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Roberto Mahlab
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Inserito - 28/10/2003 :  22:22:39  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Roberto Mahlab Invia un Messaggio Privato a Roberto Mahlab

La segretaria entro' in ufficio, intirizzita dalla gelida temperatura esterna di quell'inizio di inverno :"che freddo fuori!". "Mi spiace, scusa", risposi.

Un senso di colpa esistenziale, atavico, me ne ero reso conto quando avevo avvertito un male nell'anima dopo aver sconfitto ripetutamente chi mi aveva insegnato a giocare a scacchi e poi mi ero vergognato dopo aver battuto l'amico che mi aveva addestrato nei rudimenti del biliardo, avrei voluto sprofondare vedendo la sua delusione. E il primo posto nella gara di tiro con l'arco, era mio, ma non potei reggere l'evidente desiderio disegnato sul volto del concorrente e amico in seconda posizione e mi deconcentrai e scagliai la freccia vincente al di la' della staccionata, arrivai terzo ma la mia coscienza fu serena.

Una fredda sera di novembre, anni prima, andavo ancora a scuola, mi trovavo sotto l'insegna del club di judo nella elegante via alberata, non mi chiedevo mai la ragione che mi avvicinava alle cose, era il permanente desiderio disperato e irrefrenabile di vedere oltre che mi estraniava da me stesso e mi avrebbe sempre reso freddo di fronte ai rischi dell'avventura e alle conseguenze. Entrai e mi iscrissi. Comprai lo judogi, la casacca e i pantaloni larghi di resistente cotone bianco, appresi i sei movimenti per legarmi alla vita la mia prima e unica cintura bianca, secondo la tradizione europea dei colori che indicano il percorso dell'apprendimento della disciplina sportiva. Il dottor Jigoro Kano aveva creato l'arte dello judo in Giappone alla fine del novecento e in oriente non sono i colori, ma i livelli, ad indicare il grado di maestria. Un esercizio per la mente, non solo per il corpo, un divertimento e un invito alla lealta', uno studio su come usare la forza e lo slancio dell'avversario per averne ragione.
A piedi nudi sul tatami, il materasso d'allenamento che ricopriva il pavimento, mi unii agli altri allievi negli esercizi preliminari di riscaldamento e scioglimento muscolare. Il maestro spiego' i rudimenti delle prese piu' semplici e poi invito' a formare le coppie per i primi combattimenti.

Mi capito' il piu' alto e meglio piantato tra i frequentatori, chinammo il capo nel gesto di saluto e ci affrontammo, mi sentii sollevato da terra e volai all'indietro sbattendo la nuca, colsi troppo tardi il suggerimento del maestro di tenere sempre la testa in avanti.
Per sei settimane, due volte alla settimana, fui invitato al combattimento dallo stesso allievo possente e per sei settimane, due volte alla settimana, mi sentii sollevare da terra e ricaddi sbattendo la nuca.

Mi accorsi che gli altri parlavano sottovoce di quanto accadeva, la sproporzionata coppia era fissa, combattevamo solo tra di noi e la fine era sempre la medesima.
Fino a che una sera il maestro mi invito' a cimentarmi con lui. Per lunghi minuti tento' di atterrarmi con diverse mosse, ma non ci riusci', sapevo giostrare passi e peso per tenerlo lontano. L'esperienza la ebbe vinta e volai, anche se la mia testa non colpi' il terreno, il maestro me la tenne sollevata per impedirlo. Mi saluto' con orgoglio chinando il capo e indico' agli altri che ero pronto a confrontarmi con chiunque. Quella sera ebbi molti avversari e gli incontri furono equilibrati. Alla lezione successiva l'allievo dal fisico possente mi si paro' nuovamente di fronte, chiedendomi di riprendere a gareggiare con lui. Abbassammo il capo in segno di saluto, evitai il suo primo attacco al ginocchio facendolo avanzare, gli sollevai il braccio usando il suo stesso slancio, mi volsi, feci leva sulle gambe e lo sollevai con un kata guruma al di sopra delle mie spalle, gli sostenni il capo, in modo che cadendo non lo battesse sul terreno. Gli altri allievi si fermarono e il maestro mi osservo', come volesse chiedermi il perche', il perche' di prima, dei primi combattimenti. Alla fine della serata riposi il judogi nella borsa, uscii, ricordo l'abbraccio della notte freddissima, non mi volsi indietro e non tornai piu'. La casacca rimase da allora appesa nel mio armadio.

Tokio, anni dopo

Correvo all'alba nel parco attorno al New Otani, l'avvincente bellezza dei germogli che i giardini giapponesi avvolgono attorno agli occhi e ai cuori, fontane e laghetti, ponticelli e cascate, bonsai e alberi secolari, i colori definiti e netti di ogni foglia. I caratteri katakana erano facilmente decifrabili e nel pomeriggio la metropolitana mi sbarco' presso la baia, zona in cui si trovava l'ufficio dell'appuntamento d'affari. Mi avevano detto che i giapponesi sono duri con gli stranieri, ma il mio ospite non faceva che versarmi il te' e presentarmi i nuovi prodotti sorridendo. Tornai alla Ginza, il quartiere dei superbi grandi magazzini all'ora di chiusura delle attivita' e all'improvviso mi ritrovai immerso in una folla ordinata e gigantesca che si disperdeva successivamente nei mille rivoli delle scale mobili dei negozi dalle scintillanti vetrine.
Avevo fame e il paravento di legno e tessuto decorato rendeva gradevole il locale che avevo adocchiato, ordinai il mio piatto preferito, tempura, gli squisiti gamberetti, mi portarono come spuntino del sushi, i bocconcini di pesce crudo ripieni di riso, ne mangiai uno solo, il mio stomaco protesto'. Il ritorno sul battello che attraversava la baia di Tokio fu un misto tra l'incubo e la delizia, quel pesce era evidentemente avariato e stavo malissimo, ma il panorama era straordinario, sentivo la febbre salire, freddo, ero freddo, l'avversario era anche li', in quel momento dentro di me, dovevo resistere e guarire. Mangiai solo yogurt per tutta la settimana, il shinkansen, il treno proiettile, mi porto' attraverso il paese, il monte Fuji era al centro di un bosco e di un laghetto che parevano fatati tanto erano belli, tra le brume di quella giornata che ricordo come un sogno. Eppure ero li', vivo, c'ero, toccavo e respiravo quell'aria.
Dagli uffici di Tokio partirono le mie imprese successive, i viaggi, le scoperte, i popoli, il lavoro, i paesi, il mio ospite in Giappone mi aveva consegnato una mappa e una chiave, non mi fermai piu'. A volte lasciavo entrare chi mi voleva male e usavo il suo stesso slancio per farlo cadere. A volte mi dispiaceva. Avevo desiderio di chiedere scusa, anche se altrimenti avrebbero preso la mia vita.

Mi sedetti sempre ai piedi del maestro, era un insegnamento che amavo con tutto il mio cuore, non sentivo sforzo a chinare il capo di fronte a lui, era l'umilta' della gioia di seguire la strada che mi indicava con le sue azioni, i suoi pensieri, era il mio seme che avrei dovuto saper raccogliere e quando sarei stato consapevole, qualche cosa sarebbe uscita anche da me, il seme avrebbe prodotto. All'inizio accettiamo ognuno come maestro, l'allievo ricerca la via senza giudicare, la fortuna sta nel riconoscere il buon maestro. Chi segue il cattivo maestro infine distrugge, la violenza della sua forza causa la sua fine.

L'armadio era di nuovo aperto, un'altra nuova gelida sera di autunno, il judogi era appeso, la robusta bianca tela di cotone tenuta sempre pulita con amore nonostante il tempo, lo osservavo, con un sospiro lo presi, era giunto nuovamente il tempo di indossarlo. Sei mosse per legare attorno alla vita la mia cintura bianca, non ero mai andato oltre quella cintura bianca, Jogoro Kano diceva che se qualcuno mai avesse raggiunto un grado superiore al decimo livello di cintura nella nomenclatura originale della disciplina dello judo, sarebbe poi ripassato per il colore bianco, completando il ciclo, come i cicli della vita, che trascendono i colori.

Roberto


   
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