Chi sono io, juventina dal lontano ottantadue, folgorata da Boniek, Rossi e Platini sulla via dei mondiali di Spagna?

Li vedevo per la prima volta in televisione tra un Goldrake e un Jeeg robot d’acciaio, confondendo i colori dei calciatori con quelli degli eroi di carta giapponesi, la sfera di cuoio con l’alabarda spaziale e gli avversari con i dischi lanciati da Vega. I mondiali, curioso avvenimento, sembravano solo un gioco, quello che appassionava i maschi a scuola. Ma poi ti accorgevi che doveva essere una cosa ben più seria quando come in un crescendo rossiniano tutti ne parlavano, tutti stendevano bandiere, tutti ne sapevano più di tal Bearzot, fino all'apoteosi della finale, quando dalla tv un compassato commentatore urlava con la voce spezzata di commozione "campioni del mondo!" tre-volte-tre. E al telegiornale interi minuti dedicati al fatto, e immagini ripetute di un vecchio Presidente della Repubblica impazzito di gioia. E fuori il delirio, fino a notte tarda, quella calda notte di luglio, la felicità, la festa spontanea fatta di niente, macchine in coda sul lungomare, auto targate "D" da dove spuntavano tedeschi, felici pure loro anche se non era Oktoberfest. Indimenticabile nella mente di un bambino, tutti quei grandi che diventavano più bambini dei piccoli. Io ne rimasi strabiliata.

Mi chiedevo dove sarebbe continuata la festa. Dove vedere le nuove imprese di Giresse, Rumenigge, Platini, Maradona, Zico, Falcao e Rossi? dove vedere tutti quegli stranieri parlare la stessa identica lingua, quella del calcio? Un breve controllo delle formazioni di serie A e scopro che una certa Juventus, squadra d’antica data, aveva più stranieri di tutti. Tanto bastava all’immaginazione di una ragazzina.

E via allora, da quel momento ho eletto ufficialmente la Juve come squadra del cuore. Certo, mio fratello teneva l’Inter consapevolmente, gli piaceva il calcio, conosceva la formazione a memoria e sapeva bene cosa fosse un fuorigioco, mentre io ancora oggi non lo so. Ma rimango juventina per gioco, per affetto, per inerzia, ma soprattutto per ricordare qualcosa di bello, un gioco dove i grandi tornano come bambini. Era tutto puro, ma qualcosa si è rotto in quel meccanismo, sfilacciato da tempo da troppi soldi e troppi interessi estranei: cose troppo gravi, che trasformano il gioco in un altro “gioco”.

E ora, che ne sarà di noi? di noi juventini, vincitori di routine, ma che a questo ventinovesimo scudetto ci sentivamo così malinconici, tutti... moggi moggi?

Possiamo tornare a sperare che il calcio torni ad essere un gioco?

...“va’ distruggi il male va’... alabarda spazialeeee!”

:-)