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 UNA NOCHE EN LA HABANA
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Renato Attolini
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Inserito - 24/03/2004 :  00:12:31  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Renato Attolini Invia un Messaggio Privato a Renato Attolini

Una Noche en la Habana

Le prime ombre della sera cominciavano a calare, prendendo il posto dello sfolgorante tramonto rosso che alla guisa di un tocco tenue di pennello colorava le case e le vie dell’Avana. Mi trovavo seduto sul parapetto del Malecon, il famosissimo lungomare della capitale cubana, ammirando quello spettacolo che già avevo visto altre volte ma che sempre mi toglieva il fiato. Alle mie spalle le onde del mare s’infrangevano sugli scogli e leggeri spruzzi d’acqua mi bagnavano la schiena, senza assolutamente infastidirmi, anzi regalandomi una piacevole sensazione di benessere in uguale misura dell’aria calda ed umida che respiravo a fondo, riempiendomi i polmoni e lasciando che pervadesse tutto il mio corpo. Davanti a me una fila di palazzi dell’era coloniale risalenti alla dominazione spagnola mostravano i segni dell’usura e dell’abbandono. Sicuramente avevano conosciuto tempi migliori ma, nonostante ciò, non potei fare a meno di sorridere pensando che in questa città anche le rovine acquistano un fascino del tutto particolare. L’Avana è decadente, ma è bella, anzi stupenda, anche per questo. Quest’agglomerato di milioni di persone appartenenti a razze diverse, dichiarato “patrimonio universale” dall’UNESCO si preparava alla quotidiana celebrazione del suo rito più consacrato e conosciuto: la Notte! Il Malecon si andava animando sempre di più, popolandosi di coppiette teneramente abbracciate ma maggiormente di splendide ragazze nere, mulatte, bianche, qualcuna con capelli di un biondo improbabile e sospetto, vestite d’aderentissimi pantaloni a strisce e di variopinti top che mostravano gli slogan più disparati. Vecchie Pontiac e Cadillac, abbandonate dagli americani in fuga negli anni ’50 e risistemate in qualche maniera, sfrecciavano nei viali prospicienti con le radio a tutto volume e le note di ballate all’insegna della salsa e del merengue si diffondevano gioiosamente nell’aria. Che differenza, pensavo fra me, con quel “zichetun, zichetun, zichetun, bum bum” sparato dagli stereo delle modernissime auto dei giovani di casa nostra.
Mi godevo quei momenti con un misto di sensazioni differenti a metà fra una profonda pace interiore e una sottile euforia che s’impadroniva di me come se mi fossi scolato un’intera bottiglia di champagne francese d’ottima marca o mi fossi fumato “qualcosa”.
Niente di tutto questo: era l’aria dell’Avana che mi produceva quest’effetto. Nessuna città, nessuna terra al mondo, esercitava questo potere su di me. Ero solo ad estasiarmi, ma un uomo solo a Cuba, non riesce ad esserlo per molto tempo. Una di quelle ragazze, una bella mulatta dagli occhi verdissimi s’avvicinò a me con fare sussiegoso e sfoderando uno sfavillante sorriso, mi cinguettò:
“ ¡Hola querido! ¿Que tal? ¿Estàs solo?”
Ahi!, dissi fra me, manovra d’agganciamento cominciata. E’ la classica tattica del corteggiamento sperimentata in tutto il mondo, solo che a Cuba è a parti invertite. Conoscevo perfettamente la scaletta: avrebbe cominciato a chiedermi di dov’ero, se ero sposato, se era la prima volta che venivo in quei posti e poi avrebbe finito dicendomi che ero proprio un bell’uomo e che piacevo molto. Ero conscio della bugia, come del fatto di non assomigliare a Richard Gere neanche a cento metri di distanza, visto di spalle in una notte di nebbia e che se al posto mio ci fosse stato un novantenne anche malconcio probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Divertito, decisi di stare al gioco e le risposi nel mio spagnolo passabile:
“¡Claro que si! ¡Estoy solo! ¿Y tu?
“¡No, ahora no! ¡Estoy contigo! ¿O no? ¿De donde vienes?”
“¡Claro!¡Tu estàs conmigo! Soy italiano. ¿No te parece?”
“Ah, italiano!” Il suo tono si fece ancora più mellifluo e continuò a parlarmi nella nostra lingua, anche abbastanza correttamente.
“Adoro gli italiani. Sono così bravi, simpatici, così simili a noi cubani.”
“Si, certo come no!” risposi ridendo ironicamente “Lo dicono anche i greci, ma è un’altra faccenda.”
Sembrò non capire la sottigliezza, ma non le diede importanza. Poi la guardai negli occhi ed a bruciapelo le chiesi:
“ Sei una jnetera?”
Le jneteras sono così chiamate le ragazze che “accalappiano” i turisti a Cuba, che si accompagnano a loro in cambio di vitto, alloggio e regalini vari, non ultime banconote statunitensi di vario taglio. E’ un fenomeno che chiamarlo prostituzione potrebbe essere riduttivo e forse anche ingiusto. N’è una versione, se vogliamo, condotta con criteri meno squallidi e freddi e più esotici, più “caraibici”. Di certo queste ragazze non sono ben viste dalle loro coetanee. Il termine tradotto letteralmente significa “cavallerizze”. Il senso è facilmente intuibile.
La vidi irrigidirsi. Il sorriso scomparve dalle sue labbra e nella sua voce non v’era più traccia di cordialità mentre un’ombra passò sul suo volto.
“A te cos’importa? Ti ho forse chiesto qualcosa? Solo perché vieni dall’Italia, dall’Europa o chissà diavolo dove, ti credi in diritto di giudicare coloro che non sono come te? Cosa ne sai tu di Cuba, di noi. Credi di conoscerci solo perché vieni qua a fare lo sbruffone in vacanza. Ti credi tanto superiore a noi? E perché poi? Si forse sono una jnetera o forse no, ma tu di certo sei uno st….!”
I francesi direbbero: touché! Ma qui è più giusto dire: colpito ed affondato! L’avevo ferita, non c’era dubbio e la sua reazione era pienamente giustificata. Si voltò facendo ondeggiare i suoi meravigliosi capelli neri e fece l’atto d’andarsene. Mi sentii un verme, un cafone e avvampai per la vergogna. La presi per un braccio.
“Lasciami!” gridò lei facendo voltare i passanti, tentando di divincolarsi. Pur imbarazzato non mollai la presa e bloccandole l’altro braccio la guardai dolcemente in viso:
“Perdonami” sussurrai “sono stato un villano, un mostro d’insensibilità! Ricominciamo daccapo, vuoi?”
Il suo volto rimase serio, ma quantomeno non andò via e non cercò di liberarsi.
Non so perché, veramente, mi venne in mente di parlarle in Inglese:
“Could we start again, please?”
Lei si lasciò andare ad una risata liberatoria e mi sembrò ancora più bella.
“Anche se immagino cosa tu abbia voluto dire, non parlo inglese, cocudo!”
“E’ un’ottima occasione per impararlo! Sarà mio piacere insegnartelo!” le dissi e dandomi un’aria importante e prendendola sottobraccio proseguii:
“Sempre che la signora mi voglia onorare della sua compagnia per questa sera!”
“¡Con mucho gusto! ¡Vamos! Vorrà dire che per le lezioni d’Inglese ti farò uno sconto” replicò lei un po’ sarcasticamente ma ormai rasserenata del tutto.
Touché per la seconda volta ma in questo caso non me n’ebbi a male.
Ridendo tutti e due come bambini felici c’incamminammo verso il cuore dell’Avana che, impaziente ci stava aspettando ed era già pronta ad accoglierci. Non potevamo più perdere tempo!
Fu l’inizio di una notte fantastica! Anche stavolta l’attesa non fu delusa e la città diede il meglio di se stessa. La prima tappa fu un ristorantino “particular” un “paladare” così chiamato, gestito da privati (che si traduce appunto “particular”), da famiglie all’interno delle loro case. Gustammo “arroz con frioles”, “patas” e “camarones” nonché una bell’aragosta alla griglia bevendo non mi ricordo quante lattine di “Hatuey” una birra locale e spendendo il corrispettivo di due pizze in Italia.
Ci catapultammo nelle strade cittadine, tra la folla festosa e vociante mentre una musica allegra usciva dalle finestre delle case. Quasi correndo entrammo nel “Palacio de la salsa” intanto che un’orchestrina suonava e cantava: “¿Ah, porqué llorar? ¡Es la vida un carnaval!” Perché piangere, la vita è un carnevale! Gente intorno a noi ballava freneticamente la salsa ed io non riuscivo a capire come facessero in quella calca ad eseguire correttamente i passi della danza. Buon per me, mi dissi, dato che come ballerino ho la grazia e l’agilità di un tronco d’albero secolare. Almeno non si sarebbe notata la mia goffaggine. Errore! La ragazza se n’accorse e vedendomi nel mio penoso tentativo di ballo scoppiò a ridere fragorosamente. Tutti si divertivano, l’atmosfera era incandescente ed eccitante ed anche noi lo eravamo, complici anche qualche “Cuba libre” e dei bicchierini di rum liscio invecchiato al punto giusto.
Dopo qualche ora uscimmo all’aria aperta, la notte era ancora giovane e l’Avana non dava segni di stanchezza. Passeggiammo mano nella mano e senza volerlo ci ritrovammo ai piedi della statua del Cristo che domina la città.
Un aspetto dei cubani che sempre mi ha colpito è il profondo senso religioso che li distingue. Sono un popolo amante del divertimento folle, senza freni inibitori, “epicureo” se così si può dire, ma questo non contrasta minimamente con la loro fede, che ancora adesso non possono manifestare completamente. C’erano altre persone oltre a noi ed un silenzio profondo ed irreale ci faceva da contorno. La ragazza guardò la statua del Cristo, si fece il segno della croce e si raccolse in una brevissima preghiera. Io, non praticante quasi agnostico, fui toccato da quella scena. Poi quando ebbe finito si voltò verso di me, sorridendomi.
“Sai una cosa curiosa?” le dissi “Non so neanche come ti chiami?”
“Ha importanza? Se è per quello neanch’io so il tuo! ” rispose lei “Comunque mi chiamo Yamilka e tu?”
“Renato” le risposi e poi senza rendercene conto ci ritrovammo uno fra le braccia dell’altro scambiandoci un bacio dolce e casto sotto lo sguardo benevolo della statua.
Tornammo indietro camminando abbracciati, senza più dire una parola fino a che non raggiungemmo un portone.
Lei si fermò e guardandomi negli occhi mi disse:
“Io abito qui.” E poi spiazzandomi completamente proseguì: “Non ti dirò frasi alle quali sarai senz’altro abituato. Non ti dirò che per me è la prima volta che lo faccio con un turista, tanto non mi crederesti. Non ti racconterò bugie che ti farebbero solo ridere o indispettire. Ti dirò solo che <tu me gustas mucho, de verdad>, tu mi piaci veramente! Adesso, vieni!”
Salimmo le scale che conducevano al suo piccolo appartamento. La notte non poteva concludersi diversamente. Ciò che accadde dopo mi fa venire in mente una canzone di tanti anni fa, della mia gioventù di, mi sembra, Renato (toh, che coincidenza!) dei “Profeti”:
<Quella notte ho provato le cose che mai più proverò!>
L’alba cubana filtrava attraverso le persiane trovandoci addormentati profondamente.
La pace fu rotta dallo squillo di un cellulare.
“Uffa!” mi dissi “Chi è che rompe a quest’ora?” Cercai a tastoni il mio telefonino ma non lo trovai. Poi mi ricordai d’averlo lasciato in Italia, per non essere disturbato. Doveva essere quello di Yamilka, allora.
“Yamilka, tesoro!” la chiamai sbadigliando “Ti cercano al telefono”.
Lei con voce impastata di sonno, bofonchiò:
“Impossibile, mi amor. No tengo celular.”
Il trillo si fece più insistente, fastidioso. Diamine, ma di chi era? Poi capii, non era il cellulare. Era una sveglia. Aprii gli occhi e vidi un numero lampeggiante.“06.00”. Mi guardai intorno: la mia stanza, quella di tutti i giorni, il mio letto nel quale c’ero solo io, mi diedero il buongiorno. No, non era per niente un buongiorno. Lo specchio del bagno rifletté l’immagine di un volto stanco, segnato da una profonda delusione. Il sogno era stato bellissimo, ma il risveglio, il ritorno alla realtà era stato terribile. Compii i gesti di sempre, più meccanicamente del solito.Vestito di tutto punto, giacca e cravatta arrivai alla stazione dove mi aspettavano i miei abituali compagni di viaggio. Salii sul treno che mi portava nella metropoli e sedetti ascoltando i loro discorsi come se provenissero da un altro pianeta, con un suono ovattato: il campionato di calcio, il caso Parmalat, i programmi televisivi. Guardai fuori dal finestrino triste ed assorto: il treno fendeva la campagna, toccava le cittadine lombarde immerse nello smog mentre s’intravedevano strade intasate d’auto e gigantesche torri di fumo. Le immagini del sogno, così nitide, reali, si stagliarono nella mia mente. Gli occhi mi si inumidirono.
“Ehi, Renato” mi apostrofò un amico “Cos’hai combinato stanotte? Hai una faccia così strana?”
“Ho fatto un giretto per l’Avana.” risposi in uno stato di trance.
Mi guardò perplesso, senza capire.

   
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