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 GIULIO CESARE E L'AZZARDO DI ALESIA
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zanin roberto
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Inserito - 05/03/2009 :  00:11:42  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a zanin roberto
CESARE VINCE LA GALLIA

L'alba luminosa si apriva sulla Gallia, in quel caldo settembre del 52 a.c., i due fiumi l'Aze e l'Azerain che lambivano il colle dove si ergeva la capitale dei Mandubi, Alesia, scorrevano placidi, gorgogliando acque pure e limpide, arterie cosi essenziali a mantenere vivi e impenetrabili i boschi tutt'intorno. Sacri luoghi, dove i druidi identificavano grosse querce e ne facevano tempio per i loro riti propiziatori, genti che si opponevano all'inarrestabile penetrazione romana, della prima potenza militare del Mar Mediterraneo, che aveva sconfitto i potenti Cartaginesi e che si apprestava a soffocare la libertà di quelle terre divise tra le tante rissose nazioni galliche. Il colpo d'occhio era impressionante, la città di Alesia ed il suo colle erano chiusi entro un cerchio di quindici chilometri di circonferenza, da una fortificazione d'assedio che prevedeva fossati, trappole, torri, fortini, in uno straordinario congegno bellico che assicurava gli assedianti romani da controffensive e da attacchi alle spalle. Cesare, il comandante supremo delle dieci legioni romane che contavano 55000 uomini, era alla resa dei conti con l'indomito condottiero averno Vercingetorige "il grande re degli eroi" letteralmente, chiuso in Alesia con 80000 galli al suo comando, convinto che l'armata poderosa di 230000 uomini, chiamata al suo soccorso e che circondava a sua volta l'assediante Cesare, avesse nel numero la chiave della vittoria della battaglia. Il fumo acre, dei fuochi notturni, si disperdeva lento, un gruppo di cervi pascolava nella piana lussureggiante con assoluta indifferenza dell'uomo, una coppia di conacchie volava bassa, le mosche fastidiose inseguivano l'alito di morte che in quei cinquanta giorni di attacchi vani alle postazioni romane, si era fatto sempre più intenso. Cesare sonnecchiava stanco, il decotto di camomilla e chiodi di garofano, gli aveva rilassato le membra, la giornata si presentava dura e decisiva, ormai da ambo le parti la resistenza fisica alla continua tensione, provocava evidenti sintomi di insofferenza. Il cambio della guardia avvenne con sbrigativa ritualità, gli ufficiali tolleravano con maggior elasticità, la dura disciplina dell'esercito romano. I ventitre fortini lungo la fortificazione, vennero rinforzati mentre nei duecento metri di larghezza che lo caretterizzava, si rianimava la macchina bellica romana. D'un colpo, all'improvviso un cavallo lanciato al galoppo che proveniva dal settore ovest, si arresta davanti alla tenda di Cesare, ne scende sudato un centurione dalla barba bianca e dal volto con fresche cicatrici, sanguina copiosamente da un avanbraccio, al saluto romano rispondono le guardie sbarrando le lance, e il suo passo.
- " Ave, sono il centurione Sulpicio Trace, a nome dei legati Gaio Antistio Regino e Gaio Caninio Rebilo, comandanti delle legioni del campo di Monte Rea, ho un messaggio urgente per Giulio Cesare!"-
- " Che passi subito ! " - gridò Cesare unnervosito dalla prassi di sicurezza della sua guardia.
- " Ave Cesare, comandante vengo a nome..." - inchinandosi sulle ginocchia al suo duce.
- " Su, su, pochi convenevoli, la situazione, com'è la situazione....non farmi aspettare!" - disse con determinazione Cesare.
- " Circa 60000 galli scelti, al comando di Vercasivellauno, hanno attaccato e sfondato il campo di Monte Rea, la nostra resistenza è allo stremo. Contemporaneamente da Alesia, Vercingetorige sta schierando i suoi per sortite!"- la voce roca del veterano è come uno squillo di tromba alla mente vulcanica del condottiero romano. Si concentra sul tavolo, in cui un plastico in legno, riproduceva fedelmente lo scacchiere, alza più volte la testa al cielo, sferra un paio di pugni con intenso furore, poi fulmineo grida:
- " Chiamatemi Labieno!...Presto, prestoooo....e tu, mio fedele soldato vai a farti medicare le ferite, ave! "- uscendo il centurione incrocia il risoluto ufficiale che entra con energia nella tenda di Cesare.
- " Ave, Cesare, mio comandante, eccomi...cosa succede?!" -
- " Labieno, compagno di tante battaglie, prendi sei coorti e va in soccorso del campo di Monte Rea, se non riuscite a resistere uscite con le coorti in una sortita!" - le parole erano scandite e come dardi colpivano l'emotività
Senza esitare Labieno al comando delle coorti raggiunge il campo, dove la violenza dello scontro mescolava ora i due eserciti in un corpo a corpo senza esclusione di colpi. Le frecce volavano saettando nell'aria, dardi fiondati sbattevano le armature e gli elmi in un rumoroso pestare metallico, le lance si conficcavano come sassi lanciati nell'acqua, in un tuffo arrossato dal sangue,, le imprecazioni latine si mescolavano alle grida galle, sudore e sangue, sangue e terra, lacrime e sangue. La morte coglieva messi abbondanti e l'equilibrio si reggeva sulla straordinaria tenacia dei legionari, inferiori nel numero. Cesare toglie truppe dal monte Flavigny, essendo il lato est calmo e ben trincerato, Vercingetorige allora partendo dalla assediata Alesia si getta con impeto sul monte Flavigny, indebolito. Anche sul lato est, le cose precipitano, bisogna intervenire prontamente. Cesare avvolto nel suo mantello rosso porpora con le insegne del comando ricamate in filo dorato si trova in una posizione sopraelevata, sullo stesso monte Flavigny, da dove studia la situazione. Con sicura determinazione convoca immediatamente il giovane Decimo Bruto, con l'ordine di soccorrere le fortificazioni di monte Flavigny che stavano cedendo,sotto i suoi occhi, poi dopo poco tempo convoca con tempestività anche Caio Flavio che esorta a portare soccorso ulteriore alla falla apertasi ma la pressione è davvero eccezionale, non si riesce a ristabilire l'equilibrio. Cesare chiama a se la sua guardia personale di germani, sale a cavallo e frusta il suo esercito:
- " Roma non si piega, gli dei assistano i nostri cuori, ora è il momento di stringere la vittoria, seguitemi miei legionari!" - arringando, come solo lui sapeva fare, le sue truppe, si gettò al galoppo contro il nemico, vistoso e riconoscibile da lontano. Quando il nemico lo riconobbe si intimori mentre i veterani che lo adoravano colsero nuovo fulgore e fu subito ristabilito l'equilibrio. Cesare non era solo il comandante, era la sicurezza di un esercito, era la supremazia della civiltà latina, era l'impossibile realizzato.
Alle tre del pomeriggio tutto si era stabilizzato, i combattimenti erano meno furiosi e da entrambe le parti si fiatava, il sole caldo e secco arroventava le armature, un leggero venticello rinfrescava i colli rialzati mentre le piane trattenevano un'afa resa ancora più insopportabile dall'umore dei morti e appena mitigata dall'odore dei foraggi e dei muschi agresti. Le grida rimbombavano sorde tra rumori metallici e pianti di vinti, il galoppo delle cavallerie si alternavano al possente passo delle armate che si spostavano. Cesare scese da cavallo, si rinfrescò il volto con un getto d'acqua profumata da petali di rosa selvatica, si asciugò con un lino finemente ricamato a figure mitologiche, si dissetò con un vinello di Provenza e mangiò da un piatto bronzeo a sbalzi di glicine, dei fichi di sicilia e dell'uva di Spagna. Si inerpicò su un'altura che dominava il teatro della battaglia,vide la città assediata con parecchi incendi sulle mura, le macchine da getto la tempestavano di palle infuocate, nuvole di frecce s'insinuavano tra i difensori, poi il suo sguardo andò all'opposto lato, sul monte Rea, il suo volto divenne preoccupato, serio, profondo, senza inflessione alcuna. Attimi eterni a considerare il futuro incerto di quello scontro, diventato ormai decisivo per tutta la campagna militare di Gallia. Decise risoluto, con uno scatto fulmineo, raccolse quanta più cavalleria poteva, attingendo dalle riserve, indeboliva interi settori, confidando nella sorpresa, si fece seguire da quattro coorti di soldati. Si diresse a nord, a marce forzate, arrivando nei pressi di monte Rea, dove il legato Labieno aveva a sua volta concentrato trentatre coorti, circa tre legioni, delle dieci che assediavano la città di Alesia, per cercare di resistere alla pressione dei 60000 galli al comando di Vercassivellauno e diede gli ordini:
- " Uscite e seguite il perimetro fino all'estremo punto nord, aggirate il monte Rea e attaccate alle spalle i 60000 galli, ma dovete essere rapidi, perchè se si accorgono che non abbiamo più riserve mobili, ci possono travolgere ! " -
La cavalleria a sostenuto galoppo impiega non meno di due ore ma quando arriva alle spalle degli increduli galli ha l'effetto devastante d'una bufera. Il reparto composto in maggioranza da cavalieri germani inquadrati da ufficiali romani, era una macchina devastante, gli uomini erano possenti, le schiere ordinate e inquadrate rigorosamente come una falange, quando piombarono alle spalle dei galli di Vercassivellauno essi si terrorizzarono, scapparono disunendosi, vennero inseguiti e massacrati, trasmettendo il panico a tutta l'armata dei 150000 che si dileguò in un assolo di fughe precipitose.
Anche gli uomini di Vercingetorige, visto il disastro dell'esercito di soccorso, si ritira in Alesia e si prepara alla resa finale. Lente le acque dei due fiumi, dell'Oze e dell'Ozerain, scorrevano al mare senza ostacoli, cosi come la sognata libertà agogniata e cullata nella rivolta si scioglieva, disperdendosi tra i tanti fuggiaschi delle nazioni galliche. Cesare aveva azzardato e coglieva il suo trionfo, era stato vicino al baratro, un baratro che avrebbe potuto pregiudicare nei secoli futuri Roma stessa, avesse perso, fossero andate distrutte le dieci legioni, avrebbe compromesso il commercio con la Spagna e l'economia egemone dei romani.
Vercingetorige si inchinerà al vincitore e Giulio Cesare salirà all'olimpo dei più grandi generali dell'antichità, Alessandro Magno, Annibale, Pirro, Caio Mario, non meno degno, nella sua incrollabile tenacia di uomo guida, di politico fine e lungimirante, amato dai suoi uomini perchè convinto della propria forza,capace di mettersi in gioco senza codardie e tentennamenti.
Il sole scendeva basso dietro le quinte della terra, si abbassava il sipario sul dramma dei Galli, su un avversario che si nutriva di nobili ideali ma che non aveva l'esperienza e l'abilità di Cesare che al bisogno giocava d'azzardo.

zanin roberto

   
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