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 BAR DU CHAMPS JACQUET
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francobrain
Villeggiante



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Inserito - 17/10/2003 :  15:22:51  Mostra Profilo  Visita la Homepage di francobrain Invia un Messaggio Privato a francobrain
Seduto in un un bar all'aperto, fingo di leggere il quotidiano. Ogni tanto sorseggio il pastis (ieri era il caffè; l'altro ieri la pessima birra francese) e getto un'occhiata ai soleggiati paraggi. Automobili, passanti di tutte le razze, l'anziana fioraia sull'altro lato della strada: ogni cosa è estranea, remota; come questo giornale che parla la lingua della mia terra d'origine.
Sarà un mese che mi trovo qui e già l'Italia mi appare come una fiaba antica. Il presente è un delirio con troppe vocali accentate, il futuro un buco nero.
Conosco tuttora il mio nome, ma non so più pronunciarlo bene. Non so parlare, non so tacere; mi è impossibile spiegare come mi sento. Mi sento bene. Mi sento bene e sono triste: perché son morto.
Sono un morto che è fuggito per scommessa - o per far dispetto agli amici - in una città merovingia che mai mi apparterrà e a cui già appartengo.
Arriva la cameriera, mi chiede se tutto va bene e lancia un'occhiata di stizza al mio bicchierino sempre semipieno. Si sforza di ricambiare il mio sorriso e due rughe le si disegnano ai lati della bocca. Osservo i suoi fianchi vellutati mentre fa la gimkana tra i tavolini, quindi apro il giornale alla pagina culturale, come per voler dimostrare a me stesso chissà che cosa.
Mi muovo, consumo, getto ombra... ma son morto, decisamente. Non so parlare, non so scherzare, non so dire come mi sento. Sprofondato in voci straniere, risollevo lo sguardo soltanto quando mi si appressa il vecchio Alain. È un pensionato molto dimesso, quasi un clochard. Non conosco il suo vero nome, ma assomiglia ad Alain Delon versione "last days". Forse è proprio lui.
Mi si siede davanti e, come al solito, si mette a concionare su Dio e sul mondo.
Torna la cameriera. È sempre in movimento; hai l'impressione che ti venga addosso da più direzioni contemporaneamente. Alain ordina un "Musquadet" e la donna si volge verso di me con aria putta, attendendo il mio assenso. Sa bene che dovrò essere io a pagare le consumazioni del vecchio. Faccio un cenno affermativo. Lei emette un sospiro e veleggia all'interno del bar.
Mentre il vecchio verbalizza i suoi ragionamenti, i cani vengono ad annusarmi i piedi, i piccioni volano sulla mia testa... Ma niente e nessuno mi disturba. Io sono pastis e caffè e birra e cane e piccione e giornale. Lascio pure che Alain si sfoghi (ora parla della ragion di Stato, mi pare) e abbasso le palpebre dietro i miei occhiali da sole.
Visualizzo te, Sylvie. I tuoi capelli neri, i tuoi neri occhi: neri come i miei polmoni sotto l'assedio di diecimila Galoises. È un brutto paragone, lo so, ma calza a pennello. (E, per dimostrarlo a me stesso, mi accendo un altro di questi bastoncini cancerogeni.) Non sei bella ma non sei neanche la morte. Avresti potuto colmare il mio vuoto, Sylvie, gettare acqua sul fuoco della mia angoscia, e invece... Lasciandomi, hai dato al mio malessere una nuova connotazione; un sorta di tocco poetico: l'amore andato in fumo dopo un'unica notte, lo specchio che rompendosi moltiplica la tua immagine, un "livre de chevet" che si polverizza al cospetto del mio impacciato sorriso...
Riapro gli occhi sul mio vetusto amico. Mi sta fissando; e ride sguaiatamente, mettendo in mostra i suoi denti falsi. Accenno a un sorriso, sorprendendomi che lui sia ancora saldo dopo tutti questi decenni, che sia ancora colmo di filosofia vetero-marxista e di matta felicità.
- Un altro pastis? - suggerisce la cameriera. Strano: ride anche lei, ora.
- Sì, grazie, Sylvie - le dico, improvvisamente rappacificato con l'universo intero. Sono un giovane molto metafisico, ovvero ignorante delle cose di questo mondo; una figura minata dall'insicurezza che se ne sta assisa su un trono ad affitto; un povero "litterateur" in un bar davanti al Champs Jacquet di Rennes.

franc'O'brain

   
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