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elisabetta
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Inserito - 13/01/2003 :  20:44:13  Mostra Profilo  Visita la Homepage di elisabetta Invia un Messaggio Privato a elisabetta

L’aria era quasi irrespirabile, ti prendeva alla gola e non riuscivi ad inghiottire neppure la saliva. Tutto era infuocato dal sole. Ogni pietra, ogni sasso, ogni rovina era riarsa. Non potevi neppure appoggiarti. Presi dallo zaino la bottiglia dell’acqua e ne buttai giù una sorsata. Salire a piedi era stata una follia. Non avevo più neppure il coraggio di respirare. Mi sembrava quasi di morire.
Eppure ero lì. Ci ero riuscita. Ci avevo messo delle ore, ma ce l’avevo fatta. Ero in cima. Sentivo dentro di me la sensazione di essere riuscita a fare qualcosa per me stessa.
Dopo tanti anni durante i quali mi ero preoccupata solo dei sentimenti altrui e non dei miei. Anni di amori finiti spesso in un modo molto doloroso. Anni in cui avevo sofferto tanto. Anni in cui avevo tentato di dare tanto di me stessa, ma ero stata spesso rifiutata e abbandonata.
Ne avevo fatte di cose ingiuste. Ne avevo avute di storie sbagliate. Almeno a sentire mio padre... La mia infanzia e la mia adolescenza... E poi una vita quasi normale...
Ed ora ero lì in cima a quella fortezza. In un luogo dove credevo di non riuscire ad arrivare con le mie sole forze. Solo con la mia energia. Ero lì e dall’alto della fortezza si vedevano il deserto da una parte ed il Mar Morto dall’altra.
Era tutto così intenso. Il cielo era così limpido e puro. Di un azzurro incredibile.
Appena ripresi fiato mi guardai attorno. C’erano altri turisti. C’erano delle comitive. E c’erano dei soldati. A loro però non riuscivo ad abituarmi. Era così difficile. Anche dove dormivo. Nel kibbutz di Kalia erano dappertutto. E c’era anche il filo spinato con le torrette. Non era un bel modo di vivere -avevo pensato-. Ma non c’erano ancora alternative.
All’epoca il processo di pace era praticamente fermo.
Continuai a guardarmi attorno. Il palazzo di Erode. La rampa romana dell’inganno. E la morte. La sentivo quasi ovunque. Era una sensazione molto forte. Anche se era per la libertà. L’unico bene per cui vale la pena di morire...
Ad un tratto un frastuono quasi insopportabile distolse la mia attenzione dalla rampa romana che stavo osservando dall’alto. Erano due aerei neri che, come grossi uccelli, pattugliavano il territorio di confine. Li fissai attonita per alcuni secondi. Mi accorsi però che mi davano un grande senso di forza e di sicurezza.
Poi tornai ai miei pensieri. Ero nel luogo del più grande suicidio collettivo della storia. Ero a Masada.
Avevo sempre sognato di venire qui. Di essere immersa in questa storia. Per lungo tempo mi ero preparata emotivamente a questo viaggio. Ma era solo un viaggio?
All’improvviso qualcos’altro interruppe le mie riflessioni. Era un pianto. O almeno sembrava il pianto di un bambino. Mi sembrò strano all’inizio. Il sospetto e l’inquietudine con cui da poco avevo iniziato a convivere mi avevano reso un po’ diffidente.
Ma poi mi accorsi che c’era una certa agitazione attorno a me. C’erano alcune persone che urlavano qualcosa in ebraico. Era un nome. Eliah...
Sentii di nuovo quel pianto sommesso. Quasi soffocato. Doveva essere vicino, pensai. Iniziai a guardarmi attorno. Dove sarebbe potuto cadere un bambino un po’ curioso? Dove... Forse in una delle cisterne romane. Quelle per l’acqua...
Presi immediatamente la carta del sito, che avevo con me e cercai subito la cisterna più vicina. Man mano che mi avvicinavo però il pianto era sempre più debole. Eppure ero sicura dentro di me che quella era la direzione giusta. Lo sentivo.
Mi avvicinai al bordo della cisterna più vicina. Mi allungai verso il basso e lo vidi. Ma non piangeva quasi più. Non riuscii neppure a capire subito se si muovesse oppure no. La cisterna era troppo profonda.
Mi guardai attorno. C’era una scala in ferro, chiusa da un cartello, che diceva di non avvicinarsi, perchè era pericolante. Ma evidentemente il piccolo non l’aveva letto o non l’aveva visto.
Lasciai lo zaino in superficie e scesi piano piano, facendo molta attenzione. La scala era instabile e si muoveva tutta ad ogni mio passo. Avevo paura nello scendere. Forse perchè soffrivo un po’ di vertigini...
Gli arrivai accanto. Per fortuna era ancora cosciente. Non era svenuto come temevo. Lui sentì subito la mia presenza, perchè si avvinghiò letteralmente a me. Aprì gli occhi chiari e mi fece un debole sorriso. Mi disse poi fra le lacrime, che gli faceva male la gamba. Che forse si era rotta. Dovevo riportarlo su...
Intanto qualcuno in superficie si era accorto del mio zaino abbandonato vicino al bordo della cisterna. Sentii delle grida. Sentii qualcuno che diceva di stare lontani. Che poteva essere un attentato... Improvvisamente mi resi conto di dove fossi. Ero in un paese dove uno zaino abbandonato poteva essere considerato un pericolo... Una minaccia...
Urlai in ebraico la prima cosa che mi venne in mente. Urlai e basta. Richiamai la loro attenzione. Dei soldati corsero verso di noi e scesero giù a prenderci.
Osservai attentamente quell’uomo che era sceso a prendere Eliah. Lo osservai mentre con grande dolcezza prendeva il piccolo dalle mie braccia e lo stringeva a se. Lo guardai ancora più attentamente quando risalimmo in superficie.
Era alto ed abbronzato. Il sole caldo quasi si rifletteva sulla sua pelle dal colore dell’ambra. Era sulla quarantina o forse più. Il suo fisico era magro e asciutto, i suoi capelli erano neri e spettinati. Il suo volto era strano, ma attraente. Il suo naso un po’ aquilino, i lineamenti duri, gli occhi scuri e profondi, venati da una certa malinconia. E la divisa dell’esercito israeliano gli donava... Pensai per un attimo di vedere quasi un miraggio.
Ma invece era lì. Mi fece un sorriso quasi impercettibile e mi avvisò subito che uno zaino abbandonato in quel modo... beh! Non era seriamente il caso... Non lì almeno... Poi mi ringraziò e se ne andò con il piccolo Eliah fra le braccia.
Mentre si allontanava, portando il bambino con sé, si girò per un attimo e mi sorrise di nuovo. Ma era un sorriso diverso. Era enigmatico. Incomprensibile. Forse un po’ sfuggente.
Mi colpì quell’incontro. Mi fece ripensare a mio padre. Aveva la stessa tenerezza verso Eliah che mio padre aveva avuto per me pochi anni prima, quando ci eravamo lasciati. Quell’immagine così luminosa, ma così strana...
Quell’immagine che in quel modo così immediato, così ineluttabile era entrata forzatamente nella mia mente... e in quel luogo... che da quel momento in poi mi avrebbe ricordato lui. Quell’uomo in divisa così seducente. Con quel sottile fascino mediorientale...


elisabetta

   
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