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 Il Paradiso di Allah
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lucia guazzoni
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Inserito - 09/01/2004 :  19:12:17  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a lucia guazzoni

IL PARADISO DI ALLAH

Kaleb salì sull’autobus tenendo gli occhi fissi a terra, il caldo lo faceva sudare e il vociare della gente lo distoglieva. Spinse senza badare a nessuno e raggiunse il centro dell’autobus affollato fino all’inverosimile; il suo cuore cantava lodi e la sua mente era tutta concentrata su ciò che doveva fare, senza ascoltare nessuno, senza vedere il sole, senza sentire i profumi, gli odori della gente intorno a lui.
Appena l’autobus partì, traballante, Kaleb formulò una invocazione per l’ultima volta e tirò la cordicella, tutta la sua vita preparata a quell’atto che l’avrebbe portato nel Paradiso di Allah. Gli avevano assicurato che non avrebbe sentito dolore e, in effetti, non sentì proprio nulla. Ci furono attimi, momenti di buio, di silenzio intorno a lui, di risucchio verso l’alto e poi più nulla. Quando riaprì gli occhi vide, lontana davanti ai suoi occhi, una enorme polla di luce, talmente luminosa che faceva fatica a fissarla. Kaleb si guardò, era esattamente come quando era salito sull’autobus ma senza la borsa appesa al collo. Intorno a lui non c’era nessuno, solo nebbia abbastanza fitta e quella luce accecante che ammiccava lontana, come a prenderlo in giro. Per un attimo pensò di avere fallito, la bomba non era scoppiata e lui ora si trovava in una prigione israeliana; si raddrizzò con fierezza, non avrebbe parlato, non avrebbe rivelato chi erano i suoi mandanti, dove aveva preso l’esplosivo, dalla sua bocca non sarebbero uscite che lodi ad Allah. Peccato, però, era convinto di aver portato a termine il suo incarico. Mosse un paio di passi, con circospezione, voleva capire se c’erano guardie che lo sorvegliavano, se c’erano muri, ma i suoi piedi andavano da ogni parte, senza restrizioni e intorno a lui non c’era nessuno. Che strana prigione! Kaleb sedette a terra ed attese, gli occhi fissi a quella luce lontana, così invitante, così calda e dorata. Gli dava gioia solo guardarla e tristezza per non poterla raggiungere, quasi pena. Il tempo passò. Kaleb non sapeva quanto. Ore, giorni, nessuno si muoveva intorno a lui e il silenzio era compatto, la nebbia fitta e appiccicosa, la luce sempre invitante e lontana. Poi, ad un certo punto, si accorse di non essere più solo e balzò in piedi di scatto, pronto a difendersi. Ma la figura seduta a terra accanto a lui era innocua: un uomo non più giovane con il viso stanco e gli occhi tristi che lo guardava, senza parlare. Kaleb corrugò la fronte nello sforzo di ricordare, di identificare l’uomo e poi, con un grido, gli si inginocchiò davanti.
- Mustafà Alì, maestro! Come mai sei qui? Dove siamo? Allora non sei morto, anche tu sei stato preso prigioniero!
Gli era sembrato di parlare, di gridare, ma nessun suono era uscito dalle sue labbra, anche se sapeva esattamente cosa avrebbe voluto dire.
L’uomo invitò con un gesto il giovane a sedere accanto a lui. Non sembrava invecchiato, in quegli anni. Kaleb lo ricordava certamente più ardente, più vivace, ma una lunga prigionia può fiaccare chiunque e lui ancora non sapeva a cosa era stato sottoposto il suo maestro. Era stato lui che lo aveva iniziato prima al Corano e poi alla lotta, in nome di Allah. Ed era stato lui, Mustafà Alì, uno dei primi a sacrificare la sua vita per la causa, imbottendosi di tritolo e facendo saltare in aria un ristorante. Kaleb lo guardò, non sembrava nemmeno ferito, anche per lui, dunque, l’esplosivo aveva fatto cilecca e si ritrovava lì, in mezzo alla nebbia, in quella strana prigione senza mura e senza soldati e senza suoni. Disse, più gentile.
- Da quanto tempo sei qui, maestro? E cosa ti hanno fatto?
L’uomo sorrise appena, un pallido sorriso.
- Nessuno mi ha fatto nulla, Kaleb. Tutto quello che succede l’ho fatto da solo, come per te.
Il giovane lo guardò, il maestro doveva essere fuori di senno.
- Cosa vuoi dire? Cosa ti sei fatto da solo?
- Siamo prigionieri, Kaleb. Prigionieri di noi stessi.
- Ma… dove sono i soldati?
- Qui non ci sono soldati. E nemmeno mura, catene. C’è solo quella luce, la vedi? E noi non possiamo raggiungerla.
Kaleb continuava a non capire.
- E’ importante raggiungere quella luce?
L’uomo sorrise di nuovo.
- Oh sì, molto, molto importante! Vedi, Kaleb, quella luce e’ il paradiso di Allah!
Il giovane guardò di nuovo la luce, sembrava pulsante, cangiante, viva. Sì, non esitava a credere che dentro ci fossero le Uri e i giardini del paradiso, forse, se stava bene attento, poteva persino assaporarne i profumi, udirne i suoni. Disse, quasi timoroso.
- Ma, se non siamo morti, non riusciremo mai a raggiungerla, maestro!
Mustafà Alì scosse il capo, gentile.
- Kaleb, figlio mio, noi siamo morti.
Kaleb cercò di assimilare le parole, di capirle. Erano morti? Tutti e due? Ma allora… tradusse in parole il suo pensiero, un pensiero che gli dava fastidio.
- Ma, se siamo morti, dove siamo?
L’uomo scosse di nuovo il capo, sembrava rassegnato.
- Non lo so. So soltanto che non possiamo raggiungere la luce. Che ci è negato. Che siamo in punizione.
Un brivido percorse il corpo di Kaleb che balzò in piedi, guardandosi intorno, il concetto non gli era ancora chiaro, ma sentiva la paura serpeggiare dentro di lui. Disse, la voce strozzata, quella voce che “immaginava” soltanto, che non usciva!
- Ma, se siamo morti…. se quello lì in fondo è il paradiso di Allah e noi non possiamo andarci… allora è vero il Dio dei miscredenti?
Lo disse abbassando la voce, era una domanda troppo sconvolgente, troppo terrificante. Tutto il suo credere, tutta la sua concezione di vita si capovolgeva, si dileguava, diventava polvere e lo lasciava orfano, derelitto, senza più fede, se erano prigionieri di un dio che non era Allah! Se quel Dio aveva la potenza di tenerli lontani dal paradiso di Allah! Se era più forte di Allah! Un singhiozzo gli chiuse la gola, ma Mustafà Alì disse, tranquillo.
- Qui non c’è il Dio dei miscredenti. Se ci fosse, noi saremmo già a bruciare in un inferno di demoni deliranti.
Kaleb si sentì un po’ meglio, era vero, il Dio dei miscredenti era un Dio vendicativo, dava punizioni sia in vita che in morte e loro certamente non sarebbero stati sani e seduti tranquillamente a chiacchierare se fossero caduti nelle Sue mani, non dopo aver commesso delle stragi, come sembrava fossero riusciti a fare.
- Ma allora, che Dio c’è?
Mustafà rimase in silenzio a lungo, lo sguardo fisso a quella luce che sembrava deriderli.
- Non lo so. Non so nemmeno se c’è un Dio. So soltanto che, seduto qui a meditare, a osservare quella luce che so contiene la felicità, penso a me stesso e capisco che, se sono qui, l’unica colpa è mia. Siedi, Kaleb, siedi accanto a me e medita con me.
Kaleb sedette, riluttante.
- Maestro, noi non abbiamo nessuna colpa! E se vogliamo raggiungere quella luce, non dobbiamo fare altro che metterci in cammino! Ci vorrà del tempo, ma la raggiungeremo!
- Non è così facile, Kaleb. E le colpe che abbiamo sono tante, sia tu che io. Forse più io di te. Io ho contorto la tua mente giovane, io ho distorto i tuoi pensieri, io ho deviato il tuo cuore e allora la mia colpa è doppiamente più grande. Ma anche tu hai delle colpe.
- Non ho colpe, ti dico, maestro! Ho eseguito gli ordini, ho pregato Allah, ho colpito i nemici, sono morto da eroe! La mia famiglia sarà orgogliosa di me, le generazioni future parleranno di me, del mio gesto e per merito mio decine di nemici sono morti! Non ho colpe, davanti ad Allah!
- E se Allah non fosse che una parola? Che un’immagine inventata? Che colpe avresti, allora, per avere ucciso decine di innocenti?
Kaleb sobbalzò, non si sarebbe mai aspettato che il suo maestro dicesse una cosa del genere. Ripetè, cocciuto.
- Io non ho ucciso innocenti! Io ho ucciso nemici del mio popolo, nemici di Allah! E Allah non può essere solo una parola senza consistenza, da secoli uomini ben più istruiti ed intelligenti di me lo pregano e lo adorano, quindi esiste!
Mustafà Alì scuoteva la testa, lentamente, quasi divertito.
- Non ho più le certezze che hai tu, figlio mio. Ho soltanto dubbi. E ogni momento che passa i dubbi diventano sempre più atroci, il peso delle mie colpe sempre più pesante.
Kaleb si chinò a scuoterlo, gli faceva quasi paura.
- Maestro, sei davvero qui da quando… da quando hai messo la bomba? E non è mai venuto nessuno?
L’uomo lo guardò, calmo.
- Sono sempre stato qui, da quando è scoppiata la bomba. No, non è mai venuto nessuno.
- Ma cosa dobbiamo fare, allora?
C’era disperazione nella giovane voce e Mustafà Alì chinò il capo, sconfitto.
- Non lo so.
- Preghiamo Allah! Se davvero in quella luce c’è il suo giardino delle delizie, ci sentirà e verrà a prenderci!
- Ho provato a chiamarlo, ma non è venuto. Anzi, quasi mi sono sentito ridicolo a chiamarlo, come se sapessi che non verrà nessuno ad aiutarci.
- Proverò io!
Con impegno Kaleb si inginocchiò e intonò le preghiere, era certo che ne avrebbe provato conforto, che Allah avrebbe visto la sua fede e gli sarebbe venuto incontro. Ma, come aveva detto il suo maestro, dopo un poco sentì che la sua voce svaniva, inghiottita dal silenzio e che dal cuore non gli saliva più nulla, se non il vuoto di quello strano mondo nebbioso. Così, con la disperazione che gli serpeggiava addosso, sedette di fianco al suo maestro, aspettando qualcosa di terrificante che, lo sentiva, sarebbe venuto.
Non si accorse del tempo che passava, forse lì non c’era tempo. Davanti agli occhi gli passavano episodi della sua giovane vita, il sorriso di sua madre, i volti ridenti dei suoi fratelli minori; e poi immagini di odio, di astio, di vendetta, i sassi che volavano, le urla, le facce contorte intorno a lui, facce che somigliavano alla sua. Poi cominciò a vedere il sangue. Sembrava una marea che saliva, un lago che si espandeva, veniva lentamente verso di lui, un lago di sangue dove giacevano corpi straziati, visi stravolti nella morte, e dal silenzio salivano urla laceranti, pianti, un dolore talmente grande che si sentì oppresso, soffocato. Balzò in piedi, il sangue era quasi ai suoi piedi, gocciolava dalle sue mani, gli appiccicava i capelli.
- Maestro, cosa sta accadendo?
L’uomo sedeva col viso chinato e sussurrò.
- Sono le nostre vittime, Kaleb. Sono tutti quelli che abbiamo fatto morire prima del loro tempo.
Il giovane continuò ad indietreggiare, la ribellione dentro di lui che si mischiava alla sofferenza, al dolore.
- Non posso provare pietà per loro! Sono nemici! Era scritto che dovessero morire!
Ma all’improvviso, tra i volti devastati dalla morte, vide quello di sua madre, dei suoi fratelli e lanciò un urlo, un urlo silenzioso che echeggiò soltanto dentro di sé.
- Hanno ucciso mia madre e i miei fratelli! Maledetti, si sono vendicati!
Mustafà Alì disse, pacato.
- No, figlio, nessuno si è vendicato. Sei tu che li hai uccisi. Guarda, ci sei anche tu tra quei morti.
- Io?!
Kaleb non capiva, si sentiva perduto, confuso.
- Come posso averli uccisi io?
- Ogni nemico che hai ucciso, hai ucciso anche una parte di te. Ora che sei arrivato alla fine, di te non è rimasto nulla e stai cominciando ad uccidere i tuoi cari.
Kaleb guardava l’onda di sangue che continuava ad avanzare verso di lui e sentiva che qualcosa dentro di sé stava cambiando, stava diventando pietà, vergogna, dolore. Cadde in ginocchio, non gli importava più che il sangue lo bagnasse, anzi, provava quasi piacere nel sentirsi macerare da quel sangue che lui stesso aveva versato. Il volto di sua madre era una maschera di tristezza e i suoi fratelli non ridevano più, impegnati a cercare nemici da uccidere. Le lacrime cominciarono a scendergli per le guance, cadendo a mischiarsi col sangue, cadendo come pioggia sui corpi mutilati, sui visi sconosciuti. Kaleb alzò le mani verso la nebbia, doveva esserci qualcuno lassù ad ascoltarlo!
- Oh, Allah, cosa ho fatto? Come ho potuto dimenticare le Tue parole, le Tue leggi? Come ho potuto arrecare così tanto dolore? Ho peccato di orgoglio, ho voluto interpretare a modo mio le Tue parole, Tu che predicavi la misericordia e l’amore! Oh Allah perdonami, perdonami!
Kaleb continuava a singhiozzare, le mani tese a toccare quel sangue, finalmente sentendo dissolversi dentro di sé l’onda di paura, di cieca violenza, di orgoglio, di follia. E pensare che aveva ripetuto mille e mille volte le parole sacre, senza capirle, senza veramente afferrarne il significato. All’improvviso gli sembrò di avere intorno a sé tutti i libri sacri del mondo, di tutte le religioni del mondo, in tutte le lingue del mondo e lui riusciva a capirle tutte, a leggerle tutte: tutte parlavano di amore, di perdono, di convivenza, di crescita interiore. Nessuno di quei libri predicava l’odio, nessuna di quelle parole incitava all’ira, alla violenza. Come aveva fatto a non capire, a non sentire?
Mustafà Alì chinò il capo, la sua colpa diventava di momento in momento più pesante: era stato lui a mistificare quelle parole, lui a confondere quelle giovani menti, lui a interpretare per altri quello che il suo cuore colmo di odio voleva. Guardò Kaleb che si era alzato e, quasi sospeso, si incamminava verso la luce che pulsava. Tese una mano e gridò, lo strazio che gli colmava il cuore.
- Oh Kaleb, figlio mio, non dimenticarti di me, nel paradiso di Allah!
E Kaleb girò il capo a guardare la piccola figura prostrata, il cuore che palpitava di pietà, di misericordia, di gioia, di ardore. Il sangue non era più su di lui, i visi intorno erano svaniti, i suoi occhi non vedevano altro che la luce immensa che si avvicinava, velocemente.
Kaleb spalancò le braccia, accogliendo quella luce dentro di sé, mentre la sua mente si innalzava sopra a tutto e tutti e cercava, con frenesia, di raggiungere le menti dei suoi compagni, di penetrare nelle loro corazze fatte di odio per far loro arrivare il messaggio: sì, lui stava per entrare nel Paradiso di Allah, ma non dalla porta che si era aperta con una bomba. Stava entrando per una porta che aveva creduto secondaria e che invece era la principale. Stava entrando con l’Amore. E per arrivarci ci aveva messo secoli, rannicchiato nel sangue, soffrendo e lacerandosi come mai avrebbe immaginato di poter soffrire.
Mentre la luce accecante lo avvolgeva, lo disperdeva in mille particelle, facendolo diventare a sua volta luce, Kaleb comprese che Allah non era che una parola, come Dio, come Buddha, come qualsiasi altra divinità creata dagli uomini: lì, in quella luce, c’era la vera Essenza di Dio e lui ne stava diventando parte. Si abbandonò con un ultimo sospiro, morendo finalmente e rivivendo nella luce di un eterno Paradiso.


   
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