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 Ragazzo del '99
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luisa camponesco
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Ragazzo del '99


In una sera di maggio del 1899 il calesse del dottor Righetti, si fermò davanti alla casa di campagna di Giovanni Landini.
Le donne correvano sotto il porticato portando secchi d’acqua calda e lenzuola candide odorose di lavanda e già la luna faceva la sua apparizione in un cielo sfumato d’azzurro quando un vagito si diffuse nell’aia.
Giovanni provò una intensa emozione, tipica dell’attesa di sapere.
- Sior Nanni, sior Nanni l’è un maschietto el végnas a idìl (venga a vederlo)
Giovanni non se lo fece ripetere, volò su quelle scale di legno che parevano cedere ad ogni passo fino a raggiungere la camera da letto.
Teresa, la sua adorata sposa, sembrava un angelo tanto era bella mentre teneva fra le braccia un frugoletto roseo e urlante.
- Ciao, Cesare Alberto – disse all’indirizzo del neonato e la risposta fu uno sbadiglio.
Cesare Alberto Landini aveva fatto il suo ingresso in questo mondo, con le aspettative che ogni essere umano spera di realizzare non appena spalanca gli occhi alla vita.

°°°

Il secolo si apriva all’insegna delle grandi invenzioni, gli Zeppelin solcavano i cieli e Marconi, col suo telegrafo senza fili, sperimentò la prima trasmissione atlantica. Tutto questo però neppure sfiorava la tranquillità quotidiana della fattoria di Giovanni. Il lavoro dei campi seguiva il ritmo delle stagioni, semina, mietitura e gli animali da accudire. Cesare Alberto cresceva, correva scalzo nell’aia all’inseguimento delle galline sparpagliandole ovunque, tirava la coda al gatto e scalava le cataste della legna.
- Diventerà un alpino questo mio ragazzo - commentava Giovanni vedendo il figlio arrampicarsi sugli alberi.
Ma non si può sempre giocare, così anche per Cesare Alberto suonò la campanella della scuola. Era il mese di ottobre e una nebbiolina sottile avvolgeva ogni cosa nella campagna della bassa bresciana, Giovanni issò il figlio sul calesse e dopo uno schiocco con la lingua il vecchio ronzino si mise pigramente in marcia.
I bambini sostavano davanti al portone, qualcuno piangeva altri venivano spinti dalle loro mamma dentro il buio corridoio dove un maestro li invitava a salire su scale altrettanto buie
- Mi raccomando Cesare, comportati bene - Giovanni consegnò al figlio il cestino del pranzo contenente una bella pagnotta con tanto salame e due cachi e una fetta di torta.

Faceva freddo in quell’aula, macchie verdastre di umidità si annidavano su parte del soffitto. Cesare Alberto guardandole immaginava fossero draghi che inseguivano fanciulle. Una gomitata interruppe i suoi pensieri.
- Ciao te, come ti chiami?
- Cesare Alberto
- Hai due nomi, allora devi essere ricco, io sono Bepi. Cos’hai nel cestino?
- Roba da mangiare.
- Vedere, vedere.
Il maestro li interruppe chiedendo loro se avessero il sillabario. Cesare lo teneva sotto la giacca e lo mostrò con un certo orgoglio, infatti erano in pochi a potersi permettere di comperare libri e quaderni. Bepi chinò il capo immusonito, lui purtroppo non aveva nulla.
Quando il maestro iniziò la lezione Cesare aprì il libro a pagina uno, Bepi torceva il collo per sbirciare e Cesare, con noncuranza, spostò il sillabario al centro del banco.
Divise anche il pranzo, mezza pagnotta ciascuno, un caco a testa ma fu molto indeciso sulla fetta di torta. Bepi gli venne incontro dicendogli che non gli piacevano i dolci e non era vero.
Nel tardo pomeriggio Giovanni venne a prendere il figlio a scuola e lo trovò seduto sul muricciolo insieme a Bepi.
- Papà, papà, lui può venire con noi?
- Credo si sapere chi sei – disse rivolto al bambino – sei il figlio dell’Antonio il mezzadro. Certo che può venire con noi passiamo giusto vicino alla sua casa.
Si divertirono a giocare sul calesse i due bambini e per uno straordinario gioco del destino ebbe inizio una amicizia solida e leale che li avrebbe accompagnati negli anni a venire.

L’infanzia passa sempre in fretta e l’adolescenza si affaccia come una nuova stagione portando novità e nuove scoperte, così avvenne anche per i due ragazzi.
Cesare con un forcone metteva fieno nella mangiatoria delle mucche quando Bepi arrivò tutto trafelato.
-Ehi Cece sbrigati vieni con me!
- Non posso ho da fare-
- Finirai dopo ma questa non te le puoi perdere.
Cesare si convinse a seguire l’amico.
- Dove andiamo?
- Al fiume a vedere le lavandaie.
- Perché cosa fanno?
Cesare non capiva ma si fidava e quando giunsero al fiume si nascosero dietro un cespuglio.
- E adesso? – chiese Cesare.
- Adesso entrano in acqua e tirano su le sottane. Vedrai che ridere.
Il diavolo insegna a fare le pentole e non i coperchi, infatti una delle donne si accorse della loro presenza e si mise a tirare sassi.
- Via de ché, lasarù
- Scappiamo Bepi o le prendiamo.
I due si misero a corre come avessero le ali ai piedi, ma l’episodio non passò impunito.
Mamma Teresa quella sera rimproverò il figlio, Giovanni cercò di minimizzare, ma Teresa non ne volle sapere. La medesima cosa fece la mamma di Bepi e i due furono messi a lavorare nei campi per tutta la settimana.

Giovanni era seriamente preoccupato, parlava poco e spesso si assentava dalla fattoria.
- Cosa c’è Nanni? È successo qualcosa? – Teresa aspettava risposte.
Nel grande letto della loro camera, nel silenzio della sera i due si scambiavano le impressioni della giornata oppure parlavano del lavoro fatto nella conduzione agricola del loro podere.
- Ha scritto mio fratello, ci aspetta in città al più presto. Mi ha anche chiesto se possiamo portargli un po’ uova e verdure, sai la guerra non si sta mettendo bene.
Già la guerra, era più facile non pensarci nella tranquillità della loro casa, ma le notizie arrivavano e Giovanni ne sapeva qualcosa.
- Domani mattina preparo tutto, meglio farlo al più presto così sapremo. – Teresa si girò su di un fianco, ma il sonno non veniva.
La primavera pareva tardare, si era già alla metà di marzo e nel prato resistevano ancora grumi di neve ghiacciata, Teresa s’era alzata di buon’ora, il latte caldo sul tavolo con la polenta abbrustolita e del formaggio. Giovanni la raggiunse poco dopo.
- Cesare dorme ancora?
- No, l’ho mandato a prendere le uova.
- Fra due mesi farà diciassette anni è già un uomo.
- È solo un ragazzo! – esclamò con veemenza Teresa brandendo un mestolo. Giovanni chinò il capo e sedette a tavola..
La porta si spalancò di colpo, Cesare entrò col cesto della uova e le gote arrossate.
- Eccomi, sarò pronto in un attimo.
- Cesare mi spiace – intervenne Giovanni – qualcuno deve restare a casa. Gli animali vanno accuditi e poi noi saremo di ritorno il più presto possibile.
La delusione del ragazzo era evidente, quasi palpabile.
- Sono stato a Brescia solo da bambino e poi mi piacerebbe salutare gli zii.
- Credimi figliolo sarà per un’altra occasione.
Cesare sedette a tavola e prese a spalmare il formaggio sulla polenta, almeno l’appetito non gli mancava.

Il sole era già alto nel cielo quando Giovanni e Teresa raggiunsero le prime case della città. C’era molto traffico, militari con carri e i cavalli, ordini gridati, passanti frettolosi, pareva un altro mondo così diverso dalla campagna.
Raggiunsero a fatica il numero venti di via Re Galantuomo si fermarono ad osservare la targhetta dorata sul portone con la scritta Quirino Landini vicino al battente a forma di manina.
Poco dopo Quirino scese ad aprire.
- Meno male che siete arrivati, salite in casa.
Attraversarono un cortiletto circondato da un porticato con al centro un pozzo. La famiglia della cognata era benestante e si vedeva anche nell’arredamento dell’appartamento. La guerra però aveva segnato tutti, erano rimaste solo le donne, Quirino non era partito per il fronte a causa di un difetto al cuore, però si adoperava in ogni modo ed essendo l’unico uomo rimasto si sentiva responsabile del benessere della moglie, suocera e cognate.
- Dov’è Adele? – chiese Teresa porgendo il cesto delle uova.
- Adele e le sue sorelle sono al magazzino stanno preparando bende da inviare al fronte, ma sedetevi devo dirvi una cosa importante.
Giovanni era in ansia qualcosa gli diceva che non erano buone notizie.
- Ieri sono passato al comando, per sapere se potevo rendermi utile, e circolavano voci che presto chiameranno alle armi i ragazzi nati nel ’99 e se non sbaglio Cesare Alberto ha proprio questa età.
- Che il Signore ci protegga! – esclamò Teresa coprendosi il volto con le mani.
- Cosa possiamo fare? – chiese Giovanni.
- Conosco un medico, mi deve dei favori e….
- No - fu la risposta secca di Giovanni .- Ti ringrazio ma non posso accettare.
- Perché, perché – prese a gridare Teresa colpendo con i piccoli pugni il petto del marito.
- Lo sai bene anche tu, Cesare non accetterebbe mai. Pensi che a me faccia piacere? Mi si spezza il cuore al solo pensiero.
Teresa si lasciò andare ad un pianto silenzioso

Un ritorno mesto verso casa, ognuno preso dai propri pensieri a cercare soluzioni o vie d’uscita, la corona del rosario stretta fra le mani di Teresa. Il tramonto tingeva di un rosa pallido l’orizzonte quando il calesse imboccò la strada in terra battuta che conduceva alla fattoria.
La guerra sembrava così lontana, nella campagna tutto era in pace, un cane abbaiò in lontananza, un coniglio attraversò veloce la strada. E a parte questo nulla era cambiato.
Un filo di fumo usciva dal camino segno che Cesare aveva acceso il fuoco.
Il tavolo era apparecchiato e un profumo di minestrone accolse Giovanni e Teresa nella grande cucina.
- Sarete stanchi così ho preparato la cena per farvi una sorpresa. – le gote arrossate e gli occhi sorridenti Cesare era impaziente di sapere notizie. – Come sta lo zio Quirino?
Teresa scoppiò in lacrime e corse in camera.
- Ho fatto qualcosa di sbagliato?
- No, figliolo al contrario tua madre non si aspettava che preparassi la cena, però dobbiamo parlare è una cosa importante.
Parlarono fitto, fitto quella sera padre e figlio. Cesare ogni tanto annuiva col capo e alla fine sorrise.
- Allora è per questo che mamma è preoccupata, che sollievo pensavo peggio.
Giovanni osservava ammirato il figlio, un viso da ragazzo e un cuore generoso.

Seduto accanto alla madre Cesare le parlò, voleva vederla sorridere, le raccontò quello che aveva fatto durante il giorno in loro assenza e a poco la tensione si allentò.

Alla fine di maggio la chiamata alle armi divenne una realtà, Cesare era emozionato e non vedeva l’ora di partire corse dall’amico Bepi a dare la notizia.
- Beato te che vai, non mi hanno accettato sai perché sono il primo di otto fratelli e non ho più il papà. – Bepi era molto dispiaciuto e si vedeva dall’espressione del viso. – Fammi un piacere Cece suonale anche per me ai quei crucchi.

Il Comando Territoriale di Peschiera era in pieno fermento, le giovanissime reclute arrivavano a gruppi, un baffuto caporale li guidò nel dormitorio, dove i ragazzi deposero i loro sacchi.
Cesare si guardava attorno nella speranza di vedere facce conosciute. Una manata sulle spalle e una mano si protese verso di lui.
- Ciao sono Gennarino
- Io Cesare Alberto, ma tu non sei di queste parti.
- Ahh si sente, vengo da Napoli, ma sono italiano ed è questo che conta.
Vicini di branda, Cesare si sentì a suo agio con il nuovo compagno che parlava con quella bella cadenza. Divennero subito amici.
L’addestramento fu durissimo ma i tempi stringevano, pochi mesi per imparare ad imbracciare un moschetto, inserire la baionetta e infilarsi sotto i fili spinati.
Il caporale, un ometto simpatico che non sapeva pronunciare la zeta e per questo oggetto di scherzi da parte dei ragazzi, entrò in camerata.
- Ragassi oggi viene un fotografo da Milano, quindi chi vuole si tiri a lucido e si presenti in foresteria fra un’ora da adesso.
- A Ce! Scéttate – Gennarino scuoteva Cesare ancora assonnato nella sua branda – Me lo voglio fa nu ritratto da mannà a mamma mia.
L’idea parve buona a tutti compagni che corsero a prendere spazzole e pettini per mettersi in ordine.

La notizia di Caporetto esplose come una bomba e la ritirata dell’esercito italiano verso il Tagliamento fece cadere tutti in una profonda frustrazione. Per i ragazzi del ’99 era giunto il momento della partenza.
La tradotta lasciò Peschiera, nel dicembre del 1917, con il suo carico di gioventù, Cesare e Gennarino osservavano dal finestrino le dolci colline del Soave.
- Quando tutto sarà finito dovrai venire a Napoli
- Quando tutto sarà finito tu verrai nella mia fattoria di campagna.

Non c’era molto da dire, il fronte si stava avvicinando e i ragazzi pensavano alla famiglia e alla loro casa, domandandosi quando e se l’avrebbero rivista.

I primi mesi del 1918 li trascorsero nella zona dei Colli Euganei, completarono l’addestramento mentre l’esercito italiano serrava i ranghi e si ricompattava.
Il caporale, quello che non pronunciava le zeta venne a portare i nuovi ordini di servizio.
- Ragassi adesso si fa sul serio, il nostro reparto va sul Grappa, partensa domani mattina all’alba.
Quella notte Cesare la trascorse a scrivere lunghe lettere per i genitori a Bepi, l’amico di sempre e alla ragazza che avrebbe voluto rivedere.

°°°

L’altipiano del Grappa nella sua desolata bellezza fu la casa di Cesare nei mesi successivi, Gennarino cadde a metà giugno durante l’offensiva austriaca, conosciuta anche come la battaglia del solstizio
Il caporale cercava in tutti i modi di tener alto il morale dei soldati e nessuno rideva più per la sua strana pronuncia.
- Ragassi, bisogna tenere la posisione a tutti costi, mica mollare neh! –
E la posizione fu tenuta

Quella sera di ottobre era particolarmente tiepida, la luna rischiarava la montagna. Cesare, con elmetto e fucile, era di vedetta e per un attimo si incantò davanti a quello spettacolo. Un tuono poi un lampo e lui non era più lì era a casa.

Sotto il portico Teresa portava il pranzo deponendolo su di una lunga tavola imbandita.
- Mamma.
- Eccoti finalmente dove sei stato fino adesso? Ti sei lavato le mani?
- Mamma.
- Ma dove stai andando ? Devi restare figliolo la festa non è ancora cominciata.
- Non so mamma, non so se posso…..

La luce si spense a poco a poco mentre un fiore rosso sbocciava sul petto di Cesare.
In quello stesso istante, laggiù sul Piave, i primi fanti attraversavano il fiume.








Luisa Camponesco

   
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