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 Il carillon
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Renato Attolini
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Inserito - 29/06/2009 :  17:15:38  Mostra Profilo  Visita la Homepage di Renato Attolini Invia un Messaggio Privato a Renato Attolini
So per certo che nessuno crederà a quanto sto per dirvi, ma poco ha importanza, l’avevo messo in preventivo d’altronde. Devo dire che qualche tentativo l’avevo già fatto ma non appena cominciavo a raccontare quello che mi era successo i miei interlocutori s’irrigidivano, mi scrutavano in faccia con un’espressione a dir poco perplessa e poi andavano via. Nessuno mi ha preso in considerazione e tutti si sono allontanati da me compresi parenti ed amici, se mai questa parola possa essere appropriata. Eppure non è il germe della pazzia che si è insinuato in me, lo potrei giurare su qualsiasi cosa se solo me ne dessero l’opportunità. Per questo motivo che affido a questo mio scritto la mia storia, in maniera tale che qualcuno, se mai dovesse leggerla, potrà sapere tutta la verità, anche se poi probabilmente non mi crederà.
Tutto ebbe inizio tempo fa (poco, tanto, non mi ricordo). Ero un brillante dirigente di un’azienda nazionale con sedi anche all’estero dove spesso mi recavo. Età? Sui 40 portati splendidamente grazie all’esclusiva palestra che frequentavo 3-4 volte la settimana, al tennis e allo sci in inverno. Sposato? Ma neanche a parlarne! Single convinto, abitavo da solo in una mansarda arredata da un valente architetto in stile modernissimo, in uno dei quartieri più “in” della metropoli. Avevo comunque una ragazza fissa che avevo ben istruito: se pronunciava la parola “matrimonio” gli avevo fatto credere che mi sarei trasformato in un lupo mannaro. A parte questo piccolo particolare il nostro rapporto filava liscio, anche se io non disdegnavo la compagnia di qualche avvenente fanciulla, quando se ne presentava l’occasione. Soldi? Non mi potevo proprio lamentare. Il mio stipendio era tale che mi permetteva, come avrete capito, un tenore di vita decisamente alto. Vacanze? Solo in posti esotici. Auto? Rigorosamente un SUV, 3000 di cilindrata, sedili di pelle, dotato di ogni confort possibile. Mi potevate vedere scorazzare a tutta velocità anche in città, strombazzando e lampeggiando a quelle noiosissime e fastidiose utilitarie da me ribattezzate “scatolette del tonno”, che non si levavano di torno.
Senza troppo fatica potete anche immaginare com’ero: uno di quei tipi che sembrano i padroni del mondo, sempre elegantissimi, perennemente abbronzati, (quando non c’erano le ferie, provvedevano le lampade), cellulare ultima generazione incollato costantemente all’orecchio, tono di voce ai limiti della sopportabilità umana in modo tale che tutti sapessero le grandi problematiche che dovevo affrontare e se anche a chi era costretto suo malgrado ad ascoltare non gliene poteva fregare di meno l‘importante era farsi sentire, farsi vedere, in un’altra parola “apparire”.
Beh, questo ero io, qualche tempo fa o forse in un’altra vita o in un’altra dimensione. Poi accadde quello che ho deciso di tramandare ai posteri.
Una domenica mattina gironzolavo per un mercatino dell’antiquariato in cerca di vecchi “33 giri” anni ‘60/’70 de quali ero appassionato. Trovai una bancarella che li vendeva e dopo aver tirato sul prezzo (non erano costosi, ma era una mia abitudine) li comprai e feci per andarmene, quando il venditore mi fermò.
“Ascolti, signore, le interessa un carillon?”
“Un carillon?” feci io sorpreso “E che me ne faccio? No grazie, non m’interessa proprio!”
“Ma guardi questo qui” mi disse mostrandomene uno “E’ di ottima fattura! Le faccio un prezzo stracciato!”
La sua insistenza m’incuriosì perciò presi in mano quell’oggetto e lo esaminai. Era davvero fatto bene, ma aveva un che d‘insolito: al posto della solita ballerina c’era una matrioska, la famosa bambolina russa. Chiesi al venditore se veniva da quel paese e lui mi rispose facendo spallucce:
“Beh..é probabile, di sicuro so che è fatto artigianalmente, tutto a mano. Non è bellissimo?”
“Si, lo sarà anche, però come le ho già detto non m’interessa, grazie lo stesso” Stavo per riconsegnarglielo e finalmente andarmene quando quell’uomo mi bloccò ancora:
“Senta, facciamo così. Lo consideri un omaggio, visto che mi ha comprato un po’ di roba. Glielo regalo.”
A quel punto, anche per finire quella conversazione che cominciava ad annoiarmi, accettai.
“Va bene se è così lo prendo, grazie” dissi
“Di niente. Adesso è tutto suo!”
Quella sottolineatura finale mi lasciò un po’ interdetto, ma non ci feci caso più di tanto. Eppoi avevo già deciso di regalarlo alla mia ragazza, tanto lei andava pazza per quel genere di cose, non come me. Anzi glielo avrei anche dato subito, dato che ci dovevamo vedere in centro per l’aperitivo. Arrivai al bar, ma lei non c’era per cui cominciai a bere il primo drink in compagnia di alcuni amici. Dopo un po’ mi squillò il cellulare: era lei.
“Ciao tesoro, dove sei? Ti sto aspettando.” Feci io col mio solito tono gioviale.
Dall’altra parte del filo ci fu un attimo di silenzio, poi lei mi rispose con una voce un po’ imbarazzata.
“Ascoltami….scusami se te lo dico così, forse sono un po’ vigliacca…ma è che voglio chiudere con te.”
“Come?” quasi urlai “Stai scherzando, vero?”
“No, parlo sul serio. Io voglio qualcosa di diverso dalla vita, desidero una famiglia, dei bambini e tu questo non me lo puoi dare.”.
“Ma lo hai sempre saputo e fino ad ora ti è andata bene così” il mio tono adesso era parecchio risentito.
“Si, lo so, ma non più!” insistette lei “Mi spiace, perdonami” e chiuse la comunicazione.
Rimasi qualche secondo inebetito guardando il telefono. Non me l’aspettavo per nulla, ero assolutamente sorpreso. La cosa che mi dava più fastidio era che di solito toccava a me mollare le mie donne, non viceversa. Il mio orgoglio e la mia vanità avevano subito un duro colpo.
“Ok non facciamone un dramma” pensai tra me ancora leggermente frastornato “Il mondo è pieno di donne che aspettano solo di essere conquistate.”.
Arrivai a casa e in quel momento mi accorsi del carillon. Non ero riuscito a darlo alla mia ormai ex, perciò mi toccava tenerlo. Lo misi in funzione e le note un po’ metalliche tipiche di quei oggetti, de “Il lago dei cigni” di Čajkovskij si propagarono nell’aria. Poi lo posai distrattamente su un mobile e sprofondai sul divano. Ormai era tardi per chiamare qualcuno con cui passare il resto della giornata, perciò infilai un paio di film nel lettore DVD, mi preparai un panino, presi una birra et voilà mi ero bello che organizzato. Non ero abituato a passare da solo la domenica, ma non me ne feci un grosso problema tanto, pensai, sarà solo per oggi. Sarà stata la “novità”, saranno stati i film forse un po’ noiosi, sarà stato chissà cos’altro sta di fatto che complice la birra che doveva essere una, ma furono un po’ di più mi addormentai cadendo in un sonno profondo.
La luce del giorno mi svegliò di soprassalto, guardai l’orologio ed ebbi un sussulto: avevo dormito quasi dodici ore ed erano le otto del mattino. La nebbia che mi ottenebrava il cervello si dileguò all’istante, da lì a poco avevo un appuntamento importante perciò balzai su di scatto, mi precipitai a fare la doccia e la barba e a vestirmi di tutto punto in pochi minuti. Ciò nonostante ero in ritardo notevole e questo non era da me. Presi la mia potente auto e comincia a guidare come se fossi ad un rally, ma non avevo fatto i conti col traffico cittadino. Continuavo a suonare il clacson all’impazzata con la presunzione che le lunghe code di veicoli da vanti a me si aprissero come il Mar Rosso a Mosè, ma ottenni solo dei gestacci da parte degli altri automobilisti. Ad un certo punto vidi uno spiraglio, diedi gas e cercai di sorpassare tutti. Feci appena in tempo a vedere una donna che attraversava la strada, inoltre sulle strisce pedonali. Cercai di evitarla buttandomi sulla mia sinistra invadendo la corsia preferenziale dei tram. Ne stava giusto passando uno in quel momento, frenai di colpo la macchina sbandò investendo prima la donna e poi schiantandosi contro il tram che deragliò dai binari. Dopo fu il buio totale. Mi svegliai il giorno dopo pesto, dolorante e con abbondanti fasciature in un letto d’ospedale. Me l’ero cavata tutto sommato abbastanza bene, le gambe mi facevano male, ma le braccia potevo muoverle liberamente. Non sapevo ancora le conseguenze dell’incidente, ma qualcuno aveva voluto che ne venissi a conoscenza. Sul comodino, infatti, c’era un giornale aperto sulla cronaca cittadina e un titolo a nove colonne recitava così: “SUV INVESTE DONNA INCINTA E FA DERAGLIARE UN TRAM” ma furono i sottotitoli ad agghiacciarmi: “La poveretta è morta sul colpo, parecchi feriti sul mezzo pubblico”.
Il mondo mi crollò addosso, un dolore lancinante mi pervase ancora più forte delle ferite. Fui dimesso dopo una settimana e posso dire che quei giorni in ospedale furono veramente un inferno. Fui curato a dovere e con tutte le premure del caso, ma con grande freddezza da parte di medici e infermieri nei cui occhi leggevo un’accusa tremenda: “ASSASSINO!” Il male che mi fece questo trattamento si sommò a quello fisico ed al rimorso che cominciava a dilaniarmi l’animo.
Passai un mese in convalescenza a casa ma poi decisi che era ora di ritornare al lavoro, mi avrebbe aiutato a rimettermi in forza e a riprendermi del tutto.
Normalmente quando andavo in ditta tutti mi salutavano chi con deferenza chi con allegria. Quella volta i saluti furono appena accennati e decisamente gelidi. Pure la mia bella segretaria che di solito mi gratificava di sorrisi a trentadue denti fu abbastanza formale. La prima cosa che mi disse fu che il grande capo mi voleva parlare. I miei rapporti con lui erano sempre stati ottimi e amichevoli e spesso mi aveva coinvolto in decisioni che riguardavano tutta l’azienda.
Entrai nel suo mega- ufficio dove solitamente ero accolto con qualche battuta scherzosa o qualche imprecazione se qualcosa stava andando storto, ma sempre con vivacità al contrario di quel momento quando, abbastanza rigido, mi strinse la mano, s’informò sul mio stato di salute e m’invitò ad accomodarmi.
“Vengo subito al dunque” disse schiarendosi la gola “sai bene che non amo i preamboli. In questo periodo che non ci sei stato abbiamo potuto appurare che la nostra società sta attraversando un periodo di crisi, come del resto tutti al giorno d’oggi, perciò abbiamo deciso di tagliare i costi a cominciare da qualche alto dirigente che lasceremo a casa e ……tu sei fra questi. Mi spiace molto.”
Rimasi senza parole, incredulo. Poi ebbi una violenta reazione.
“Ma che cavolo stai dicendo! Queste sono idiozie! Io sono sempre stato il tuo braccio destro, la nostra ditta è sempre andata bene e l’abbiamo guidata insieme praticamente io e te. Non puoi farmi questo, ci sono ben altre persone da licenziare, ma non certo me.”. urlai.
Lui si toccò il mento pensieroso, stette qualche secondo in silenzio, poi parlò e le sue parole mi trafissero come mille frecce.
“Va bene, sarò più esplicito. Sai bene che per me tu sei il più valente collaboratore che io possa avere. Mai e poi mai avrei rinunciato a te in altre circostanze, ma…devi capire che la nostra azienda ha anche un’immagine da difendere e tu…con quel casino che hai combinato la stai rovinando. Tutti parlano di te come di un disgraziato che ha ucciso una povera donna, per di più incinta, col suo bolide. Tutti ti additano come un mostro, il classico sbruffone pieno di soldi che può spadroneggiare per la città e poi combina disastri alla gente normale. Nessuno vorrà più fare contratti con noi se ci sei ancora tu. Ti ripeto, mi spiace davvero tanto”.
Ero annichilito. Per un attimo pensai a tutte le volte che io e lui avevamo deciso di li liberarci di collaboratori poco produttivi, senza avere neanche un minimo di riguardo. Anzi se avevano famiglia, facevamo battute volgari e pesanti del tipo che la moglie avrebbe provveduto in qualche modo a portare a casa un po’ di soldi. Ridevamo di gusto, allegri per essercelo levato dai piedi.
Adesso ero io che dovevo andarmene e lo feci uscendo da quel ufficio sbattendo la porta. Arrivai a casa col taxi (il mio SUV era andato quasi distrutto) e mi buttai sulla poltrona prendendomi la testa fra le mani. Quando sollevai lo sguardo lo vidi: il carillon era lì fermo nello stesso posto dove l’avevo lasciato tempo fa. Un senso di gelo mi pervase mentre un’idea chiara e precisa si stagliava nella mia mente: da quando l’avevo portato a casa mi era successa una serie infinita di cose negative. La più immediata, l’essere mollato dalla mia ragazza, poi l’incidente, la morte di quella poveretta ed infinite la perdita del posto di lavoro. Non potevano essere coincidenze: quell’oggetto era maledetto. Mi vennero in mente le parole di chi me l’aveva dato: “Adesso è tutto suo.” E mi ricordai che le aveva pronunciate con un tono di voce che allora mi parve strano ma che adesso avevo capito che era di sollievo. Se n’era finalmente liberato. Fissai la matrioska e con terrore notai che la sua espressione immobile si stava trasformando dapprima in un sorriso e poi in un ghigno beffardo. Le note de “Il lago dei cigni” si sprigionarono improvvisamente nell’aria senza che io avessi azionato quell’arnese e aumentarono sempre più di volume fino a diventare assordanti. Ad un certo punto la testa della bambola si staccò e rotolò fino ai miei piedi. Gridai con quanto fiato ebbi in gola e chiusi gli occhi. Quando tremando li riaprii la musica era cessata e il carillon era perfettamente integro al suo posto. Dovevo liberarmene al più presto. Lo impacchettai, lo infilai in un sacchetto, scesi per strada e lo buttai nella spazzatura. Mi sentii decisamente meglio, forse l’incubo era finito. Il resto della giornata lo trascorsi pensando al modo di riorganizzare la mia vita e prima di ogni altra cosa a cercare un altro posto di lavoro. Andai a dormire abbastanza sereno, anche se il mio sonno fu alquanto agitato. A mattino quando mi svegliai, lo vidi: era ancora lì sempre nel medesimo posto.
A questo punto chi sta leggendo questa mia lettera penserà che gli avvenimenti di quei giorni mi avessero fatto uscire completamente di senno. Vi prego di credermi che le cose non stanno così.
Ho tentato di distruggerlo, farlo a pezzi, incendiarlo: niente! Ogni volta me lo ritrovavo in casa come se non l’avessi nemmeno scalfito.
Ora non voglio tediarvi oltre per cui vi dirò come furono gli sviluppi. Le cose per me andarono di male in peggio, anzi precipitarono per essere più esatti. Normalmente nel nostro paese la giustizia è una macchina che va così lenta che al confronto una lumaca è un razzo supersonico. Nel mio caso, invece, forse perché quell’incidente aveva avuto una risonanza nazionale istruirono il processo in quattro e quattr’otto. Un altro particolare a me sfavorevole che di solito i testimoni latitano, mentre per me quasi ci fu la fila di persone pronte a dichiarare quanto avevano visto. L’udienza fu brevissima anche perché mi dichiarai colpevole (che senso avrebbe avuto il contrario?) e la sentenza fu tre anni con la condizionale per omicidio colposo e il pagamento dei danni. L’unica cosa positiva che non feci neanche un giorno di galera, ma la mia assicurazione pagò solo parzialmente, per cui fui costretto a vendere il mio superattico per far fronte al risarcimento e trasferirmi poi in un appartamentino in affitto in periferia.
E adesso? Non sono riuscito a trovare più un lavoro, i pochi soldi che mi sono rimasti li scialacquo nel bere, addio vacanze, auto di lusso e ovviamente belle fanciulle. Nessuno crede alla mia storia e io mi trascino per le strade del quartiere, continuando a ripetere come una cantilena: “E’ tutta colpa del carillon!”, perciò la gente di qui mi chiama “Il pazzo del carillon”. Sono anche tornato in quel mercatino per cercare quel venditore, ma chissà com’è era sparito. A proposito quell’aggeggio ce l’ho sempre con me, non lo lascio più neanche a casa, se non riesco ad eliminarlo tanto vale che me lo porti appresso. Sovente mi abbandono sui gradini del sagrato della chiesa rionale nella quale trovo il conforto di qualche buona parola da parte del parroco. Spesso qualcuno mi fa anche l’elemosina ma in genere mi evitano come un appestato. Un giorno una deliziosa bambina vedendomi ha detto alla sua mamma: “Mamma, mi compri quel carillon che ha quel signore? Mi piace tanto!” Stavo per risolvere tutti i miei problemi, bastava dire alla bimba: “Tienilo, te lo regalo. Adesso è tuo!” Quelle parole magiche mi avrebbero liberato per sempre. Stavo per pronunciarle poi non ho avuto il coraggio vedendo il visetto di quella bimbetta. Perché farle del male? Forse tutto quello che mi è capitato me lo sono meritato, perciò feci il muso cattivo e la madre la trascinò via guardandomi con riprovazione. Non saprà mai il bene che ho fatto a sua figlia.
Ho scritto questa lettera perché voi sappiate. La tengo qui nella mia giacca quindi se com’è probabile qualche gelido mattino di gennaio mi troverete stecchito per terra, prendetela e leggetela. Anzi se già la state leggendo vuol dire che è già successo. Un’ultima cosa: il carillon seppellitelo con me, non deve fare del male più a nessun altro.

   
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