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emofione
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Inserito - 10/03/2006 :  10:50:34  Mostra Profilo Invia un Messaggio Privato a emofione
10/03/2006

Stanotte ho fatto un sogno o forse, più propriamente, mi torovavo in uno dei migliaia di dormiveglia che caratterizzano ciascuna delle mie nottate di tregenda.
Avevo visto, qualche ora prima, un film a casa di Gianlu, ed in quella pellicola si raccontava la storia, peraltro vera, di una ragazza uccisa nel 1975 il cui assassino venne scoperto ed arrestato solo 25 anni dopo. La caratteristica principale del film, però, era il fatto che la storia veniva narrata dalla ragazza medesima, la quale, passo per passo, ricostruiva l’intera vicenda, come voce fuori campo.
Dunque, quando le lancette avevano da poco superato le due, dopo essere tornato a casa ed aver bevuto un ettolitro di acqua a mo’ di cammello (a me la pizza fa sempre lo stesso insopportabile effetto…), mi sono coricato ed è lì che è iniziato il tutto, non saprei dire di preciso quando e per quanto tempo, ma giurerei che non fossero passati che pochi minuti:

Me ne stavo sospeso in aria, e vedevo tutto dall’alto, le case, le luci, le persone.
Ero morto e ne ero consapevole, ma non mi dispiaceva affatto la funesta circostanza, perché sapevo di esservi predestinato, avevo piena coscienza del fatto che Emiliano era esattamente quello, un essere cresciuto, maturato e spremutosi nell’arco di quegli splendidi 30 anni, e che non aveva (ammetto la stranezza della cosa ma tant’è, i sogni mica li puoi guidare) più niente di sensato né da dire né, soprattutto, da dare o da ricevere. Insomma il fatto che fossi già da tempo un trentunenne, era quasi avvertito, a livello inconscio, come un inutile patetico prolungamento di una vita che, al contrario, fino all’anno prima, era stata, a insindacabile giudizio del sottoscritto (e vorrei anche vedere, ognuno definirà la propria, io parlo della mia) piena, bella, vera, “viva”, intensa, coinvolgente, ricca, ma che, proprio per questo, un po’ come per i giocatori quando raggiungono l’apice della loro carriera, aveva un senso solamente per il fatto di finire così, dal nulla, senza strazi, senza lamenti, quasi come evento naturale, come quando Platini, ancora 31enne, aveva dato l’addio al calcio ed alla sua Juve.
Avevo vissuto, avevo capito, avevo sentito, avevo imparato, avevo sofferto, avevo amato, avevo sbagliato, avevo cercato di cambiare me stesso e le cose che non mi tornavano, avevo lottato, avevo sudato, avevo dato fondo alle mi energie, avevo finito la “stamina” proprio in corrispondenza del 30esimo giro, quello finale, e stavo procedendo in folle, sospinto da tutto lo slancio precedente, lungo una discesa sempre meno ripida, ad una velocità ogni secondo inferiore, come quando da giovane mi buttavo giù dal Santuario di Montenero, con la mia mitica vespina, e nel silenzio assoluto sfrecciavo fino a valle beandomi del venticello che mi accarezzava la pelle di bimbo ancora desideroso di conoscere, di sapere, di vedere, magari accompagnato nell’impresa da una gentil donzella (allora si trattava di una biondina mia coetanea e mia "amica" da sempre).
All’improvviso ero sopra il mio funerale, volteggiavo nell’aria proprio sopra alla gente riunita per me. E, di nuovo, non c’erano lacrime, non c’era tristezza, né in me né in tutte quelle persone (che strano, pensavo ancora tra l’incredulo e il divertito, più che l’incavolato), che erano tante, tantissime, la moltitudine che avevo sempre sognato, variopinta, eterogenea, piena di differenze e di peculiarità che accentuavano queste divergenze, ma accomunata dal fatto di essere lì per uno scopo preciso, quello di salutarmi.
E c’era la musica, non ricordo cosa ma mi sembrava bella, ed era un corteo non dico carnascialesco ma insomma di gente sana ed appagata, il cui viso, certo, era stato solcato da qualche naturale lacrima, ma che il sole aveva già asciugato e reso nuovamente luminoso e colorato.
Ed ovviamente c’erano proprio tutti, i miei cari, gli amici del cuore, i parenti, i conoscenti, anche qualche ex pseudo-nemico che veniva a rendere onore all’ex pseudo avversario, come fanno gli uomini veri.
Ma, soprattutto, c’erano loro due, diversissime e splendide ciascuna a modo proprio, una scuretta e di nero vestita, non tanto per il discorso del lutto, ma proprio perché era così che si era sempre vista più carina (e voleva essere carina nel salutare Emi), l’altra con qualche tonalità in più, stretta in un paio di jeans fascianti e con degli occhialoni da sole, non per coprire quei begli occhi gonfi, no davvero, ma perché anche lei voleva essere bella al cospetto di quel rompipalle di Emi, che le stava guardando.
Loro non si erano mai state molto simpatiche, anzi si erano sopportate proprio a fatica allorquando avevano dovuto, anche solo per pochi minuti, starsene vicine.
Ma la cosa straordinaria (inteso proprio da tutti i punti di vista), il solo vero miracolo del sogno in questione, è che, d’un tratto, le vedevo dapprima sorridersi leggiadre, poi avvicinarsi, infine stringersi in un interminabile abbraccio, come se l’energia che si scambiavano in quel momento potesse raggiungere chi non aveva avuto più modo di bearsene, pur bramandola giorno dopo giorno, ora dopo ora, istante dopo istante.
Era come se volessero darglielo adesso quel calore, che certo gli avevano donato per tanto tempo ed in modo talmente bello da suscitare in lui, quello sì, copiose lacrime al sol ricordo di tutti quei momenti, ma fino ad un certo punto, perché poi la vita va così, esiste un naturale evolversi delle vicende, dei rapporti, e lo si deve accettare, se si vuole andare avanti, se non si è predestinati ad altro, se non si è paghi insomma, e se si vuole far parte di una certa comunità di persone che magari qualche regola etica, morale, comportamentale, per non mettersi sempre in discussione o non sentirsi costantemente sul filo del rasoio, se la deve dare, la deve seguire.
Insomma quel momento era magico, e ricordo perfettamente di essermi svegliato di soprassalto ma col sorriso sulle labbra, e la faccia stanca ma non contratta, anzi rilassata, e di aver pensato “Domani mattina vado dall’argentino, in via Garibaldi, prenoto e glielo dico di cominciare a pensare a quale sia la maniera migliore (e forse l’unica) per disegnare e suggellare l’ abbraccio perfetto”, perché è così che ho sempre fatto, perché per me il tattoo ha valore solo in corrispondenza di svolte epocali, quando sento di dover rinascere o, comunque, di voler salutare per sempre il vecchio Emiliano.
Che poi vediamo, magari me lo tatuo solo sull’anima, la pelle liscia, che nascondeva la dura corazza di sotto, fa solo parte di quel che ero, adesso non mi serve più…


   
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