Concerto di Sogni
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seasonoflove
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Inserito - 15/04/2003 :  21:58:43  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a seasonoflove
Happytown, 04/02/1979

"Aprivo la porta di quella casa per la prima volta...mi sembrava tutto cosi strano...sapevo solo che per me cominciava una nuova vita...e io...avevo bisogno di una seconda chance. Mi ritrovai in un enorme ingresso. C'era una scala che portava al piano di sopra, dove c'erano le camere da letto, a destra il salotto e a sinistra le cucine. Sembrava una di quelle case ottocentesche. Tutti i mobili erano in legno color noce scuro, solo una debole luce attraversava per metà l'ingresso. Mi vennero i brividi entrando. Avevo paura che di notte ci potessero essere i fantasmi. Ma non avevo altro posto dove andare, non avevo altra scelta che entrare. Mi rimboccai le maniche e decisi che avrei trasformato quella casa tetra nella casa dei miei sogni. Sin da piccola mi piaceva immaginare che avrei vissuto in una casa grande, con tende in stile francese alle finestre, un giardino colmo di rose, un cane con un qualche nome buffo, un bambino e un marito affettuoso che ogni sera mi avrebbe fatto una sorpresa, magari portandomi un fiore ogni qual volta ritornava dal lavoro. Volevo ritrovarmi affacciata alla finestra e, guardando mio marito giocare con nostro figlio e sentendo il cane che abbaiava festoso, sentirmi appagata e innamorata delle due persone più importanti della mia vita. Per il momento avevo solo una casa, che per immaginarla come quella dei miei sogni di fantasia ce ne voleva parecchia. Era molto grande. Troppo, per me che non avevo grandi esigenze. La prima cosa che feci fu aprire le tende. Quasi mi accecò la luce che entrò. Improvvisamente quel salotto, causa delle mie paure, si illuminò. Un fantastico lampadario di vetro proiettava i raggi del sole sul muro, come fossero stelle. Mi sentii felice e cominciai a non vedere l'ora di finire. Pensai che quella casa mi avrebbe dato tante sorprese. Tolsi le tende, scossi i tappeti, spolverai tutto. Aveva proprio bisogno di una ripulita. Ormai era disabitata da vent'anni. I genitori di mio marito, in seguito ad una grossa vincita al gioco, decisero di voler comprare una casa nel nord Carolina da far invidia a tutti, ma si accorsero presto che per loro era enorme. Cosi pensarono di lasciarla in eredità ai loro due figli. Uno di loro,il più giovane, morì in guerra, e l'altro, mio marito...beh, anch'egli morì. Sette anni fa ebbe un incidente stradale e lasciò un vuoto incolmabile nei nostri cuori. I suoi genitori erano molto legati a me, sentimento che ricambiavo, ed essendo io orfana e loro ormai senza eredi, decisero di lasciare a me la casa. Con me furono sempre premurosi, e adesso lo erano stati per l'ennesima volta. Non mi facevano mancare nulla. Ma non era cosi che volevo vivere. Alle spalle di qualcuno. Accettai la casa, ma per il resto avevo deciso di cavarmela da sola. Prima che mio marito morisse, lavoravo come segretaria presso uno studio legale. Cominciai da qui. Non appena aver lasciato la città in cui mi trovavo, giunsi nella Carolina, e da subito cominciai a darmi da fare. Visitai molti studi, ma nessuno aveva bisogno di personale. Dopo aver girato a lungo, trovai lavoro in un piccolo negozio di alimentari a conduzione familiare. La paga non era altissima, ma non dovevo mantenere nessuno e non avendo nessun vizio, erano più che sufficienti. I proprietari erano una coppia di arzilli vecchietti: i Watson, che avevano bisogno di una mano. Il figlio aveva deciso di arruolarsi, e da soli non riuscivano a gestire il negozio. Avrei fatto al caso loro. Ero in grado di catalogare la merce che entrava e che usciva, e mi intendevo un po di contabilità. Presto fummo un trio affiatato. Un giorno, alla fine del lavoro, mentre stavo per tornare a casa, mi si spense la macchina. Loro mi obbligarono quasi ad accettare un passaggio. La strada che conduceva dal negozio a casa mia non era moltissima, ma già sul tardo pomeriggio cominciava ad essere molto buia. Mi dissero che la macchina l'avrei potuta lasciare al negozio e che l'indomani il figlio tornando a casa in permesso per qualche giorno, ci avrebbe dato un occhiata. Mi trattavano quasi come una figlia. Ne fui commossa, e volevo sdebitarmi in qualche modo. L'unico talento che avevo era quello di cucinare. Decisi di preparare loro una torta. L'indomani suonai il campanello della loro casa e una voce molto ferma e rassicurante mi disse che la porta era aperta. Entrai con passi lenti e mi presentai a quella persona che ancora non avevo visto. Ad un certo punto mi ricordai le parole dei Watson e capì che quella voce apparteneva al figlio. Ero molto curiosa di vederlo, ma allo stesso tempo ero molto timida. Posai la torta su un tavolo e dissi che dovevo solo lasciare un pensiero per i suoi genitori, cordialmente salutai e mi indirizzai verso la porta ma lui mi fermò : "Aspetta sei tu la ragazza di cui i miei genitori non fanno altro che parlare?"
Capì che era dietro di me, e che parlando accennava ad un sorriso. Avevo i brividi, e quasi non riuscivo a voltarmi. Mi girai e mi ritrovai davanti un uomo suoi trentacinque anni, alto, scuro, dallo sguardo rassicurante. Ne restai ammaliata e non riuscio a smettere di fissarlo. Lui guardò il tavolo, notò la torta. Mi disse: "L'hai fatta tu?". Il mio si fu quasi impercettibile. Quel poco fiato che mi uscii fu distorto da qualche balbettamento. Ero nervosissima. Tremavo, non riuscivo neanche io a capire perchè. Lui si mise a ridere e mi disse di tranquillizzarmi. "Non è mica un interrogazione a scuola" esclamò. E li scoppiai a ridere. Mi richiese se la torta l'avevo fatta io e stavolta il mio si fu determinato. "Ora va meglio. Sai, la torta di mele è la mia preferita" disse. Io sorrisi e mi si illuminò lo sguardo. " La mangeremo stasera, tutti insieme. D'accordo?". Mi invitò a cena. Non potevo crederci. Non perchè pensavo chissà cosa di lui, ma ci conoscevamo da poco più di dieci minuti e mi prese alla sprovvista. Ripresi a balbettare. Non sapevo che dire, e tra qualche suono quasi lontanamente paragonabile ad una qualche parola, fui bloccata da lui che poggiandomi le mani sulle spalle disse :" Passo alle 8". Il suo sguardo fu molto convincente, e quindi accettai, anche perchè non penso che sarei riuscita a dissuaderlo. La macchina mi disse che aveva un pezzo guasto e che quindi per aggiustarla avrebbe dovuto aspettare l'indomani. Tornando a casa svuotai tutto l'armadio. Vestiti sul letto, a terra, sul corridoio. Ovunque. Non sapevo cosa mettere, e in preda all'emozione, gettavo tutto dove mi capitava. "Questo è troppo stretto","Questo è troppo largo","Questo è troppo corto, non voglio che i Watson pensino che sia una poco di buono","Questo è troppo lungo,e se.... " mi fermai. I miei pensieri si bloccarono. Neanche sapevo come si chiamava il figlio. Ci dimenticcammo una delle prime cose: la presentazione. Ma avremmo avuto tempo di conoscerci. Alla fine, dopo aver saccheggiato l'armadio, quasi come una ladra, decisi di mettere un paio di pantaloni semplici, e una magliettina. Ebbi giusto il tempo di pettinarmi i capelli, che sentìì il campanello suonare. Era qui. Fu puntualissimo. E io, forse per la prima volta nella mia vita, riuscì ad essere pronta in tempo. Scesi velocemente le scale. Al penultimo gradino, inciampai e quasi caddi. L'emozione fa brutti scherzi.
Aprì la porta e me lo ritrovai di fronte. Feci un cenno di spavento. E lui, come sempre, si mise a ridere. Aveva un sorriso dolcissimo. Ci incamminammo verso la macchina. Mi aprì lo sportello, e io lo guardai sorridendo. Appena entrati dissi che non c'eravamo neanche presentati. Gli dissi che mi chiamavo Anna, ma lui rispose che già sapeva tutto di me, grazie ai suoi genitori. Dopo di che si presentò: il suo nome era Manuel. Arrivati a casa sua, entrammo e andai a salutare i suoi genitori. La cena fu divertente, e si concluse con la torta che avevo preparato io. Non appena fu quasi mezza notte, mi alzai e feci cenno che era ora di andare. Manuel avrebbe avuto molte cose da fare la mattina successiva, e non volevo che facesse tardi per me.
Appena arrivammo sotto casa mia, spense il motore. Capì che la serata non sarebbe finita lì. Cominciò a farmi tante domande sul mio passato, e altrettanto facevo io. Restammo a parlare per ore, che sembravano volare. Mi raccontò vari aneddoti, ma non era mai noioso. Era simpatico, e molto ironico. Il fatto che intuiva ogni volta come mi sentivo mi rassicurava e spaventava allo stesso tempo. Mi sentivo un pò << violata >>. Dopo esserci augurati una buona notte, aprì lo sportello per scendere, ma lui mi fermò e mi baciò. Sono passati due anni da allora. Dopo quella sera cominciammo a vederci sempre più spesso. Lui restava in paese solo due volte la settimana a casa del suo lavoro, ma passavamo insieme quelle quarantotto ore. In questo momento sono affacciata alla finestra, guardo tuo padre giocare con te, Thomas, e il nostro cane Charlie. Tutti i miei sogni si sono realizzati. Tuo padre è un uomo meraviglioso, un padre stupendo e premuroso.Lo amo follemente,e follemente amo te. Le persone che per me sono più care, adesso, non siete solo due. I Watson sono persone adorabili, e dei nonni splendidi saranno per te.
Ricorda Tommy, che tutti i sogni si possono realizzare. Non perdere mai la speranza. Lotta per quello in cui credi. Sii sempre pronto a rimboccarti le maniche. Non avere mai paura che il futuro non ti offra niente, sei tu che costruisci la tua vita. Sei tu che decidi come dovrà essere. Io ho avuto tanta fortuna nella mia vita...me ne vado senza nessun rimpianto. Non piangere mai pensando a me, sorridi sempre. Io lo farò dall'alto."

Questa lettera fu scritta il giorno del primo compleanno di Thomas.
Dietro riportava la scritta " Per i tuoi diciotto anni".
Anna morì pochi giorni dopo a causa di un tumore.

   
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