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 4 Favole e Racconti / Tales - Galleria artistica
 Viola
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Gabriella Cuscinà
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Inserito - 17/02/2003 :  09:05:44  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Gabriella Cuscinà Invia un Messaggio Privato a Gabriella Cuscinà

Viola

Aveva sempre supposto di essere una persona sfortunata e affrontava la vita con un atteggiamento di sfiducia e di abbattimento, con un’espressione di mestizia dipinta sul volto ed una piega amara tra le labbra.
Viola si lamentava sempre e si lagnava di tutto e di tutti. Conversando con un’amica, una volta, aveva detto che se si fosse recata a fare il bagno nella piscina di Lourds, sicuramente sarebbe affogata.
Era una signora bionda e dal viso grave, longilinea, ma un po’ segaligna. Portava i capelli raccolti dietro la nuca e gli occhiali da miope le conferivano un’aria eternamente triste. Sposata con un medico impegnatissimo che la lasciava continuamente sola.
I due figlioli erano ormai grandi ed anche loro stavano più fuori che dentro casa.
Di ciò si lamentava in continuazione e blaterava che doveva fare tutto da sola per la famiglia senza che nessuno l’aiutasse.
“In questa casa devo pensare a tutto io!” gridava ogni tanto. Ma gli interessati facevano orecchie da mercante.
La disavventura di quella volta, la confermò nel suo convincimento di essere un campione di iattura.
Da molto tempo, la coinquilina del piano superiore la infastidiva col suo comportamento villano ed incivile. Buttava dal balcone ogni genere di rifiuto, che puntualmente andava a finire su quello di Violetta. Lasciava cadere finanche l’acqua sporca, quando lavava il suo terrazzo, e quella pioggia infetta non era certo una benedizione del cielo.
Viola aveva provato a chiedere gentilmente alla signora di evitare certi domestici comportamenti, ma quella aveva alzato le spalle dicendo che in casa sua poteva fare ciò che voleva. Allora glielo aveva chiesto perentoriamente, ma senza alcun risultato. Si era rivolta all’amministratore dello stabile, ma anche lui non era riuscito a far desistere l’educatissima cittadina dal lanciare schifezze dal balcone.
Insomma era esasperata e un bel giorno pensò di denunciare la cosa ai carabinieri.
Si recò alla più vicina stazione e chiese di poter parlare con il maresciallo.
La introdussero in un ufficio e vide in piedi, dinanzi a una finestra, il rappresentante dell’arma intento ad osservare la città con un binocolo.
“Accidentaccio!” diceva “ Prima ti vendono questi dannati arnesi e poi ti accorgi che non funzionano! Non si vede un corno!”
Violetta osservò meglio la scena ed esordì:
“Secondo me, maresciallo, se togliesse la custodia dalle lenti del binocolo, vedrebbe certamente meglio.”
Senza girarsi a guardare l’interlocutrice, quello ribatté:
“Custodia? Che custodia? Ah! C’è una custodia che copre i vetri! Certo! La devo togliere!”
Fatta questa operazione, sembrò soddisfatto del risultato:
“Oh! Ora sì! Vedo tutto come a un palmo di naso.”
Poi si girò di scatto:
“Lei chi è scusi? Cosa desidera?”
“Dovrei fare una denuncia. Sono la signora Viola Bianco e abito in via Civiletti n.5.”
“Ah, capisco una denuncia. Che genere di denuncia, signora?”
Si era seduto alla sua scrivania ed aveva incrociato le mani.
“Contro la coinquilina del piano superiore che butta sempre i rifiuti sul mio balcone.”
Il maresciallo si grattò il naso grosso e prominente.
“Certo è contro legge. Ma non potrebbe evitare di denunciare il fatto?”
“Cosa? E perché maresciallo? Dovrei continuare a vivere in un letamaio?”
“Non esageriamo; in fondo si tratta solo del balcone, non di tutta la casa.”
“Ci mancherebbe pure che mi sporcasse tutta la casa! Ma egualmente quel balcone sudicio è un’indecenza e fonte d’infezioni. Io voglio fare la denuncia.”
“Le consiglierei di farne a meno, comunque se insiste, è nel suo diritto.”
Già, i diritti dei cittadini. Pensò Violetta. E intanto s’accorgeva che per esporre la sua querela, farla scrivere ad un altro carabiniere, rileggerla e sottoscriverla, sarebbero trascorse non meno di due ore.
Quando finalmente uscì dalla caserma, tirò un sospiro di sollievo e s’avviò verso la propria auto che aveva posteggiato di fronte.
Guardò e non la vide. Riguardò e non c’era. Girò il capo a destra e a manca, ma l’automobile era scomparsa.
Maledizione! E ora? Dov’era la sua auto? Forse l’avevano rimossa con il carro attrezzi?
Studiò bene la segnaletica di quella strada e si rese conto di avere posteggiato
in zona rimozione.
Tornò pazientemente alla stazione e chiese ai carabinieri il favore d’informarsi con i vigili urbani dove avessero condotto l’auto Fiat Uno azzurra posteggiata lì di fronte. Trascorse un’altra ora prima di poter ricevere una risposta.
L’auto si trovava in una rimessa a pochi isolati di distanza. Le fornirono l’esatto indirizzo e Violetta, imprecando fra di sé, vi si diresse a passo solerte.
Giunta sul luogo, pagò quanto dovuto e salì sulla sua auto. Mise in moto e partì.
La rimessa era chiusa da un cancello. Dunque scese per aprirlo, si rimise in macchina e lo oltrepassò. Ridiscese e tornò educatamente indietro per richiuderlo. Nel fare quest’ultima operazione, non s’accorse che un ragazzo, in motoretta, si era avvicinato. Con velocità fulminea le scippò la borsa.
Le erano rimaste le sole chiavi dell’auto in mano. Avrebbe potuto ritornare per l’ennesima volta dai carabinieri a denunziare il fatto e a chiedere aiuto, ma la rabbia era troppo forte, l’istinto di autodifesa e di rivalsa non la fecero riflettere.
Salì di corsa in macchina e schizzando in avanti con un sibilo sinistro di pneumatici, si mise all’inseguimento dello scippatore.
Vedeva la motoretta infilarsi a razzo fra le varie strade, ma Viola non la perdeva di vista e continuò imperterrita l’inseguimento. Correva anche lei ad un’andatura non consentita in città. Non badava più a niente, né a passanti, né ad incroci.
Il ragazzo s’era accorto d’essere inseguito ed accelerava sempre più.
L’inseguimento era divenuto molto pericoloso, ma lei non se ne rendeva conto, tutta presa e compresa a non perderlo di vista.
Nel passato, il marito le aveva detto di ritenerla una guidatrice provetta, ma un po’ spericolata. In effetti, in quel momento, dava l’impressione d’essere Schumacher al volante.
Mentre guidava concitata, pensava che dentro alla borsa sottratta, c’erano le chiavi della sua casa, il portafoglio con duecento euro, patente e carta d’identità. Vi erano le foto di marito e figli, l’agenda elettronica. Vi era finanche la foto dei genitori scomparsi. Più ci pensava, più sentiva crescere la rabbia e schiacciava l’acceleratore.
Lo scippatore s’infilava tra le viuzze e lei continuava a stargli dietro. Visto dalle spalle, non mostrava più di diciotto anni. Svoltò ad un incrocio ed il motore slittò.
Viola pensò in cuor suo: “Potessi spezzarti l’osso del collo!”
In quel preciso istante, il veicolo sbandò paurosamente ed andò ad urtare contro un palo della luce. Il ragazzo vi fu catapultato contro. Poi sbalzato a terra, rimase inerte. Pareva un barattino senza fili. Il capo, privo di casco, era ripiegato e contorto.
Lei aveva frenato e guardava la scena inorridita. Scese dall’auto e corse verso quel corpo immobile. Non vi era sangue, non vedeva ferite, ma quell’immobilità le produsse un senso di terrore.
Lo toccò, gridò, lo scosse, urlò a gran voce. Raccolse la sua borsa e continuò a scuoterlo senza risultato.
Se si fosse svegliato, gli avrebbe regalato tutte le borse che possedeva.
Invece, in quel viso giovane, gli occhi continuavano a restare chiusi. I capelli riccioluti erano scomposti in modo impressionante. Le braccia e le mani abbandonate sull’asfalto.
Si erano avvicinate delle persone. Chiese aiuto per trasportarlo sulla sua auto. Quindi, a sirene spiegate, si diresse al più vicino Pronto Soccorso.
I medici dissero subito che era già morto. Deceduto per frattura della base cranica e delle vertebre del collo.
La Polizia le chiese come fosse avvenuto l’incidente, ma Viola non disse che stava inseguendo il ragazzo. Si limitò a dire che lo aveva visto urtare contro un palo e s’era fermata a soccorrerlo. D’altra parte, al momento dell’impatto, nessuno s’era accorto dell’inseguimento e che lei avesse recuperato la borsa.
La causa del tremendo infortunio fu attribuita all’eccessiva velocità del conducente.
Non rivelò neppure ai propri familiari la realtà dei fatti. Giurò a se stessa che avrebbe conservato il segreto sino alla morte. Ma il rimorso è un cattivo compagno. Il sentirsi colpevole è una terribile punizione per chi abbia una colpa.
Viola cominciò a condannarsi. Provava una sorta di sollievo nel farlo.
Se ci condanniamo da soli, è come se gli altri non avessero il diritto di farlo.
Pensò che doveva confessarsi con un sacerdote.
Questi le fece capire che non c’era stata intenzionalità nel suo gesto. Aveva agito per autodifesa. Il peccato non era stato mortale poiché privo di piena avvertenza e deliberato consenso. L’unica colpa grave era stata quella d’avere mentito alla forze dell’ordine. Ma anche di ciò la sentiva profondamente pentita. In poche parole l’assolse e cercò di dare pace alla sua anima angosciata.
Quella pace era però difficile da trovare. Talora Viola guardava suo figlio, che aveva circa l’età di quel ragazzo, e sentiva stringersi il cuore. Quel poveretto poteva essere vivo e vegeto se non fosse stato per lei. Non riusciva a perdonarsi.
Il sacerdote l’aveva assolta. Lei non ci riusciva.
Per fede, credeva che il Padre Eterno l’avesse perdonata. Ma non provava la stessa misericordia verso se stessa.
Ne parlò con il marito e gli rivelò la verità, piangendo.
Quello l’abbracciò e la consolò.
“Violetta, tu non c’entri. E’ stata tutta colpa sua. Ti ha fatto del male e ti sei difesa.
Non gli hai detto di andare a sbattere contro un palo. Non pensarci più.”
“Sì, ma ho causato l’incidente! E non ho detto niente alla Polizia!”
Poi, improvvisamente, ebbe un altro sussulto di memoria:
“E e e, ho desiderato che morisse, mentre l’inseguivo!”
A questo punto, le lacrime e i singhiozzi furono convulsi e irrefrenabili.
Il marito la stringeva e si sentiva sconfortato anche lui.
“Io ti conosco. E’ stata la rabbia che te lo ha fatto desiderare. Non avresti mai voluto che morisse sul serio! Dai, smettila!"
Ma ormai Viola avvertiva una nuova lucidità mentale. L’essersi confidata l’aveva fatta sbloccare. Il peso che aveva sul cuore era di natura strana. Come di chi senta in debito con il mondo.
“No. Ora so quello che devo fare. Ai miei figli predico sempre che le leggi vanno rispettate. Io per prima le devo rispettare. Mi devo autodenunziare. Dirò alla Polizia quello che è veramente successo.”
Il marito la guardò stralunato.
“Ma che dici! E perché?”
Poi, l’espressione del suo sguardo era improvvisamente cambiata. Vi era tanta luce. La contemplava incantato, come quando erano fidanzati. L’osservava in silenzio con occhi adoranti.
“Perché è giusto così. Domani andrò alla Polizia. Se abbiamo un debito con la società, dobbiamo pagarlo.”
Nel dire quelle parole, s’era sentita di nuovo bene. Era leggera e felice. La sua anima era tornata in pace.
Il giorno dopo, le sembrò che tutto fosse più roseo. Aveva preso la giusta decisione. Si sentiva nuovamente in pace con se stessa.
Nella cassetta delle lettere ebbe la sgradita sorpresa di trovare una contravvenzione a suo carico.
Il giorno dell’inseguimento le avevano spiccato una multa per aver attraversato un crocevia con il semaforo rosso.
Ma la Polizia la stava aspettando.


Gabriella Cuscinà

   
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