony, lo skipper, -abbiamo vento di Tramontana.-
La passione per il mare accomunava i partecipanti a quell’escursione. Una piccola combriccola più il conducente della barca, Tony, grande esperto di vela.
-Quando tu orzi, io ***** e quando tu puggi io lasco. Intesi?- aveva ripetuto Diego che era stato l’organizzatore dell’avventura. Il suo amore per la vela era grande e ne era divenuto una specie di patito. Se il vento era favorevole e soffiava forte, gli s’illuminavano gli occhi, sorrideva. Se non c’era vento, si dannava. Se la barca doveva andare a motore, diceva che avrebbe preferito farsela a nuoto. Intanto rideva increspando le labbra e mostrando un compiacimento da beota gaudente.
Un caro amico l’assecondava sempre e lo aveva seguito in questa impresa portando con sé la moglie. Erano Andrew e Conny.
Il primo stravedeva per la pesca e durante quella gita rimase sempre con la lenza in mano, sciupando esca a mai finire e non riuscendo a prendere neppure il più piccolo pesciolino. Ma s’intestardiva e continuava a usare lenze a traino e lenze di fondo.
Più si dannava più nulla pigliava. I pesci talora erano visibili a occhio nudo. Ma pareva che lo salutassero divertiti e gli facessero sberleffi.
-Se vi pesco! Vi faccio vedere io!-
Quando Andrew dormiva, si esibiva nel suo potente e vigoroso russare. Allora tutti si lamentavano, protestavano e inveivano. Lo avevano soprannominato: -La motozappa.-
L’amica Molly, aveva sentenziato: -In questa barca, ci vuole maggiore pulizia!-
Suo marito si chiamava Ted e possedeva un gommone. Sapeva sempre tutto e interveniva su tutto. La sua loquela era inesauribile.
-Dovresti pescare con un’esca diversa,- aveva detto ad Andrew.
-Tu non ne capisci niente!- aveva ribadito quello.
-Già, e intanto tu non peschi nulla.-
Questi alterchi erano continui e movimentavano la gita, ma ancor più esilaranti erano gli scambi di vedute tra Diego e Ted.
-Se si tratta di badare alle vele, ci penso io,- diceva il primo.
-Io invece mi occupo di timonare,- ribadiva l’altro.
-Sì, così andiamo a sbattere contro qualche scoglio!-
-Lo scemo che sei. Parli tu che fai sempre caramellare le vele!-
-Ma come! Se procediamo bene è proprio grazie all’ottimo regolaggio che eseguo io.-
-Ma che ne capisci tu che non possiedi neppure una barchetta?-
-Già e tu invece sei un gommista e vai solo su gommoni!-
Per fortuna tra questi battibecchi, s’inseriva Tony con cortese fermezza, per dare le giuste indicazioni di manovra.
Però che panorami avevano ammirato! Che tramonti! Con un sole incandescente che li colpiva infuocato, tuffandosi nelle acque brillanti del Pacifico. E i delfini! Che meraviglia vederli giocare attorno alla barca! Saltare e immergersi. Come se li salutassero. Se poi qualcuno li fotografava, pareva si mettessero in posa. Per non parlare della bellezza paesaggistica dell’isola di Guadalupe. Piccola e affascinante.
Avevano gettato l’ancora all’imbrunire sotto un cielo trapunto di stelle.
Una bella mattina, in un mare azzurro e trasparente, calmo come l’olio, Rachele e la sua amica Julia stavano facendo il bagno attorno alla barca. S’erano un po’ allontanate e, ad un tratto, Julia aveva cominciato ad avvertire un crampo e una corrente sottomarina che tirava al largo.
-Non ce la faccio a tornare,- aveva detto.
-Lanciate le pinne!- aveva gridato Rachele agli uomini rimasti a bordo.
Le pinne erano state gettate e Julia l’aveva calzate. Eppure faceva ancora fatica a tornare.
-Lanciate una fune!-
A questo punto, s’era mobilitato tutto l’equipaggio. I salvatori erano accorsi nuotando a gran bracciate. Chi portava una cima agganciata alla barca, chi portava il salvagente. Julia fu ricondotta sana e salva sulla barca.
Rachele in seguito, aveva avuto un altro incidente: Ted, la cui altezza era ciclopica, dormiva nella cabina accanto, e nel letto adiacente al suo. Dormiva incollato alla parete di legno divisoria. Nel letto, non poteva distendere interamente le lunghe gambe. E allora, ogni volta che si rigirava, dava una potente e sonora ginocchiata alla parete, provocando l’insonnia della malcapitata che, a ogni botta, saltava in aria come una molla!
Ma chi di loro avrà mai dimenticato l’alba sul mare, con il venticello leggero che soffiava discreto?
-Prendi la scotta della randa e cazzala,- indicava Tony a qualcuno. -Lasca di più il fiocco!-
Se poi bisognava dispiegare le vele, si mettevano tutti all’opera. Due uomini si ponevano al verricello di destra e due a quello di sinistra. Bisognava sciogliere e cazzare, cioè svolgere le scotte da una parte e tirarle dall’altra. Due scioglievano velocissimamente facendo roteare il verricello. Gli altri avvolgevano per tendere le vele. Ora, tra il girare da una parte e il rigirare dall’altra, avveniva che mani, piedi e teste s’incrociavano, cozzavano, s’intrecciavano, sbattevano e poco mancava che mischiassero pure gli organi genitali!
Ma l’avventura più eclatante li attendeva durante il viaggio di ritorno a San Francisco. Il mare era calmo, liscio e piatto. Decisero di compiere la navigazione di notte, procedendo a motore poiché non soffiava il minimo, agognato alito di vento.
Tony, fidandosi dei suoi compagni, chiese: -C’è qualcuno che vuole restare sveglio al timone al posto mio?-
L’idea non riempì nessuno di gioia, a parte il solito Ted cui non parve vero di mettersi al timone.
-Bene! Allora a mezzanotte io vado a dormire e tu prendi il mio posto. Sei sicuro? Davvero pensi di saper timonare e non t’addormenti?-
-Macché! Non ci vuole niente. Sarò sveglio e vispo come un grillo!-
Ted puntò la sveglia affinché suonasse a ogni ora, ma non aveva fatto i conti con Diego. Questi, vedendogli compiere l’operazione, pensò bene di fargli uno scherzo e disattivare la suoneria.
Una navigazione eccellente! Una notte da fiaba, con lo sciabordio delle onde sulle fiancate della barca. Verso l’alba furono svegliati di soprassalto da un urlo sovrumano.
-Uuuhh! Uuuhh! Ma dove stiamo andando?- urlava Tony.
Rispose la voce insonnolita di Ted: -Che! Cosa! Perché? M’ero appisolato un attimo.-
-Un attimo! E mi spieghi come siamo finititi in pieno Oceano in un attimo?-
A questo punto tutti s’erano svegliati e avevano chiesto cosa fosse successo: -La sveglia non ha suonato? Ma perché?-
Diego, fingendosi stupito, inveiva scandalizzato contro il povero Ted: -Alla deriva! Ci hai fatto andare alla deriva!-
Quello desolato, aveva cercato di giustificarsi in qualche modo, senza capire come la sveglia non avesse suonato. Tutti gli altri invece avevano ben presto sventato lo scherzo di Diego.
Tony aveva corretto la rotta di ritorno e la navigazione era ripresa tra l’ilarità generale.


5
Il nostro Diego aveva conservato intatto il senso d’appartenenza alla sua famiglia d’origine ed era orgoglioso dei suoi parenti italiani, che per altro erano numerosissimi. Non aveva perso i contatti con i tanti cugini e spesso alcuni l’andavano a trovare in America. Ma aveva trovato molti amici a San Francisco. La sua villetta sorgeva tra numerose altre sulla collina. Vicino abitava il suo amico William, uno scapolo attempato, corpulento e brontolone. Lo chiamavano Willy ed era sempre vissuto con l’anziana madre ammalata. Era rimasto scapolo per non lasciarla sola e le era legato da un affetto morboso. Purtroppo da qualche anno era morta, e lui aveva lasciati intatti la stanza, gli oggetti e le consuetudini dell’anziana signora. Ne venerava il ricordo, le parlava e preparava le pietanze che lei preferiva come se fosse ancora viva. Per questo motivo il poverino era stato spesso vittima delle beffe di Diego. Ad esempio, una volta gli aveva fatto sparire lo scialle della madre in cui si avvolgeva per sentirne l’odore, un’altra volta gli aveva sottratto il latte che ogni mattina si faceva recapitare, e poi gli faceva sparire i giornali, la spesa. Un giorno aveva messo a soqquadro il letto della defunta, che Willy lasciava come se vi dormisse ancora. Anzi quel letto rappresentava una vera reliquia e quando s’accorse della violazione, cominciò a gridare e a inveire contro l’amico.
Però voleva bene alla famiglia di Diego ed era particolarmente affezionato a Luigi il quale, quando aveva quattro anni, si recava da lui a farsi dare le caramelle.
-Willy sei grassone, sei grassone!- lo canzonava il bambino.
-E io non ti do più le caramelle,- rispondeva l’altro.
-Te le mangi tutte tu e diventi più grasso ah ah ah ah.-
Poi in una bella mattina di sole, Luigi era a passeggio con Rachele lungo il viale di casa. Improvvisamente era sfuggito dalla sua mano ed era corso in mezza alla strada a prendere una palla. Proprio in quel momento sopraggiungeva un’auto. Willy aveva visto la scena, non aveva perso tempo e si era precipitato a salvare il bambino. Era riuscito a spingerlo da parte, ma era stato investito in pieno dalla vettura ed era morto sul colpo.
-Papà ti ricordi quando Willy mi dava le caramelle?-
-Certo, lo ricordo Luigi.-
-Sai, una volta mi chiese se gli volevo bene.-
-E tu cosa hai risposto?-
-Che non gli volevo bene perché era troppo grasso.-
-E oggi cosa gli avresti risposto?-
-Che gli volevo tanto bene,- aveva detto Luigi singhiozzando.
Diego in seguito, aveva ripensato alle volte in cui Willy gli aveva narrato delle sue terre nel Texas. Appartenevano al padre ed erano molto estese, con coltivazioni abbondanti e redditizi allevamenti di bestiame. Quando il padre era morto, tutte quelle campagne se l’era accaparrate il fratello, senza riconoscergli la metà di diritto.
Willy non si era rivolto né ad avvocati, né a tribunali. Aveva preso con sé la madre ed era andato a vivere lontano, a San Francisco. Aveva perdonato il fratello e l’aveva lasciato fare. Ma ancora rammentava che da ragazzo, cavalcava in quelle immense pianure verdeggianti. Galoppava felice lungo le rive di un piccolo torrente. Andava a osservare le mandrie di buoi e ogni tanto aveva assistito alla nascita di un vitellino.
Diego aveva confrontato la magnanimità dell’amico con se stesso. Aveva riflettuto sul proprio rancore per la perdita delle terre del nonno. Sapeva di non aver mai perdonato il torto subito. Willy invece aveva perdonato e parlava con affetto di quel fratello lontano, benestante proprietario che cavalcava ancora nelle verdi vallate del padre.

La grande azienda che Diego gestiva negli Stati Uniti offriva servizi per le imprese, per le industrie di produzione, e aveva pure un settore dedicato ai programmatori software. Quindi lavoravano con lui degli ingegneri esperti d’informatica. Tra costoro, da qualche anno c’era Hug, un giovane promettente e simpatico. La sua famiglia era modesta e aveva sperato che sposasse una ragazza ricca. Invece s’era innamorato di Elisabeth, una cantante che si esibiva con un gruppo musicale in locali di bassa categoria. Una bellissima ragazza, ma strana, bizzarra e senza un dollaro in tasca. Eppure ricambiava l’amore di Hug e progettavano di sposarsi e andare a stare insieme. Intanto lei continuava a esibirsi e a cantare con scarsi compensi in varie cittadine. Poi lui scoprì qualcosa di allucinante che la riguardava e non volle più vederla. L’aveva seguita a Boston a sua insaputa, per farle una sorpresa e poiché era libero dal lavoro. Si trovava nel piccolo locale dove lei cantava e improvvisamente aveva sentito dire: - Stasera canta di nuovo quella lesbica di Elisabeth.-
Era rimasto di sasso e aveva deciso di pedinarla alla fine dell’esibizione.
L’aveva vista andare via insieme a un altra donna che la teneva sensualmente abbracciata. Erano andate in un albergo e Hug era entrato all’improvviso nella loro camera sorprendendole in atteggiamenti nauseanti e inequivocabili.
Elisabeth aveva cominciato a giurare e spergiurare di aver cercato di confessargli tutto. Aveva tentato di trattenerlo supplicandolo di perdonarla, di credere che lo amava e che da quando lo conosceva, era cambiata. Lui aveva sbattuto violentemente la porta ed era ritornato a San Francisco con il primo volo. Non l’aveva più rivista e gli procurava nausea anche il solo sentir parlare di lei. Ma era divenuto triste e taciturno, disincantato e scettico su tutto. Adesso quando parlava, c’era un tono di sarcasmo nelle sue parole, una nota che subito spariva e diventava malinconica.
Diego si era provato a scuoterlo e a farlo reagire, ma con scarsi risultati. Allora aveva cercato di fargli conoscere altre ragazze. Evidentemente però Hug, da questo punto di vista, era davvero sfortunato. Infatti dopo qualche tempo, iniziò a uscire con una biondina timida e riservata che ben presto si rivelò un altro soggetto poco raccomandabile. Non s’era fatto scrupolo di portarla a letto e il mese successivo lei gli comunicò di essere incinta.
-Come! Cosa? Ma non usavi delle precauzioni scusa?- Hug non si aspettava né desiderava una cosa del genere.
Risposta: -Precauzioni! Ma che precauzioni? Sono andata in piscina, ho fatto un tuffo ed ecco che sono rimasta incinta.-
Il poverino l’aveva guardata trasecolato e basito.
- Stai scherzando? Forse mi vuoi prendere in giro?-
-Non sto scherzando. Ho fatto un bel tuffo in piscina. Per questo sono incinta.-
Nel dire così era perfettamente seria e convinta delle proprie parole. Non aveva voluto contraddirla oltre e ne aveva parlato con Diego. Per prima cosa si trattava di appurare se fosse realmente in stato interessante. Il suo capo s’occupò di avere esatte informazioni sulla biondina e risultò che era un tipo fuori di testa. Spesso era stata ricoverata in cliniche per malati di mente perché soffriva di allucinazioni. In realtà non era mai stata incinta, ma sovente diceva di esserlo.
Hug non la frequentò più e per parecchio tempo non volle sentir parlare di donne.

Gabriella Cuscinà

   
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