Concerto di Sogni
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July
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Inserito - 09/07/2005 :  10:33:40  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a July
Il fuoristrada grigio metallizzato si fermò a parcheggiare proprio dinnanzi all’ingresso della casa, il viottolo scoperto che da diversi mesi Victor meditava di chiudere con un’inferriata; proposito che certo non aveva avuto modo di concretizzare col poco tempo che gli era rimasto a disposizione per sé.
Xana volse repentinamente il capo verso il veicolo, distogliendo l’attenzione dalla ciotola semivuota attorno alla quale stava gironzolando da circa un quarto d’ora, incerta se fosse o meno il caso di mangiarne il contenuto, o meglio ciò che ne restava. Ma di fronte al suo padrone che rincasava, il problema svanì, perché com’era sua abitudine fare, la cagnetta cominciò a fargli festa non appena egli fu sceso dall’auto. Victor avanzò, intirizzito dentro i jeans ed il piumino blu, e accolse le effusioni di Xana carezzandola sul dorso per qualche istante. Era molto affezionato a lei, specie da quando essa era l’unica compagnia ad essergli rimasta. Gli sembrava che ci fosse troppo freddo perché stesse fuori tutto il giorno. Erano solo gli inizi di novembre, eppure non ricordava un altro novembre, in vita sua, che fosse stato così gelido, e mai uno che avesse col suo arrivo tinto il cielo di un colore così cupo. Proprio due giorni prima, parlando con Mary Ellen, le aveva fatto notare la particolare sfumatura dell’atmosfera; un grigio spento, più spento ancora di quanto di per sé il grigio potesse esserlo, ma Mary Ellen gli aveva risposto che non le sembrava affatto, che era solo una sua impressione. Se il cielo gli sembrava particolarmente grigio era senz’altro perché per lui era il primo autunno senza Vera.
Chinato a carezzare Xana, Victor sorrise ai suoi occhi ridenti, che sembravano quasi parlare. A volte aveva la sensazione che la cagnetta capisse, che fosse consapevole del dolore che strava provando. E che, fedele a lui, volesse consolarlo, stargli vicina affinché per qualche minuto cessasse la corrente traditrice dei suoi tristi pensieri, che inevitabilmente conducevano a Vera. Vera, che aveva messo il veto affinchè Xana potesse entrare in casa. Ma adesso Vera era morta, e non c’era alcun motivo di seguire tale regola. Victor decise che d’ora in poi Xana sarebbe entrata in casa, e avrebbe dormito al caldo. Se la notte non fosse riuscito a prender sonno perché nella mente continuava a scorrere incessante la pellicola dei ricordi di lui e sua moglie insieme, si sarebbe sdraiato in poltrona con Xana disteso sulle gambe che gli teneva compagnia mentre guardava il televisore. E se la mattina Xana l’avesse svegliato di buon’ora venendo a grattare con le unghie la superficie della porta della sua stanza da letto, avrebbe evitato di alzarsi col pensiero di trovarsi da solo in casa. In quella casa che da un po’ di tempo gli sembrava grande, troppo grande per l’esiguo spazio di cui egli necessitava.
“Forse la vendo.” Aveva detto a Mary Ellen, lo stesso giorno che le aveva detto del cielo grigio.
Ella aveva sgranato gli occhi, poggiando sulla superficie del tavolo la tazza di thè che aveva in mano, e gli aveva domandato: “Che cosa? Spero non Xana, perché Vera…..”
“No, non Xana. – aveva interrotto lui. – La casa.”
Dopo un attimo di sollievo quando aveva sentito che non voleva vendere Xana, Mary Ellen aveva nuovamente sgranato gli occhi – ancor più della volta precednte, tanto che Victor temette che le dovessero schizzar fuori dalle orbite – e con un filo di voce aveva chiesto: “Tu…vuoi vendere…la casa?”
“Ti sconvolge tanto la notizia?”
“Ma….ma…ma non puoi farlo! – aveva protestato la ragazza, quasi che Victor avesse minacciato di vendere la sua, di casa. – C’è tutta la vostra vita qua dentro.”
“Hai ragione – un ombra malinconica si era stesa sugli occhi di Victor, come una nuvola che d’improvviso copre il cielo sereno – Ma non mi serve una casa così grande. Sono solo, ormai.”
Aprì la porta, e si accorse, un po’ divertito, che Xana esitava a entrare. Evidentemente aveva capito, ma fu altrettanto brava nel capire il significato del gesto di Victor, quando egli con la mano la invitò a entrare. Così, Xana varcò la soglia di casa Clark, e da allora quella fu anche la sua casa.
La prima cosa che fece fu la perlustrazione della cucina, mentre Victor portava su la legna per accendere il fuoco. Sopra il mobile del televisore, al lato dello schermo, c’era un portafoto con la cornice in legno; la foto ritraeva Vera in cortile due anni prima, in una giornata di neve, che rideva di fronte all’obiettivo, con i guanti, la sciarpa, ed in testa la cuffia. Aveva il naso rosso, e la frangetta bionda dalla cuffia scappava sulla fronte; Victor ricordava che stava ridendo perché poco prima di scattare le aveva detto che il suo naso era come un termometro: quando la temperatura scendeva sotto lo zero diventava color porpora. Vera aveva trovato la battuta molto divertente.
Xana si fermò a guardare la foto della sua vecchia padrona, poi continuò il suo giro, rasentò la credenza, il passavivande e si ritrovò vicino al camino. Se fosse stata alta come un uomo avrebbe visto che anche sulla superficie del camino c’era una foto, e questa volta ritraeva non Vera da sola ma vera e Victor, d’estate ai piedi del lago, vestiti come due pescatori e col sole che bruciava loro la pelle. Era stata scattata l’estate successiva alla foto di Vera sulla neve, una domenica che, come tante altre domeniche d’estate, erano andati a fare un picnic al lago; il medesimo lago in cui sarebbe stato rinvenuto il corpo senza vita di sua moglie.
Xana tornò alla prima foto, mentre chino davanti al camino, Victor accendeva il fuoco.
“Ecco fatto, Xana – disse – Ora possiamo riscaldarci.”
Ora possiamo riscaldarci. Quante volte l’aveva detto a Vera, ma non si riferiva certo al fuoco che ardeva nel camino.
Si voltò, e vide Xana ferma dinnanzi all’immagine di sua moglie.
Ora possiamo riscaldarci. Ma non col fuoco nel camino. Col fuoco che ardeva dentro di loro.
Si avvicinò al mobile e prese in mano il portafoto, mentre la cagnetta volgeva il capo verso di lui, curiosa di vedere cosa avrebbe fatto.
Ora possiamo riscaldarci, Vera.
Non fece nulla. A parte guardare con gli occhi lucidi sua moglie che rideva, per poi ingoiare la lacrime e dire a Xana : “Manca anche a te, non è vero?”
Xana mugolò, e Victor ebbe la certezza – come se una vocina avesse parlato dentro di lui per dar forma al mugolìo di Xana, una sorta di interprete che solo coloro che amano gli animali hanno dentro – che essa avesse detto ‘si’.
Si, Victor. Manca anche a me purtroppo. Vorrei poter dire che si sta da cani senza di lei, ma temo che nel mio caso non renderebbe bene come nel tuo. Forse aveva detto così nel suo linguaggio. Chi poteva saperlo.
Decise di spostare la foto dal piano del mobile alla superficie del televisore. Era la seconda regola che aveva cambiato, da quando era rincasato quella sera. Chissà se ce ne sarebbe stata una terza.
Aveva fame; aveva decisamente fame. Si diresse in cucinino e aprì il frigo; dall’interno ne estrasse alcuni pomodori e della lattuga. Prese a lavarli sotto il getto del rubinetto aperto, in quel lavandino che, secondo uno stile rigorosamente americano, come piaceva a Vera, avevano fatto costruire proprio sotto la finestra. Sollevando il capo, vide la jeep di Martin transitare per il viale, e gli venne in mente che avrebbe potuto rivolgersi a lui per chiudere l’ingresso. Del resto, Martin Delacroix era ritenuto essere il più bravo lavoratore del ferro del circondario. E magari, gli avrebbe anche fatto un prezzo di favore, anche se non erano esattamente amici. Però erano entrambi amici di Mary Ellen, ed era proprio da lei che l’aveva conosciuto. Era successo l’anno prima, quando ella aveva deciso di sostituire il cancello in legno con uno che fosse in ferro, che fosse più resistente e più duraturo nel tempo.
Il telefono squillò, e Martin interruppe il lavoro che stava facendo per andare a rispondere.
“Pronto?”
“Victor?”
Era la voce di Mary Ellen.
“Dimmi, Mary.” Rispose Victor.
“Devo chiederti un favore grande grande. Ma prima rispondimi in tutta onestà: ti sto disturbando?”
Victor sapeva cosa volesse dire, in realtà, quella frase. Non voleva dire : “Stavi mangiando?”, oppure: “Stavi dormendo, Victor? Dimmelo, perché se è così riattacco e ti richiamo domani mattina.”
No, ella voleva sapere se il telefono aveva squillato mentre era intento a sfogliare vecchi album di foto, o a rileggere le lettere che lui e Vera si erano scritti anni prima, come spesso gli capitava di fare. Erano modi come tanti altri per esorcizzare l’immensa nostalgia che di tanto in tanto s’inoltrava dentro di lui, a tradimento, proponendogli le immagini sbiadite di sua moglie che rideva, che scherzava o che lo svegliava al mattino con un bacio sulle labbra; come scacciare il pensiero che tutto ciò non sarebbe tornato mai più, se non immergendosi in quelle foto, che avevano la facoltà di farlo sentire come se invece si trattasse della realtà di sempre?
Mary Ellen sapeva, perché gliel’aveva detto lui stesso, una volta.
“Passo intere serate, - le aveva detto con gli occhi lucidi – a sfogliare i nostri vecchi album. Mi sembra….mi sembra che Vera sia ancora qui.” “E ti fa sentir meglio?” gli aveva chiesto lei. “Non immagini quanto.” “Allora se è così continua a farlo, Victor. E’ una necessità per te.”
“No. – rispose Victor. – Non mi stai disturbando.”
“Bene. Allora posso iniziare?”
“Inizia pure. Sono ansioso di sentire che favore grande grande devi chiedermi.”
Xana trotterellò verso di lui scodinzolando, e si fermò ai suoi piedi con il muso aperto e la lingua fuori, guardandolo con aria curiosa.
“Vedi – incalzò Mary – la settimana scorsa mi ha chiamato mia cugina, che fa la scrittrice.”
“Non sapevo che avessi per parenti delle celebrità!”
“Non è una scrittrice affermata, a dire il vero. Per ora scrive solo racconti per ragazzi in uno spazio riservatole dal mensile….Oddio, lo sapevo, ora non mi viene il nome!”
“Vai avanti, su.”
“Insomma….si tratta di un giornale per adolescenti. Il racconto del mese prossimo lo vuole ambientare dalle nostre parti, e ha pensato di venire a star qui un po’ di tempo per studiare le caratteristiche del posto. Naturalmente sono stata felicissima di dirle che poteva venire da me e starci quanto le pareva. Sai, siamo cresciute insieme, io e lei.”
“Capisco. Certi legami non si spezzano facilmente.” Replicò Victor.
“Si. – il tono di Mary Ellen si affievolì leggermente – E’ proprio così. Certi legami durano per l’eternità.”
“Ma io, in definitiva, cosa c’entro?”
“Ci sto arrivando, Victor. – ella replicò. – Vedi, arriverà domattina in pullman, perché purtroppo ha saputo oggi che l’autonoleggiatore è a letto con la febbre a quaranta, e lei non se la sente di venire fin quassù in macchina da sola. Sai, è molto giovane, ha appena diciannove anni, e ha la patente da poco….”
“Vuoi che vada io a prenderla?”
“No, questo no. E’ solo che in pullman non può portarsi dietro il computer, e non possiede una macchina da scrivere. E quel che è peggio, non ne possiedo nemmeno io.”
“Vuoi che le presti la macchina da scrivere di Vera?”
“Ecco….si.” Mary Ellen parve un po’ esitante. “Se non vuoi non c’è bisogno, ci aggiusteremo in un altro modo…”
“E perché dovreste farlo? La tirerò giù dalla soffitta oggi stesso.”
“Oh, grazie, Victor. Sapevo quanto Vera tenesse a quella macchina, e non avevo proprio il coraggio di chiedertela.”
“Lei stessa l’avrebbe prestata a tua cugina con molto piacere.”
“Ne sono certa. – disse sommessamente Mary. – Allora…a domani. E grazie ancora.”
Victor depose la cornetta, in silenzio, e solo allora si rese conto dello sguardo di Xana puntato su di lui. Anche sua moglie era una scrittrice, una scrittrice dilettante sarebbe stato più opportuno dire. Di tanto in tanto spediva qualche breve racconto a una rivista, o scriveva per sé brevi storie che poi gli faceva leggere. I suoi temi erano prevalentemente storie d’amore, ed egli l’aveva sempre canzonata per questo. Rideva e le diceva che un giorno sarebbe diventata l’erede di Danielle Steele, e Vera replicava: “Avevi qualche dubbio al riguardo, tesoro?”. Non se la prendeva, perché non permalosa. Era una che stava allo scherzo, aveva sempre detto lui. La classica ragazza solare che non capita tanto spesso di vedere triste e imbronciata.
Victor tirò giù la scaletta per salire in soffitta.
Il suo capo emerse nell’oscurità del vasto stanzone, rischiarato solo da una luce diafana che penetrava dalla finestra dell’abbaino. Subito venne avvolto dall’odore stantìo di cui l’aria era intensamente impregnata, logica conseguenza dell’isolamento di quel settore dal resto della casa che aveva fatto seguito alla morte di sua moglie. Poteva distinguere a malapena i contorni di un grosso armadio che era appartenuto alla nonna di Vera, della vecchia scrivania che aveva portato con sé come cimelio, in memoria degli anni passati sui libri alla facoltà di farmacia, e del vecchio letto vittoriano che Vera aveva acquistato ad un’asta, e che sosteneva vigorosamente essere un pezzo di valore. Quella soffitta era di Vera, aveva pensato più volte, perché racchiusa in essa come un bocciolo vi era tutta la sua essenza. Se premendo l’interruttore accendeva la luce di una lampadina penzolante dall’alto poteva discernere con maggior chiarezza la natura degli oggetti che lo circondavano. L’armadio, che adesso era ben evidente, nelle sue rifiniture a minuti intarsi sui bordi, conteneva tutti gli oggetti che Vera aveva portato con sé dalla sua camera quando si era sposata; i quadri appesi alle pareti li aveva dipinti lei; non erano certo opere d’arte, ma poiché a lei piaceva dilettarsi in tante cose ogni tanto dipingeva, e la cosa più singolare era che straordinariamente riusciva a imprimere sé stessa in ogni suo lavoro. Aveva dipinto anche le pareti della soffitta, di un rosa pastello che a dire il vero a Victor non era piaciuto troppo, all’inizio. Ma benchè avesse storto il labbro mentre la guardava spennellare, adesso gli sembrava che nessun altra tinta si addicesse alla soffitta. Era stata una scelta di Vera, ed egli non poteva pensare a ciò senza ripensare a lei.
Diamine, quanto mi manchi, Vera, pensò, mentre si avvicinava all’armadio. Lo aprì, pensando che l’unico intruso, là dentro, era la sua scrivania. Spalancate le ante, si ritrovò di fronte una caterba di oggetti, dai pupazzi alle vecchie radio, dai dischi alle borse, fino ad arrivare a lei.
Carolina, la chiamava Vera. Una vecchia macchina da scrivere che tutto sommato svolgeva, almeno fino a poco tempo prima, ancora abbastanza bene il suo compito. Davanti a tutti quei ricordi, quei minuscoli frammenti di lei, Victor trattenne il fiato per qualche istante. E pensò a quanto sarebbe stato bello allungare le mani e toccare, pezzo per pezzo, tutto ciò che in fin dei conti non era altro che Vera, per giungere, prima di toccare il fondo, a lei….un modo doveva pur esserci, aveva pensato più volte, per poterci arrivare.
E’ più difficile di quanto potessi immaginare. Chinò il capo, e, come in realtà non gli capitava tanto spesso, pianse.

Linnette Anderson aveva appena diciannove anni, e per la prima volta in vita sua stava per alloggiare in un paese completamente immerso nella natura, prospettiva che, per una ragazza nata e vissuta in città, non poteva che essere interessante. Aveva iniziato a scrivere sin dalle scuole medie, a aveva spedito i suoi primi racconti quand’era al liceo. Qualcuno era stato pubblicato su collane di volumi per ragazzi, e quando aveva finito le superiori aveva fatto il colloquio per entrare a lavorare alla redazione della rivista dove due settimane dopo era stata assunta.
Seduta sul divano del soggiorno di Victor, ella con molta semplicità parlava di sé e della vita che conduceva, mentre nel frattempo Victor pensava che il suo era il tipico viso che si addiceva alle gite in campagna o ai pomeriggi trascorsi in spiaggia. Tutto, fuorchè la monotonia e il grigiore di città.
Linnette aveva i capelli di un colore strano, tra il biondo e il rosso, tagliati corti con un’interessante frangetta che le calava sulla fronte; il viso bianco rosato era simpaticamente spruzzato di lentiggini, e in esso risaltavano gli occhi, verdi verdi, come doveva essere il mare al mattino in una giornata di sole. Anche Victor aveva i capelli rossi; ed anche la barba, che non tagliava mai troppo corta, era rossa. Vera diceva sempre che la prima cosa che l’aveva colpita di lui era il volto avventuroso.
“E lei – disse ad un certo punto Linnette – Cosa fa nella vita, signor Gilman?”
Colto un po’ alla sprovvista mentre era intento a studiare i tratti di Linnette, Victor non trovò subito le parole per rispondere.
“Ecco, io…negli ultimi tempi passo molto tempo a casa…”
“Un lavoro che la lascia molto libero, allora.”
“Victor è farmacista.” Intervenne Mary Ellen, che aveva capito che Victor si era distratto.
“Lavora in laboratorio?” domandò curiosa Linnette.
“No, io insegno all’università, ma quest’anno mi sono preso una pausa. Che, del resto, dopo dieci anni di servizio, mi spetta.”
“Un lavoro interessante.”
“Che mi ha sempre costretto a stare molto tempo fuori casa. Le confesso che non sono abituato a stare a casa. Per questo faccio spesso lunghe passeggiare, nel bosco poco lontano da qui…”
“Ah, si Mary Ellen me ne ha parlato! Non vedo l’ora di visitarlo!- commentò entusiasta Linnette – Magari potrò introdurlo come scenario d’ambientazione del mio racconto!”
“Mi sembra un’idea molto carina.” Sorrise Victor.
Linnette si voltò verso la cugina, la quale le rivolse un ampio sorriso, e poi sorrise anche a Victor.
“Ma…scusi se l’ho interrotta! Mi stava dicendo che fa lunghe passeggiate nei boschi.”
“Si, stavo dicendo che mi piace il contatto con la natura. E con la mia cagnetta Xana.”
“Oh, che amore quel cane! L’ho vista prima e le confesso che mi sono già affezionata a lei!”
C’era un qualcosa, nella genuinità di Linnette, che in qualche modo gli ricordava Vera. Sarà stato il modo che aveva di sorridere, o di animarsi per qualsiasi inezia, comunque in quel momento Victor ebbe la certezza che quella ragazza stesse riportando in casa sua un po’ di Vera, assieme alla ventata di allegria che trascinava con sé. Subito però si rese conto dell’assurdità di ciò che stava pensando, e scosse il capo con un gesto che non sfuggì né a Linnette né a Mary Ellen.
Linnette rimase interdetta, prima di riprendere la parole.
“Ho detto qualcosa che non va, signor Gilman?”
“No – replicò egli disarmato – E’ solo che…bè…lei mi ricorda un po’ mia moglie, ecco tutto.” Le due donne lo fissarono senza proferir parola, e Victor sentì la necessità di aggiungere: “Bè, con dieci anni in meno, naturalmente.”
Linnette continuò a non rispondere, mentre Mary Ellen, ridendo, disse: “Non è quello, Victor. E’ che le tipe come Vera non crescono mai.”
“Già, forse hai ragione, Mary – replicò Victor. – Ma in ogni caso ho paura di aver detto una sciocchezza che deve averla sconvolta, non è vero, Linnette? Mi guarda con degli occhi a dir poco devastati…”
“Oh, no! – protestò Linnette – Mi scusi lei, se non ho avuto prontezza nel risponderle. E ‘ una lusinga, per me, che mi dica che somiglio a sua moglie. Mary Ellen mi ha detto che ne era molto innamorato.”
Mary ellen abbassò lo sguardo, non troppo fiera che sua cugina dichiarasse così pubblicamente le cose che lei le aveva detto in confidenza.
“Ah, si? Deve allora averle detto anche che sono un’infelice.”
“Oh, no, Victor! – ribattè Mary Ellen – Questo no!”
“Se anche l’avessi fatto, credo non ci sarebbe niente di strano. Del resto, credo non ci sia altra spiegazione per il mio atteggiamento, vero Linnette?”
In seguito, mentre Victor le accompagnava fuori, Mary Ellen si fermò a giocherellare con Xana. Fu allora che Linnette chiese a Victor. “Di quale atteggiamento parlava, signor Gilman?”
“Come?”
“Prima ha detto che non c’era altra spiegazione per il suo atteggiamento.”
“Ecco…vede, Linnette, lei è una miniera di sentimenti, me ne sono accorto subito. Non c’è un frammento della sua persona che non esprima personalità, che in un modo o nell’altro non trasmetta calore. Io, invece, mi rendo conto di essere certamente apparso ai suoi occhi, oggi, come una specie di orso.”
“Non è affatto apparso ai miei occhi come un orso – replicò la ragazza, con voce insolitamente grave – Solo, mi è apparso come una persona triste.”
Gli occhi di Victor s’incupirono.
“Ed è quello che purtroppo sono.” Disse.
Mary Ellen si staccò da Xana, e li raggiunse dicendo con fermezza a Linnette : “Che ne dici di andare, cugina? Si fa tardi, e dobbiamo preparare la cena.”
Prima che Mary le fosse abbastanza vicina per sentirla, Linnette si sporse verso Victor e gli sussurrò: “Le auguro di ritrovare presto il sorriso, Victor.”

Le auguro di ritrovare presto il sorriso, Victor
Quella frase non fece che rimbombargli in mente per una buona parte della notte, durante la quale non fece altro che rotolarsi sotto le lenzuola in preda all’insonnia. Poi, sfinito, più di quanto non fosse quando si era coricato, si alzò e andò ad accendere il televisore. Fece lo slalom tra un canale e l’altro, senza trovare un granchè, poi decise di spegnere. Voltò il capo verso Xana, che dormiva placidamente sullo zerbino, poi si alzò e andò a infilarsi il giubbotto sopra il pigiama. Prese dal frigo una birra, e decise di andare a berla in veranda, sopra la sedia a dondolo collocata in un angolo.
Le auguro di ritrovare presto il sorriso, Victor Ripetè Linnette dalla sua radio interiore.
Non posso ritrovare il sorriso, perché il mio sorriso era Vera
La vista gli si annebbiò mentre beveva la birra direttamente dalla bottiglia. Si strofinò gli occhi, seccato che di nuovo gli stesse venendo da piangere, e nel levarsi la mano dalla visuale gli sembrò di vedere qualcuno nei dintorni di casa di Mary Ellen. Qualcuno che si muoveva nell’oscurità. Cercò di aguzzare la vista, ma non riuscì a vedere chi fosse. La luce bianca della luna piena gli consentiva di individuarne con certezza la presenza, ma non sapeva dire chi fosse. Non che fosse un dato di particolare interesse, ma non si può evitare di notare una persona che in piena notte si aggira nei pressi di casa di una tua amica. Guardò l’orologio che aveva al polso: erano le tre meno un quarto. D’un tratto, la persona che vedeva salì in macchina: da lontano si sarebbe detta una jeep. Victor pensò dovesse trattarsi di Martin.
“Martin da Mary….a quest’ora?”
Per quanto strano potesse apparire, era in realtà l’unica spiegazione che avesse un senso per giustificare la presenza di qualcuno lì a quell’ora della notte.

Linnette si svegliò di buon mattino, e mentre sua cugina ancora dormiva - al piano di sopra, perché la casa era piccola e c’erano solo due camere da letto, ciascuna in un piano- si preparò la colazione e uscì in veranda.
La sera prima aveva preparato il tavolo con la sedia a sdraio per trasportarvi la macchina da scrivere che Victor le aveva gentilmente prestato. Compì il gesto con un po’ fatica, nel timore che la macchina le cadesse o che altro; si sarebbe sentita irrimediabilmente in colpa se per qualsiasi motivo avesse dovuto restiture a Victor la macchina in condizioni peggiori di quelle nelle quali l’aveva avuta.
L’aria frizzante del mattino le bruciava la pelle delicata del viso, unica parte di sé - fatta eccezione per le mani, s’intende!- che il suo abbigliamento esponeva. Indossava una camicia pesante ed un paio di jeans neri consumati sulle ginocchia, quelli che diceva essere i suoi ‘jeans di battaglia’ , che indossava, in genere, quando lavorava a casa, seduta all’indiana di fronte al monitor con la stufa a gas accesa di fianco e una bottiglia di tè freddo al limone sul tavolino. Ma sopra, aveva avuto il buon senso di indossare una giacca di lana, residuo della moda dell’inverno precedente, una di quelle giacche grosse grosse che si possono indossare in sostituzione al cappotto, che ti scendono lungo i fianchi con la cintola annodata che penzola davanti al bacino ed il cappuccio che ti scivola sulle spalle. Vestita così, non aveva certo occasione di avere freddo.
Si sedette e cominciò a scrivere. Il numero ‘1.’ Indicante l’inizio del capitolo fu il primo carattere che fluì dalla graziosa e un po’ datata macchina. Aveva gia pensato alla protagonista: si trattava di una ragazzina di tredici anni, malaticcia, che veniva trasportata in una villa di campagna affinchè l’aria salubre le giovasse. Non era decisa circa il nome; aveva pensato a Vanessa, ma le sembrava un po’ troppo pomposo, così aveva ripiegato su Susan. Ma anche questo non la convinceva, perché era troppo comune, così pensò di iniziare con esso e in seguito di sostituirlo. Nel frattempo cominciò a contemplare la possibilità di chiamarla Michelle.
Trasse un sospiro e cominciò a digitare:
“Michelle aprì gli occhi, e la prima cosa che vide fu il volto di sua madre chino su di lei, preoccupato come sempre, sì da farle temere che avesse di nuovo urlato nel sonno come spesso le era capitato negli ultimi tempi. Per questo avevano preso la decisione di farle cambiare aria……”

“Allora siamo d’accordo.” Annunciò Victor mentre percorreva il viottolo assieme a Martin.
“Comincerò domani stesso.” Disse Martin.
“Molto presto?”
“Io in genere inizio a lavorare alle otto. – replicò risoluto Martin – Ma se per lei è troppo presto….”
“Non lo è affatto, non si faccia problemi.”
Tacquero entrambi. Era tardi, ma Victor era riuscito a mettersi in contatto con Martin solo nel tardo pomeriggio. Nel cielo cominciavano a mescolarsi l’insieme di sfumature che preludevano la tinta cupa della notte. Victor si domandò se il giovane si fosse accorto di lui, la notte prima, ma pensò che fosse più probabile di no.
“Allora, posso andare.” Disse Martin.
“Un’ultima cosa – disse Victor – Mi sentirei più a mio agio se ci dessimo del tu.”
Martin esitò un po’, poi rispose: “Va bene. Diamoci pure del tu.”

Mary Ellen scostò la tenda del soggiorno per dare un’occhiata a Linnette. La ragazza aveva lavorato davanti a quella macchina tutto il giorno, fermandosi solo un’ora e mezza per pranzare, e adesso erano quasi le sei e non la finiva ancora. Pensò di andarla a chiamare, ma temette di disturbarla proprio mentre era ispirata. Così decise di aspettare un po’ prima di andare da lei con qualche scusa.
Nel frattempo, Linnette, travolta dall’ispirazione, si profondeva nella descrizione di una scena in cui Michelle veniva trascinata nel bosco da Tommy, un ragazzino conosciuto in campagna da sua zia.

“A Michelle non sembrava proprio vero di potersi finalmente muovere e correre, in mezzo al verde della campagna, vestita con un paio di calzoni da montanara e gli scarponi pesanti uguali a quelli di Tommy. Per la prima volta si sentiva finalmente libera. Libera di correre, col sole del mattino che le bruciava i capelli raccolti in una treccia, e col terreno bagnato dal temporale della notte prima che crepitava sotto i suoi piedi. Tommy la guidava, ed ella lo seguiva fremente d’eccitazione.
D’un tratto, giunsero ai piedi di un ruscello. Michelle si arrestò, ma prontamente Tommy le tese una mano, e con sguardo amico la invitò: “Vieni.” Ella si retrasse dicendo: “Ho paura”, ma Tommy, per rassicurarla, replicò: “Non ti preoccupare, Vera. Ci sono io con te.”

Linnette rimase interdetta. Non voleva scrivere il nome di Vera. E non voleva neppure scrivere quella frase. Si guardò un po’ attorno, con addosso una sensazione strana. Era tardi, ed era quasi buio. Aveva lavorato tutto il giorno, e forse adesso era sfinita. Si, non c’era altra spiegazione. Con la mano corse alla ricerca della penna sul tavolino, per cancellare la frase. Si accorse che tremava. E sapeva bene perché; ella aveva avuto l’impressione che i tasti della macchina da scrivere si fossero mossi sotto l’azione di una forza invisibile ed avessero digitato quella frase indipendentemente dalla sua volontà. Scosse il capo.
“Che scemenze vado a pensare!” si disse, raccogliendo le sue cose.
Dal foglio ancora infilato nella macchina emanava una sensazione strana, che le fece avvertire una specie di brivido serpeggiarle lungo la schiena, tanto che all’inizio fu un po’ refrattaria a toglierlo.
“Che c’è?”
Mary Ellen era appena comparsa sulla soglia col grembiule stampato a fiori sopra i jeans sbiaditi.
“Niente…niente….” Replicò Linnette accorgendosi solo ora del tremolìo di cui la sua voce era intrisa.
“Sei bianca come un lenzuolo. – commentò Mary Ellen – Che ti succede?”
“Credo di essere un pò stanca.”
“Sfido io! E’ tutto il giorno che scrivi! Dai, vieni dentro a darmi una mano. Sto preparando una crostata di frutta!”
“Va bene.” Rispose Linnette, felice di staccarsi dalla macchina.

Victor uscì dalla doccia ed oltrepassò la nebbia di vapore che si addensava attorno alla cabina. Prese l’accappatoio dal posto in cui era appeso e lo indossò. Uscì dal bagno lasciando sul pavimento una scia di goccioline fino alla soglia della sua camera, e giunto lì aprì l’armadio. Si incantò per un attimo a guardare la specchiera, dove un’infinità di volte Vera si era seduta mentre lui si cambiava. Non di fronte allo specchio, di fronte a lui, a squadrarlo con occhio critico per poi dargli preziosi suggerimenti su quale fosse l’abbinamento migliore.
A dire il vero, erano soprattutto ricordi relativi a due anni prima, perché l’anno precedente egli era stato per lungo tempo lontano, non ricordava un altro inverno in cui era stato così intensamente impegnato, diviso tra convegni di qua e seminari di là, e se ci pensava troppo sentiva la punta acre del rimorso dolergli su per il petto. Si, era così. Aveva evitato di pensarci, nel tentativo di esorcizzare i sensi di colpa, ma era stato un marito molto assente negli ultimi tempi; preso più dalla carriera che da sua moglie, che nel frattempo aveva smesso di domandargli se sarebbe rimasto fuori per molto tempo. Le prime volte, con una sorta di ingenua speranza accesa negli occhi, gliel’aveva domandato. Poi aveva smesso, forse per rassegnazione, o forse…chissà! Victor si sedette sulla sponda del letto, nuovamente amareggiato. Non poteva dimenticare che l’ultima volta che l’aveva salutata per andare ad una conferenza, ella l’aveva fissato, con gli occhi neri carichi di un sentimento ignoto, che forse era l’angoscia, e gli aveva detto: “Devo dirti una cosa, Victor….”
“Dimmela.” Le aveva risposto lui.
“E’ una cosa…una cosa che richiede tempo….”
“Io devo andare, Vera. Sono in ritardo, e l’aereo…”
“Va bene, va bene. – aveva detto, sbrigativa, la moglie – Te lo dirò quando torni.”
“Ma…se è una cosa importante….”
“Oh, non era poi così importante.”
Non era poi così importante. Si ripetè, da solo, Victor. Solo ora si rendeva conto dell’angoscia che in realtà aveva letto negli occhi di Vera, quel giorno. Solo ora si rendeva conto di quanto si dovesse esser sentita sola mentre lui mancava.
Non aveva mai saputo cosa Vera dovesse dirgli. Circa dieci giorni dopo era stato richiamato a casa dalla polizia, che lo informava, in maniera molto vaga, della recente scomparsa di sua moglie. Rientrando a casa , aveva appreso che, sì, Vera era scomparsa, ma era stata anche ritrovata, poche ore prima che lui arrivasse.
Victor sollevò il viso verso la finestra, attraverso la quale penetrava diafano un raggio di luce della luna piena, facendosi strada attraverso le pesanti tende verdi, abbinate coi tappeti ai piedi del letto. Era stanco di vedere nella propria mente scorrere dei fotogrammi; specie se si trattava del fotogramma, rivisitato ormai milioni di volte, della macchina che veniva ripescata dalla gru, con l’acqua che usciva dai finestrini aperti e il corpo di Vera rigido tra il sedile ed il volante di noce. Le settimane successive al ripescaggio non aveva fatto altro che passare in rassegna le immagini che da allora aveva visto succedersi davanti a lui, sentendosi non tanto coinvolto in prima persona, quanto piuttosto spettatore incredulo di una tragedia inattesa. Era così, purtroppo, e ne era prova il fatto che ricordava gli eventi in maniera molto vaga, sprazzi di memoria dai contorni sfumati, come se in realtà si fosse trattato di un sogno. Il corpo cianotico che veniva deposto sul telo, coi vestiti intrisi dell’acqua del lago e i capelli corvini rovinati dall’acqua, il commissario che in modo concitato gli porgeva le sue condoglianze, il medico legale che sosteneva dovesse trovarsi lì da tre giorni. Mary Ellen che, scusandosi, gli diceva che aveva voluto essere sicura, prima di dare l’allarme. Persino il fatto che a casa fossero state trovate due bottiglie vuote di Chianti, una in piedi sul tavolo, l’altra riversa sul divano, e la confezione del Lexotan semivuota, lasciata negligentemente aperta sul ripiano del passavivande, tutte dettagliate informazioni riferitegli dal capo della polizia, non ebbero su di lui l’effetto che fosse logico attendersi. Victor non si era sconvolto nell’udire ciò; né aveva pianto di fronte agli occhi vitrei di Vera , benchè si sentisse da loro osservato – sensazione che nessun altro fra le persone che gli stavano attorno aveva condiviso – e benchè dentro di lui, negli atrii oscuri della sua coscienza, la voce di Vera, selvaggia, reclamasse:
“Perché mi hai lasciata sola, Victor? Perché?”
Durante gli ultimi mesi, Victor si era alacremente impegnato per esorcizzare tutti questi pensieri che non potevano procurargli altro che dolore. Eppure ora prendeva atto che nonostante la sua tenacia, essi venivano a galla lo stesso, come era venuta a galla l’auto divenuta la tomba di Vera. A che serviva, ogni giorno, tentare di scacciare la malinconia perdendosi nel non far nulla, quando poi i suoi pensieri non facevano che correre a lei, al dolce ricordo del suo sorriso limpido, dei suoi capelli di seta, del suo corpo sinuoso che sensuale emergeva dalla doccia per andarsi poi a stendere nel letto con lui?

“Distesa all’ombra di una poderosa quercia, con Tommy al suo fianco che dormiva, ed il sole che coi suoi caldi raggi le bagnava le scarpe, Michelle contemplava il cielo sgombro di nuvole. Non c’era più traccia del temporale, e le nuvole correvano nel cielo per lasciar spazio al sereno di una splendida giornata di fine aprile. Come faceva in fretta a tornare il sereno, da quelle parti! I pochi ricordi che Michelle conservava del cielo di città – perché non si era mai soffermata più di tanto a scrutarlo – erano ricordi di un cielo scuro che inesorabilmente dipingeva serie infinite di giornate uggiose. Se qualche volta splendeva il sole lassù, ella certo non se n’era curata, né aveva mai pensato di affacciarsi alla finestra per assaporarne il calore. Del resto, l’aria che comunque era fredda, le avrebbe fatto tornare gli attacchi d’asma, o almeno così diceva sua madre. Eppure, pensava Michelle, l’aria che la circondava era tutt’altro che calda, e nonostante ciò non suscitava in lei alcun attacco. Che avesse finalmente trovato il rimedio, dopo anni di prigionia che non le avevano procurato alcun sollievo?
Tommy si tirò su con la schiena, e, piantati i palmi sul suolo erboso, fissò su di lei il proprio sguardo.
“A cosa pensi?”
“A mio marito.” Rispose lei.
“Per quale motivo?”
“Se lui arrivasse qui, adesso…”
“E perché dovrebbe farlo?”
“Non lo so…ma ne ho paura.”
“Non succederà.”
Ella preferì tacere, sentendosi una sorta di Giuda nei confronti di Victor...

Linnette si retrasse bruscamente dal tavolino, e con un gesto rapido e incontrollato scostò da se la macchina col foglio ancora infilato.
“Ma che diavolo sto scrivendo!?” domandò a sé stessa, contenta che Mary Ellen non fosse in casa a sentirla mentre parlava da sola. Si portò le mani al volto, mentre incredula rileggeva le ultime righe, totalmente prive di attinenza col resto del racconto. Man mano che rileggeva, e che ripensava allo straordinario senso di estraniazione che aveva provato mentre scriveva, come se in realtà non fosse lei a farlo, ma bensì la macchina, il cuore iniziò a darle colpi dal di dentro, come se si fosse trasformato nella palla di un flipper ed ella stessa fosse il flipper. Sentì il sudore che le imperlava la fronte prima ancora di percepirne il macabro gelo, ma solo allora si rese conto di aver involutamente menzionato Victor.
“Victor!?” si domandò. Deglutì. Doveva prendere una decisione. E la decisione che prese fu quella di continuare a scrivere.
In maniera pressocchè del tutto passiva poggiò i polpastrelli sui tasti e si lasciò andare…..

“Ti prego, andiamo via.”
“No. Restiamo.”
“Perché mi stai facendo questo? Io sono una donna sposata…”
“E tuo marito? Dov’è tuo marito, adesso?”
“E’ ad una conferenza…”
“Oh, risparmiami le bugie di Victor. Io non sono credulone come te.”
“Non sono bugie! E’ la verità!”
“Non farmi ridere, il vostro matrimonio non è nient’altro che una farsa. Una stupida pagliacciata che state tenendo in piedi con la forza, ecco tutto!”
A quelle parole, Vera si sentì molto turbata. Ella non aveva mai pensato al suo matrimonio come ad una farsa, e la brutalità con la quale ora lui glielo sbatteva in faccia era per lei un insulto bello e buono.
“Perché fai quella faccia, ora?”
“Perché mi hai detto che io e Victor stiamo insieme per forza.”
“E ti dispiace?”
A volte sapeva essere veramente indisponente, quell’uomo. Per quale motivo gli poneva una domanda del genere in tono così brusco?
“Certo!” replicò. “E’ un reato, forse?”
“Allora lo ami!”
“Certo. E’ mio marito!”
“Non la pensavi, così ieri notte, sotto le lenzuola.”
“Ti prego, smettila!”
“Avevi detto di amare solo me.”
“Ma amo anche lui…perché non capisci?”

“Ti senti bene, Linnette?”
La voce di Mary Ellen giunse così inattesa da dar quasi l’impressione di fendere l’aria attorno a loro. Linnette si scosse, tornando a poco a poco alla realtà.
“Che c’è?” domandò.
“Ti ho chiesto se ti senti bene. Sei piuttosto pallida, e appena sono arrivata stavi lavorando come…una forsennata! Ti ho salutato e non mi hai neppure risposto.”
Solo allora Linnette si accorse che Mary Ellen aveva ancora appese ai palmi le buste della spesa, e non aveva ancora tolto il soprabito. Rise per sdrammatizzare, ma la sua era una risata che non convinceva nessuno, tantomeno la cugina.
“Oh, scusami tanto, Mary! Mi succede, quando sono in preda all’ispirazione! La mamma dice che sembro indemoniata!”
“Sei sicura che invece non sia perché stai lavorando troppo?”
“Trovi che stia lavorando troppo?”
“Trovo che non ti dai un attimo di tregua, Linnette.”
Gli occhi di Mary Ellen erano colmi di apprensione. Linnette abbassò lo sguardo, e si imbattè nelle ultime righe che aveva battuto, dettatele da chissà quale misteriosa presenza.
Oh, mio Dio, Vera, pensò Sei tu che mi parli, che cerchi di dirmi qualcosa tramite la tua macchina da scrivere?
“Avanti, vieni a riposarti. E’ quasi ora di pranzo.” Sollecitò Mary Ellen.
Linnette si alzò docilmente, ma mentre si avviava dentro pensò che aveva visto giusto la prima volta: non era lei a scrivere, ma la macchina.

Victor si alzò con la sensazione di avere un alveare in testa, e in principio gli sembrò che fosse mattino. Da fuori veniva un fracasso infernale, e forse era stato proprio questo a procurargli il mal di capo. Poi pian piano ricordò; ricordò di essersi disteso, di pomeriggio, con l’intento di riposarsi, poi di essersi appisolato e di aver sognato. Aveva sognato di sposarsi con Linnette Andersen, ma in sogno ella non aveva le sue normali sembianze. I suoi connotati onirici si fondevano con quelli di Vera, e l’abito da sposa era proprio quello indossato da Vera il giorno delle loro nozze. Pensò si trattasse della proiezione onirica del suo desiderio di Vera, misto al ricordo del recente incontro con la giovane scrittrice che in maniera forse troppo audace aveva assimilato a lei lo stesso giorno che l’aveva conosciuta.
La realtà si presentava ora a lui nell’immenso grigiore della sua monotonia: prima che si stendesse era arrivato Martin per iniziare i lavori, e il frastuono che sentiva altro non era che il prodotto del suo armeggiare con gli arnesi. Vera lo diceva sempre, che il momento ideale per far lavori in cortile era quando si era in vacanza. Una tipa ingenua, sua moglie, che riponeva negli altri la fiducia stessa che avrebbe riposto in sua madre. Una persona limpida, cristallina, tranne che per un particolare….
Devo dirti una cosa, Victor…
Chissà cosa gli avrebbe detto, se solo lui le avesse dato modo di…
Devo dirti una cosa, Victor…
Dimmela.
E’ una cosa…una cosa che richiede tempo…
E il tempo per lui era sempre poco, infinitamente poco, persino per poter stare due minuti in più del dovuto ad ascoltare che sua moglie che con aria implorante gli diceva:
Devo dirti una cosa, Victor…
No, forse non era stata neppure tanto implorante, non di meno adesso lui se l’immaginava così.
Devo dirti una cosa, Victor…
Se solo avesse avuto qualche minuto in più a disposizione per partire, o tanta cecità in meno per poter guardare negli occhi di Vera, leggere dentro la sua anima…invece no, egli non aveva avuto tempo da perdere. E adesso, che cosa se ne faceva, della distesa di tempo che come una radura si presentava di fronte a lui, se non aveva con sé Vera per trascorrerlo insieme con lui?
“Victor! Victor!” chiamò Martin da fuori.
“Che c’è?”
La voce di Victor era impastata del sonno appiccicoso di poco prima. Si rese conto che Martin non poteva udirlo, perché aveva un tono troppo basso essendosi appena svegliato. Uscì fuori, trascinandosi per il pavimento, con indosso vecchi pantaloni ed una maglietta stinta.
Affacciandosi in veranda, incrociò subito Martin e Linnette che si apprestavano ad entrare.
“Scusaci, Victor. Credevamo che dormissi e stavamo venendo su a chiamarti.” Disse Martin.
“Oh, non c’è problema.” Replicò Victor. Si sentiva un po’ in imbarazzo, per esser stato sorpreso in quelle condizioni da Linnette. Sicuramente per la giovane era chiaro come il sole che fosse reduce da una bella dormita, ed il suo aspetto sarebbe stato agli occhi di tutti a dir poco indecoroso.
“Buonasera, Victor.” Disse la ragazza, accompagnando il saluto con un caloroso sorriso.
“Ciao, Linnette.” Rispose Victor, poi si rese conto della gaffe. Loro due si erano lasciati dandosi del lei.
“Bè, io torno al mio lavoro.” Annunciò Martin.
“Volevo chiederle una cosa. Un favore.” Disse Linnette.
“Certo, ma prima devo scusarmi. Mi sono preso la libertà di darle del tu.”
“Oh, per quello non c’è problema.- Ribattè la ragazza – Anzi, continui pure a farlo, ne sarò felicissima.”
Victor sorrise.
“Ne sarò felice anch’io, solo se anche tu accetterai di darmi del tu.”
Linnette rimase per qualche minuto interdetta, poi disse: “Va bene, Victor.”
Entrò dentro, dicendo: “Ti starai chiedendo perché vengo a romperti le scatole a quest’ora.”
“Oh, non mi stavo chiedendo niente del genere. Piuttosto come mai…”
“Sarò breve – interruppe Linnette – Vorrei vedere dove tenevi conservata la macchina da scrivere di tua moglie.”
“Come?” Victor la guardò pieno di meraviglia.
“So che la mia ti sembrerà una richiesta un po’ strana, ma…”
“Era in soffitta. Perché vuoi saperlo?”
Dopo un attimo di esitazione, Linnette gli disse:
“Ecco, se te lo dicessi non mi crederesti mai. Io stessa faccio fatica a crederlo.”
Gli occhi di Victor erano ora spalancati in un’espressione di incredulità mista a vaghezza.
“Perché non dovrei crederti?”
“Perché è una cosa strana, anzi direi fuori dal comune…oh, Victor, come spiegarti?”
“Semplicemente usando sostantivi, aggettivi e preposizioni”
“Ti giuro che se te lo dicessi mi riterresti completamente pazza.”
“O forse ti riterrei normale.” Replicò tranquillo, Victor.
“Ne dubito.”
“Perché non provare, almeno?”
Linnette non sapeva che fare. Da un lato era certa che egli l’avrebbe creduta una bugiarda o una psicopatica, dall’altro bruciava in lei la voglia impellente di aprirsi, sfogarsi con qualcuno. Non l’aveva fatto con Mary Ellen, ma forse Victor era un tipo più adatto ad ascoltare.
“Allora – incalzò nuovamente Victor – Perché non provi?”
“Va…va bene.”
Linnette trasse per prima cosa un sospiro, poi, sommessamente, disse: “E’ che quella macchina…mi parla…”
Dopo un primo istante di sbigottimento, durante il quale non aveva cessato di guardare gli occhi di Linnette, Victor riuscì solo a dire, con un filo di voce: “Che cosa?”
Linnette provò l’impulso di fuggire. Arrossì fino alla radice dei capelli, ma si decise a restare. Sebbene con gli occhi più bassi, continuò: “E’ così. So che può sembrare strano, ma mi ha parlato già due volte.”
Victor prese fiato, poi disse, cercando di mantenere la calma: “Adesso sediamoci, Linnette. Sediamoci e spiega chiaramente il significato della tua frase di poco fa.”
Linnette si sedette e cominciò a spiegare.

“Sali tu, per prima.” Disse, senza troppa convinzione, Victor.
Linnette gli rivolse un’occhiata carica di fiducia, poi con le mani si ancorò saldamente ai bordi della scala e cominciò a salire.
Una zaffata di odor di chiuso e di polvere la assalì non appena ebbe fatto capolino in quello che percepì subito essere il regno dell’antiquariato. Linnette si fece avanti, muovendosi con cautela. Victor, dietro di lei, le lasciava la libertà di agire come meglio credeva. Indicandole l’armadio, la informò: “La macchina era là dentro. Ci sono solo cose di vera là dentro.”
Linnette si avvicinò, ma non troppo, affinchè potesse con uno sguardo abbracciare l’intero mobile. Ruotando il capo ebbe rapidamente fotografato la soffitta di Victor e Vera.
D’improvviso la colse il batticuore; ma, più di tutto, il sentore che le stesse per capitare qualcosa. Qualcosa d’indefinito, che veniva a lei come immagini nebulose e arcane, qualcosa come una vocina che dalle profondità del suo cuore voleva sussurrargli una specie di verità, una verità clandestina che nel silenzio lottava per venire fuori….
Oh, mio Dio, che sto pensando…. Le pieghe della paura le solcarono il volto angosciato.
“Sei tu, Vera?” domandò a voce alta.
Victor stava, muto, ad osservare.
“Sei tu che mi parli?” domandò ancora Linnette. “C’è qualcosa che vuoi dirmi?”
Involontariamente indietreggiò, e andò ad inciampare in qualcosa. Era una chiave. Fu Victor a raccoglierla; una chiave di taglio antico, che egli non aveva mai visto prima di allora. Mentre assieme la guardavano, Linnette per la prima volta si rese conto di una cosa: se veramente Vera avesse avuto un’avventura extraconiugale con chicchessia, egli non avrebbe mai sospettato nulla. La amava nel suo modo semplice e spontaneo, ed il fatto che per lui non esistesse nessun altra era una garanzia sufficiente per pensare che per sua moglie fosse la stessa cosa. Sarebbe spettato a lei squarciare il manto d’ingenuità che velava gli occhi di Victor?
Linnette si voltò e nuovamente si avvicinò all’armadio. Protese le mani per toccarlo, e con un gesto appena sfiorato fece scorrere le proprie dita sulla superficie ruvida……
….. “Eccoci qua, finalmente!” la voce di Victor risuonò nelle sue orecchie come se provenisse da un’altra dimensione
“Finalmente a casa! Una casa tutta nostra amore, ci pensi……”
Bruscamente Linnette si staccò dall’armadio.
“Ti ha detto qualcosa?” domandò Victor.
“Io….ho sentito la tua voce, e quella di una donna.”
“Cosa hai sentito?”
“Le hai detto: eccoci qua, finalmente!. E lei ha risposto: finalmente a casa. Una casa tutta nostra amore.”
“Ha detto altro?” senza accorgersi, Victor le aveva afferrato il braccio, e la guardava al colmo dell’inquietudine.
“Io…non lo so…mi sono staccata subito dall’armadio. L’ho sentito quand’ero vicina.”
“Perché non sei rimasta ancora? Magari aveva qualcosa da dirti!”
“Non era lei che parlava con me, non capisci? Io sentivo le cose…..” si interruppe, trovandosi a tu per tu con la tempesta degli occhi di Victor.
“Quali cose?” domandò trafelato Victor, come se avesse appena fatto una corsa.
“Le cose…le cose che vi siete detti, qui…”
“E quando stai scrivendo? Cosa ti dice?”
Il tono ansioso di Victor cominciava a infastidire Linnette.
“Niente di chiaro, Victor. Solo, mi accorgo che sta parlando con qualcuno.”
“Con me?”
“Non lo so.” Linnette si divincolò.
“E cosa dice?”
Linnette lo fissò, con due occhi grandi e stracarichi di esasperazione.
“Allora!? – domandò Victor trattenendosi dall’afferrarle i polsi con le mani – Vuoi dirmi cosa dice?”
“Ho fatto male a venire qui.” Fu la breve risposta di Linnette. E senza aggiungere altro, la ragazza si diresse verso la scala.
“Non puoi andartene così!” La voce di Victor la seguì, mentre adagio Linnette scendeva giù per la scala.
“Io non ho una risposta per le tue domande, Victor.”
Victor si affacciò e replicò, in tono supplichevole: “Non ce l’hai ancora. Linnette. Ma forse, un domani….”
“Oh, non siamo ridicoli.”
Linnette si diresse verso la porta, mentre Victor velocemente scendeva la scala. Fece giusto in tempo a raggiungere la porta, e salutare Victor con un “Ciao.”, che egli già l’aveva raggiunta. La fermò mentre cercava di chiudere la porta, poggiando la sua calda mano sopra il braccio esile di Linnette.
“Aspetta….”
Ella avrebbe voluto licenziarsi da lui, ma guardandolo in faccia capì che non poteva.
“Promettimi che appena ti parlerà di nuovo, me lo dirai.”
Linnette era costernata. Non avrebbe mai immaginato di suscitare un’inquietudine tale nell’animo del giovane. Né, da parte sua l’avrebbe voluto. Però oramai era successo, e capiva che Victor riponeva in lei una fiducia che ella non avrebbe potuto deludere.
“Va bene.- disse sommessamente - Lo farò.”

Mary Ellen era all’apice dell’apprensione, quella sera. Guardando il cielo, si sarebbe detto che entro un quarto d’ora o giù di lì sarebbe scoppiato un temporale, e Linnette era misteriosamente scomparsa da un paio d’ore, lasciando la macchina da scrivere con tanto di fogli piazzati sul tavolino. Pensò fosse doveroso sostituirla nel compito di portar tutto dentro, onde evitare l’inzuppamento imminente del lavoro di sua cugina.
Portò dentro la macchina un po’ a fatica; non avrebbe mai immaginato che fosse così pesante. Il foglio svolazzò nell’aria per un po’, poi Mary Ellen lo tolse e lo appoggiò sul tavolino.
Le altre volte aveva sempre letto in anteprima i racconti di sua cugina; questa volta no, senza che ci fosse alla base un motivo.
Nel cielo rimbombò il fragore di un tuono.
Mary Ellen inviò alla coltre di nubi che oramai lo riempivano completamente un’occhiata preoccupata. Si sedette sul divano, non senza continuare, di tanto in tanto, a guardar fuori attraverso il triangolo irregolare disegnato nei vetri dalla tenda. Abbassò lo sguardo, e questo involontariamente cadde sul racconto……

Linnette giunse i margini del bosco ansante per la corsa appena fatta. Era appena venuto giù un acquazzone, ma ella si sentiva riparata dai fusti legnosi le cui fronde si espandevano come ali su di lei. Non sapeva, di preciso, perché si fosse recata lì; sapeva solo che come una ventata si era avvolto sopra di lei un suggerimento, leggero come le ali di una farfalla, che le aveva detto di andare. Come se il bosco stesso, o una misteriosa entità in esso racchiusa, si fosse sporta a chiamarla con la sua voce trasparente. E appena fu lì, coi capelli umidi e la fronte madida di sudore, ebbe la certezza – senza neppure sapere come; lo sapeva e basta – che adesso lui le avrebbe detto qualcosa. Si appoggiò a un albero, tutta trafelata, il capo aderente al legno di cui lentamente inalava il profumo….
Dimmi qualcosa….
Che cosa?
Qualcosa che ti piace.
Correre. E a te?
A me piaci tu.
Domani torna Victor.
E allora?
Lo sai.
Scappiamo insieme.
Cosa!?
Scappiamo insieme, ho detto.
Io….non posso lasciare mio marito così.
Non ti ho detto di farlo. Scappa con me senza dirgli niente.
E questo non vuol dire forse lasciarlo?
Almeno ti risparmierai le sue scenate.
Quali scenate?
Quelle che altrimenti ti farà. Tuo marito è un tale rompiscatole…
No, non è vero!
Lo difendi sempre.
Linnette avvertì qualcosa di soffice posarsi sul suo braccio, una brezzolina di primavera che le solleticava la pelle….

“Si sente bene?”
Una voce maschile e inaspettata la portò repentinamente alla realtà. Linnette si scosse, prima che la realtà tornasse alla sua percezione sotto forma di immagini tremule. Riconobbe Martin solo perché poco prima l’aveva incontrato da Victor, diversamente quel volto olivastro coperto da una barba bionda non le avrebbe detto niente.
“Si…- farfugliò – Perché?”
“Passavo in macchina qui vicino, e mi sono accorto che c’era qualcuno. Ho pensato si trattasse di una persona che non sapeva come fare per tornare a casa, visto il temporale. Poi ho visto lei….la trovo piuttosto pallida.”
Linnette, nel frattempo, si sentiva come se avesse appena spostato un macigno con le sue sole forze. Era niente la stanchezza che abitualmente avvertiva dopo una giornata pesante, in confronto alla spossatezza che provava ora.
“Andiamo a casa. - Disse Martin in tono sollecito – La riaccompagno.”
Linnette si lasciò guidare verso il veicolo di Martin. Ma quando egli l’ebbe messa una mano sulla spalla, per aiutarla a salire, una specie di coltre nebulosa si distese davanti ai suoi occhi, come se col tatto Martin le avesse trasmesso qualcosa…

Basta Martin! Non voglio.
La voce che oramai aveva appreso esser quella di Vera era carica d’ira.
Perché?
L’altra voce si stagliò nell’aria aguzza come la lama di un coltello
Perché io amo Victor! Non lo capisci?
Passò qualche istante, prima che udisse la voce di Martin parlare al colmo dell’aggressività
Non ti credo.
Devi credermi, perché è la verità.
Guardami negli occhi e dimmi che non mi ami!
Lo sto già facendo, ti sto dicendo che non ti amo.
Le pupille di Martin, perché ora Linnette lo vedeva, poteva vederlo e poteva persino sentire il dolore delle sue unghie che si conficcavano nei palmi sotto l’impulso della rabbia, tremavano come lucciole nel buio.
E tutte le cose….tutte le cose che ci siamo detti? Non contano più niente adesso?
Vera emise una sorta di risata stridula
Hai coraggio a farmele notare ora. Dopo che tante volte mi hai insultato, hai usato con me il tono più brutale di questo mondo, adesso vieni qui e…
E’ vero, sono stato brusco con te, ma…
Dire che sei stato brusco è solo un eufemismo! Tu….tu non sai cosa sia la dolcezza, Martin non so proprio come ho fatto a tradire Victor con te, Victor è così buono, e sensibile…
Già, rispose ironico Martin, aspetta che sappia di noi due.
Non credere che lascerò che lo sappia da te! Glielo dirò io!
Non ne avrai il coraggio!
E invece si. Stavo per farlo il giorno stesso che è partito!
E’partito?Per andare dove?
Cosa stai insinuando?
Oh, niente!
Mi fai schifo, Martin. Esci subito da casa mia, non voglio che resti un altro minuto.
Ti prego, fammi restare ancora.
Il tono di Martin, da aggressivo si era fatto implorante.
No, esci!
Per piacere! Lascia che rimanga ancora qui, con te. Parliamo un po’, come abbiamo fatto spesso, le prime volte…
Ma perché? Ci stiamo lasciando, Martin.
In un gesto così insolitamente delicato per un uomo rude come lui, Martin fece scorrere le dita sull’esile polso di Vera, e mormorò
Per una ragione che……si chiama Vera…
Fu allora che Vera cedette. In quell’istante fatale in cui si ricordò cos’era stato a farla innamorare, o almeno credere di esserlo, di Martin…e mentre lei si sedeva, fiduciosa, egli si frugava le tasche alla ricerca di qualcosa…
Beviamo qualcosa?
Ho……ho ancora dello spumante in cantina.
Vuoi conservarlo per quando torna Victor?
No. E’ meglio farlo sparire.
Non vuoi che ci sia nulla a ricordarti di me. E’ così, vero?

Linnette si scostò con un gesto rapido.
“Che c’è?” domandò Martin.
“Niente, io…preferisco andare a casa da sola.”
“Perché?” Martin la guardava con aria meravigliata.
“Perché…preferisco così”
“Andiamo, stai male, si vede…”
Le si riavvicinò, e mentre le sfiorava il braccia, Linnette ebbe chiara la visione di Vera, priva di sensi, il corpo addormentato sorretto dalle braccia poderose di Martin……egli la caricò in macchina, e si sedette al posto di guida. Il volto bianco di Vera, riverso sul sedile, dava su di esso piccoli colpetti mentre l’auto procedeva sul terreno accidentato, in direzione del lago. E quando furono abbastanza vicini, Martin scese, guardandosi attorno per precauzione, e trasse il corpo di Vera fino al sedile a fianco. Aggrappò le sue mani al volante e, veloce come un gatto, tirò il freno a mano……fu un attimo velocissimo, quello in cui tirò il freno a mano e subito chiuse lo sportello, imprigionando Vera nel suo crudele destino, rendendola vittima degli eventi che essa stessa aveva scatenato……
“Nooooooo!”
Il grido, selvaggio ed improvviso di Linnette, rimbombò fra le fronde come in una stanza vuota. I suoi occhi inorriditi si incrociarono con quelli di Martin, che invece sembravano trovare in lei una conferma. Adesso tutto aveva un senso per lei, come se a poco a poco i pezzi del mosaico si fossero ricomposti sotto la guida di un’entità invisibile. Forse era Vera, chissà….

“Victor! Victor!”
Victor accorse fuori e trovò Mary Ellen in canadese, bagnata fradicia ed ansimante.
“Mary! – esclamò – Che ti salta in mente di uscire con questa tempesta?”
“E’ sparita! Victor, è sparita!” disse in modo quasi isterico Mary Ellen.
“Chi?”
“Linnette! – gridò la ragazza afferrandolo per le braccia, in un gesto che egli avvertì come soffusione di calore sulla sua pelle nuda – E’ sparita! Capisci? Non la vedo da stamattina a pranzo!”
“E’…è venuta da me, questo pomeriggio…”
“Da te?”
Gli occhi di Mary Ellen si sgranarono in un universo oscuro come la notte.
“Si. Non lo sapevi?”
“E poi? Ti ha detto dove andava?”
“No…credevo fosse tornata a casa.”
“Andiamo a cercarla, Victor!” ordinò Mary Ellen in tono che rasentava la disperazione.
“Va, bene. Prendo una felpa.”

Linnette correva sotto l’acqua scrosciante, dopo che, senza sapere come, era riuscita a divincolarsi dalla stretta di Martin, il quale certamente era dietro di lei che la inseguiva. Ricordava solo di avergli sferrato un calcio in un polpaccio, prima di cominciare questa folle corsa verso l’ignoto. Se era stata fortunata, egli s’era almeno accasciato, permettendole di prendere tempo. Diversamente, l’avrebbe raggiunta con molta facilità, visto il suo scarso allenamento. Sentiva il cuore rimbalzarle come un pallone dal petto alla gola, e le arterie del collo pulsarle come fiumi in piena; non sapeva bene se fosse la paura o la corsa, ma sospettava che fossero entrambe le cose.
Nei pochi istanti che aveva avuto a sua disposizione per realizzare la realtà degli eventi, aveva compreso che Martin aveva ascoltato la sua conversazione con Victor; forse li aveva seguiti, a loro insaputa, sino ai piedi della soffitta e lì aveva sentito tutto. Benché ella ancora non sapesse che era lui il misterioso amante di Vera, sospettava che potesse scoprirlo; e il fatto che tanto crudelmente avesse ucciso Vera non era certo rassicurante per lei. Avrebbe ucciso anche lei, che sapeva tutto, a meno che non fosse stata abbastanza veloce da riuscire a sfuggirgli.
A poco a poco cominciava a sentire le gambe molli, cedevoli come pasta frolla; non era più nel mezzo del bosco, e le case cominciavano ad apparirle come tante piccole ancore di salvezza.
Non riusciva più a correre, oramai.
Il suo respiro era diventato pesante e colmo di sibili come quello di un vecchio bronchitico cronico. Le braccia le ciondolavano lungo il torace, curvo e dolorante. I fusti legnosi che si stagliavano dinnanzi a lei iniziavano a ruotare come in un surreale girotondo silvestre; levò lo sguardo al cielo, ed ebbe la visione di un cielo carico di tempesta che emergeva attraverso le foglie di cui si caricavano i rami.
Il profumo della terra bagnata di temporale si levava fluttuando e giungeva sino alle sue narici…
“Presa!”
La voce di Martin giunse alle orecchie di Linnette come un eco lontano; la morsa in cui la poderosa mano di lui strinse il suo braccio, venne a malapena percepita da Linnette.
La testa le girava, lo stomaco faceva capriole nel suo addome, le foglie e gli alberi cominciavano a perdere la propria consistenza…perfino l’odore della pioggia, svaniva dissolvendosi nel nulla.
“Martin, che stai facendo?”
Una voce un poco nota e un poco no giunse da lontano.
“Guardalo, Victor!! Ha un coltellooooo!!!”
“Lasciala! Lasciala subito!!”
Ma cosa stava succedendo? Le voci che urlavano e che parlavano di coltelli le penetravano nel capo, senza che ella potesse comprenderne il senso.
Fece in tempo a vedere il volto di Martin, nebuloso, che si chinava su di lei; poi, sprofondò nell’oblìo.

Mary Ellen si affacciò nella camera di Linnette, mentre costei era indaffarata a riempire dei suoi vestiti ed effetti personali una robusta valigia rossa.
“Linnette…”
“Che c’è?”
“C’è Victor. – rispose piano Mary – Ti vuole salutare.”
Linnette annuì col capo, ma non smise di riporre gli indumenti in valigia. Victor entrò, chiedendo, sommessamente : “E’ permesso?”
“Vieni, Victor.” Disse Linnette.
Victor avanzò verso di lei.
“Volevo dirti…grazie.”
Senza sollevare il capo, la ragazza rispose:
“E di che?”
“Di avermi regalato…la verità.”
Linnette sorrise di cortesia, ma conservò la stessa, seria espressione che portava dietro dal giorno della confessione di Martin.
“E’ stato doloroso – disse Victor – ma è stato meglio saperlo.”
Gli occhi tristi di Linnette si posarono sopra i suoi.
“Victor, mi dispiace che l’abbia scoperto così – replicò – Ma ti posso assicurare una cosa, che so con certezza come sapevo con certezza che Martin l’aveva uccisa: lei amava te.”
Victor abbassò il capo.
“E’ per questo che l’ha uccisa, capisci? Perché amava te.” Insistè Linnette.
Victor si diresse verso la finestra, con le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni.
“Hai finito il tuo romanzo?” le domandò, per dissipare l’atmosfera soffocante che si era creata.
“No. – rispose lei in tono grave – Non so neanche se continuerò a scrivere, d’ora in poi.”
Victor si voltò di scatto verso di lei.
“Perché?”
“Ecco, in tutta questa faccenda, mi è sembrato quasi di essere una medium. E ti garantisco, non è stato per nulla piacevole.”
Linnette chiuse con vigore la valigia rossa, e si avvicinò al suo interlocutore.
“Cosa mai sono gli scrittori – riprese sommessamente – se non dei medium, attraverso i quali personaggi di altri mondi, forse dell’oltretomba, rivivono?”
Victor la guardava interdetto.
Linnette lo baciò su una guancia, e si congedò.

Giuliana carta

   
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