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Elena Fiorentini
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Interviste dalla manifestazione di Padova:

incontra la poesia
svoltasi nel mese di marzo al Caffè Pedrocchi di Padova.

Tecnica e magia del canto: Emilio Rentocchini


Emilio Rentocchini vive a Sassuolo, in provincia di Modena, dove è nato nel 1949.
Ha pubblicato cinque raccolte, la più recente delle quali, Ottave, uscita presso Garzanti nel 2001, contiene i versi composti nell’arco di tredici anni.
Accompagnata da positivi riscontri critici su alcuni dei principali periodici e quotidiani, la poesia di Rentocchini (premiata al “Lanciano” e al “Città di Bergamo”) trova spazio nelle Mappe della letteratura europea e mediterranea. Da Gogol al Postmoderno (Bruno Mondadori) e in Poesia del Novecento italiano (Carocci).

In questa intervista Emilio Rentocchini parla della sua poesia in dialetto sassolese.
Una lingua morbida e musicale che risuona in profondità e si adatta "a tutte le pieghe del dire".

Sono andata a sentire Emilio Rentocchini che leggeva le sue poesie al pubblico di Padova Incontra la Poesia. Non lo conoscevo e non sapevo cosa aspettarmi. Quando la sua voce ha cominciato a risuonare nella Sala Rossini dello Stabilimento Pedrocchi, sono rimasta incantata. Una voce dolce e fragile leggeva in una lingua altrettanto dolce e molto musicale: il dialetto di Sassuolo.
Rentocchini racchiude le parole in una forma poetica elegante e cristallina: l’ottava. Sono otto versi endecasillabi, cui se ne aggiungono altri otto, perché Rentocchini prosegue sempre con la ‘variante’ in italiano. Ma la raffinatezza della composizione non è mai formalismo vuoto: l’equilibrio è continuamente minacciato da una vertigine che toglie il fiato. Pulsano le immagini del paesaggio emiliano, i ricordi del mondo contadino: schegge di una quotidianità che brucia, colta in un soffio, nel suo ‘mentre’, e mai conclusa.

In al drop pràns: in ch’l’òura ch’ogni lus
l’as fa piò chiéta, armàgner fèirem, stèr
segrét damànd i sas: tótt a s’ardùs
e un sél tratgnû ma alsér, un fil ed fèr
ch’al sdèndla tra du mur, un léter sfus
col sô bicér atàch i èin lè a neghèr,
perfèt, al mèl ch’as móv, al tèimp ch’al vòula,
la sbrùsia ‘d ciamèr tótt na volta sòula.

Nel pomeriggio: in quell’ora in cui ogni luce
si fa più quieta, rimaner fermi, stare
segreti come i sassi: tutto s’addensa
e un cielo trattenuto ma leggero, un fil di ferro
che oscilla tra due muri, un litro sfuso
col bicchiere accanto son lì a negare,
perfetti, il male che si muove, il tempo che vola,
la smania di dar nome a tutto una volta sola.

Come ha cominciato a scrivere poesie?

Ho cominciato in italiano, molto piccolo, a dieci undici anni. E anche in dialetto ho cominciato molto presto, però non ho mai pubblicato. Ho pubblicato il primo libro nel 1986, proprio nel mezzo del cammino. Ho sentito finalmente la necessità di pubblicare. Riguardo allo scrivere, credo che tutti scrivano, e a un certo punto molti smettano. Io invece ho continuato.

Qual è il suo rapporto col dialetto?

Abitualmente non parlo il dialetto, se non a monosillabi o a frasi fatte. Però l’ho proprio introiettato nell’infanzia. Era la lingua della famiglia, perché i miei genitori tra loro parlano dialetto, e anche i nonni parlavano in dialetto. Ricordo ancora con grande piacere il fatto che mia madre negli anni ’50 ascoltava sempre alla radio, alla domenica pomeriggio, un programma della sede regionale dell’Emilia Romagna, tutto in dialetto.
Questa lingua mi è rimasta dentro profondamente e anche inconsapevolmente. A quindici sedici anni lo usavo in maniera più tradizionale. Dopo ho capito che per me era qualcosa di più: mi serviva come sonda per attingere in profondità dentro di me. Mi portava in zone non controllate dalla ragione, dalla luce e neanche dalla scuola. Quindi più libere, più pericolose, più sdrucciolevoli ma anche più ricche. Ho cominciato a trascrivere quello che trovavo dentro di me, così come risaliva alla luce.

Come lavorano insieme l’italiano e il dialetto nelle sue poesie?

L’origine della poesia è il dialetto e il grosso del lavoro, soprattutto a livello emotivo, viene fatto in dialetto. Ho pensato fosse giusto costruire una seconda poesia con l’italiano. C’è una prima operazione di recupero, attraverso il dialetto, e una seconda di rielaborazione e di schiarimento, attraverso l’italiano.
In un elzeviro sul Corriere della Sera di qualche anno fa, Giovanni Giudici scrisse una cosa su una mia poesia, e questo mi dimostrò che lui aveva letto anche tutto il dialetto, e non solo l’italiano. Lui disse che le mie non erano traduzioni ma erano piuttosto delle varianti. L’ho trovata una definizione molto precisa: io non mi limito a tradurre le singole parole ma cerco sempre di aggiungere qualche cosa a quello che è già stato detto in dialetto, naturalmente senza tradire.
Faccio coesistere nella stessa pagina italiano e dialetto, e per me la poesia è una sola. Mi servono sedici versi, anziché otto, per fare una poesia, e se questi sedici versi sono divisi in due lingue è un arricchimento.

Cosa c’è di simile e di diverso tra il sassolese delle sue poesie e il sassolese parlato oggi?

Tra il sassolese delle mie poesie e il sassolese parlato c’è sicuramente differenza. Credo che ogni autore pieghi a sé la lingua e la faccia diventare sua, e credo che anche la mia lingua sia diventata più mia. In questa operazione credo di avere compiuto dei cambiamenti che non possono piacere a tutti quelli che parlano il dialetto.
Innanzitutto è una forzatura il fatto di scrivere il dialetto, perché è una lingua orale. E poi siccome tu cerchi di significare, come dice Dante, qualche cosa, usi questa lingua come uno strumento che scaldi col corpo e che in questo modo diventa più adatto a tutte le pieghe del dire. Alla fine viene fuori una lingua ‘nuova’.
C’è differenza tra il mio dialetto e il dialetto parlato a Sassuolo nei decenni scorsi e anche oggi. Secondo me oggi il dialetto è molto italianizzato e io non ho avuto remore a seguire questa corrente. Io uso anche le parole nuove: non credo che questo possa fare male a una lingua. In questo modo continui a farla vivere, a farla sentire viva, mettendo dentro le parole nuove che a lei non appartenevano perché non appartenevano alla realtà contadina, alla dimensione del passato. Per me il dialetto è una lingua estremamente chiusa, con parole forti che hanno una grande storia. Nello stesso tempo continua ad essere una lingua viva nel momento in cui accetti che l’italiano entri in essa.

La musicalità e il ritmo sono molto importanti nelle sue poesie. Mi racconta della sua ispirazione musicale?

Il mio dialetto è, secondo la definizione di Gian Paolo Biasin, un dialetto ‘ispido e duro’. Molto ruvido: non è come il veneto che è dolce, delicato, levigato, soprattutto in bocca alle donne. Il nostro è un dialetto aspro. E allora, non so perché, forse per la mia natura profonda, l’operazione che ho compiuto sul dialetto è stata innanzitutto quella di alleggerirlo, di renderlo più delicato, più morbido. Ho provato a smussarne gli spigoli, a creare un impasto sonoro che corrispondesse più o meno al verso, cioè all’endecasillabo classico, e che rendesse una morbidezza, una bellezza sonora.
C’è stato un critico che dopo avermi sentito leggere ha trovato un accostamento che condivido del tutto: ha parlato di mantra. Credo che questo suono, morbido e ripetuto – perché l’ottava è una forma chiusa e circolare – sia quello che suona profondamente dentro di me. Mentre l’italiano è la lingua che esce da me, il dialetto è entrato in me, mi è piovuto dalle zone circostanti, mi è finito dentro come per sbriciolamento. Se dovessi immaginare visivamente questa situazione, vedrei dei coriandoli che cadono. In questo senso è una lingua essenzialmente sonora: una lingua che hai ascoltato, non avendola parlata. Hai preso questo insieme di suoni, che per te diventavano un suono solo, un suono dolce, probabilmente materno.

Il gruppo Segrè Ensemble ha messo in musica i suoi versi. Com’è stato questo incontro tra la musica e le sue parole?

In questo gruppo di jazzisti suona gente in gamba. La cantante è bravissima e si chiama Sandra Cartolari. Tutto è partito da un ragazzo di Vignola che suona l’armonica. Aveva letto il mio libro precedente che si intitolava Segrè (raccolta che è stata inserita nell’ultimo libro Ottave): in quel periodo lavorava molto negli Stati Uniti e se lo teneva sempre in tasca. Gli è piaciuto talmente tanto che ha raggruppato gli altri musicisti e si sono trovati d’accordo in questo progetto.
È un’operazione un po’ rischiosa per un pubblico tradizionalista; un’operazione diversa dalle solite che trova riscontri entusiastici oppure negativi, però a mio avviso è molto valida. C’è chi dice che la mia poesia non ha nulla a che vedere con il jazz. Invece io non porrei questi limiti. Hanno fatto questo lavoro con passione e il risultato è ottimo. E, come in tutti i CD, dipende dai pezzi. Ci sono alcuni pezzi, tipo La gèra la gira, che sono per me assoluti, anche per l’interpretazione della cantante.

Lei è anche insegnante. Come propone e come si può proporre la poesia a scuola?

Il problema dei problemi. La poesia secondo me sopravvive perché ce l’hanno insegnata a scuola. Ma come ce l’hanno insegnata a scuola? Ce l’hanno insegnata spesso in maniera antipoetica. Allora cosa dobbiamo fare a scuola quando insegniamo poesia? A questo punto della mia carriera sono giunto ad insegnarla soltanto in prima media. La faccio studiare a memoria. Dico: io non voglio che voi capiate niente di quello che leggete. Voi dovete impararla a memoria e basta.
Poi, in seconda e in terza, chiudo con la poesia, per un motivo molto semplice. Ci sono due situazioni che si guardano in faccia. La prima è che a loro non interessa la poesia, e questo mi fa soffrire. La seconda è che a me interessa troppo, e questo mi fa soffrire. Non riesco più a reggere questa doppia sofferenza.
A volte cerco delle soluzioni diverse: una cosa che faccio di solito è partire da quella che per loro è poesia. Per loro credo che poesia sia innanzitutto la canzone, la canzonetta. Dico: portatemi la più bella canzone d’amore che avete sentito in vita vostra. La ascoltiamo tutti, loro trascrivono il testo, lo leggiamo e arriviamo alla conclusione che sono tutte uguali. E allora lì posso inserire la poesia, come qualcosa che agisce contro la medietà. La poesia come eccezione della parola e non come normalità della parola. E a volte qualche piccolo risultato c’è: nella scoperta di questa altra dimensione, qualche sorriso nello sguardo di qualcuno lo trovo.
Però credo sia difficile ottenere dei risultati partendo dalla poesia. Loro sono invasi di canzoni, guardano tutti Mtv. Perfino una poesia di Prévert, che ai nostri tempi – ai miei tempi – nella sua immediatezza era quasi banale, a loro risulta un po’ ostica. Questo mi fa pensare al modo che loro hanno di sentire la poeticità delle parole, delle frasi e della vita intorno. Sono giunto alla conclusione che il rock ha fatto terra bruciata. È una musica elementare, e quindi non ti insegna a salire. E’ una musica tutta in battere, tutta di forza, di ritmo, di rumore. Lo dice uno che ha seguito il rock. Ci sono delle immense eccezioni: io volevo fare la tesi su Bob Dylan, ma Bob Dylan per me è un poeta. Quelli che ascoltano i ragazzini di oggi non so cosa sono: in fondo non sono neanche dei musicisti. Se noi stacchiamo la musica dalle parole, le parole in sé non sono poesia e la musica in sé non è musica. Ma è talmente veicolata dai mass media che diventa soffocante. È difficile che nascano i fiori dove non c’è aria, e credo che il rock anziché aggiungere aria la tolga. Ma la mia non è una conclusione drastica o assoluta, non è nel mio carattere: domani potrei avere un’opinione diversa.

L’altra sera mi parlava di sincerità: ha detto che la cosa più importante è non imbrogliare le persone. Cosa vuol dire questo quando si scrivono poesie?

Il poeta è un fingitore, come dice Pessoa. Io parlo di verità sul piano umano. Ma nello stesso tempo aggiungo che ci vuole sincerità in campo artistico. Per me la sincerità in campo umano è il rispetto dell’altro. In campo artistico la sincerità è il fatto di non credersi chissà chi e misurare ogni passo con una certa obiettività.
Faccio due esempi. Il primo: io non so bene cosa sia la poesia, non l’ho mai capito: la sento come qualcosa di indefinibile, di imprendibile e sfuggente. È un po’ come la sapienza, la filosofia: qualcosa che tu cerchi sempre. Allora ho cominciato a pubblicare solo quando mi sono sentito almeno un artigiano. Non vado a vendere cose che non so cosa siano, gusci vuoti. Almeno posso dire che, se non sono un poeta, sono un artigiano. La svolta è stato il fatto di prendere questa lingua pesante, greve, che è il dialetto, di lavorarla con pazienza, con ripetizione, fino a farla diventare l’essenza di se stessa. Tenendola dentro a una struttura e dimostrando che la tecnica c’era. Il grande cantante di musica classica è padrone assoluto della tecnica: ma ne è talmente padrone, che da lui esce qualcos’altro, rispetto alla tecnica. È quel di più, quell’alone, che va oltre: che può essere magia del canto e può essere anche poesia.
Quando mi sono reso conto che possedevo la tecnica, che lavoravo quotidianamente e che quello che facevo, lo facevo utilizzando una pietra umile ma tangibile, che era il dialetto, allora ho detto: posso pubblicare, posso espormi, posso rischiare e non imbroglio nessuno. In questo senso parlavo di sincerità e di serietà.
Secondo esempio: una volta ho fatto una lettura accompagnato da un suonatore di fisarmonica che non conoscevo. Alla fine lui mi ha detto solo una cosa. Mi ha detto: l’artista deve sempre strisciare col petto sul pavimento. Era quindici anni fa e me lo ricordo ancora. Quando lui disse quella frase, io ricordo benissimo cosa immaginai: vidi un pavimento rugoso. Il pavimento di una basilica, una cosa del genere.

Laura Lazzarin


Edited by - Elena Fiorentini on 19/05/2004 18:42:52

Elena Fiorentini
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Per Clara Saioni
Maurizia Rossella
Presentato da Silvio Ramat e accompagnato da Giulia Lanciani, sua traduttrice e massima esperta italiana di letteratura portoghese, nel marzo 2004 il poeta di Oporto Vasco Graça Moura è stato ospite ai martedì del Pedrocchi per "Padova incontra la poesia". E, dopo averlo ascoltato leggere i suoi testi e parlare della sua arte, di politica e cultura (Vasco Graça Moura non è 'solo' poeta, romanziere, drammaturgo, saggista, critico letterario e traduttore di Dante e Petrarca in rima, ma anche deputato europeo, vicepresidente a Bruxelles della Commissione Cultura) resta la sensazione di aver incontrato un mostro di bravura nel senso etimologico del termine: un prodigio, un portento, anche se non ha dato sfoggio di alcuna erudizione.
Graça Moura parla della sua poesia come del proprio modo verbale di stare al mondo. Per lui la parola poetica è un cortocircuito fra il quotidiano e i frammenti del passato, un misto di cultura e archetipi mitologici che affiorano come i relitti di un naufragio. Nel quotidiano si fanno strada, per affiorare nello spazio interiore, quei frammenti significativi di mitologia, cultura e tradizione. Il passato e la contemporaneità restano a galla e si fondono generando una letteratura moderna, opere nuove che comprendono svariati elementi: storia e miti classici, ricordi e aneddoti autobiografici. Perché il passato è un patrimonio attivo che dà senso alla quotidianità ed ogni esperienza è filtrata dalla nostra tradizione culturale, per questo possiamo passare dall'occasionalità alla Storia e restare collegati al grande circuito del tempo mitico di cui facciamo tutti parte.
Dopo avere letto alcuni testi da "Poemas com pessoas" (tradotti dalla Lanciani e tratti dall'antologia "Inchiostro nero che danza sulla carta" da lei curata, pubblicata negli Oscar Mondadori 2002) il poeta precisa che la sua tecnica è voluta, cercata:
"Non credo alla poesia come ispirazione, ma come traspirazione - spiega con un filo d'ironia - è manipolazione della parola, lavoro, risultato di un processo che ha alcuni momenti iniziali spontanei a cui però seguono delle regole. L'autore deve proporre al lettore una struttura ben organizzata e dotata di sonorità. Nel mio caso, devo fare come diceva Pasolini, devo organizzare il caos. Ho bisogno di ordine, per questo rivisito i classici."
Cosa c'entrano i classici e la tradizione con la modernità?
"Anche senza che ce ne accorgiamo, la mitologia e la cultura classica sopravvivono e irrompono nei nostri giorni, oggi possiamo ad esempio incontrare anche noi figure come quelle di Paolo e Francesca o Achille e Pentesilea, magari visitando il museo del Louvre. Io li rivedo e li ripropongo attualizzati nei miei testi, dove però entrano anche temi sociali e lirici, legati ai paesaggi, alla rappresentazione di opere d'arte, pittura, cinema, fotografia, dipende…"
Quali problemi ha incontrato nel tradurre in portoghese Dante e Petrarca?
"Mi sono organizzato e mi sono dato delle regole: prima di tutto fedeltà totale al testo, nel rispetto della metrica e delle rime, alterne e interne. Basta trovare la chiave iniziale e dopo il meccanismo si mette in moto e la macchina parte. Con Dante, ad esempio, mi ero prefissato di tradurre un canto a notte. Sembra tanto, vero? In realtà quella traduzione è stato un lavoro sottocosciente di quarant'anni. Per me la traduzione è come una foto in bianco e nero: se anche non vi distinguo più i colori, comunque riconosco i visi delle persone immortalate. Benché in bianco e nero, la fotografia mantiene una corrispondenza col soggetto originale."
Perché ultimamente ha voluto tradurre proprio il Canzoniere del Petrarca?
"Petrarca è citato e ripreso da tutti, se ne sente sempre parlare, ma finora in Portogallo esistevano le traduzioni di pochi sonetti, il primo a occuparsene fu il grande Camoes, ora possiamo dire che c'è il Canzoniere tradotto in portoghese."
Lei ha spiegato cosa è per lei la poesia. Cosa non è la poesia?
"Non è un linguaggio senza tensione. In ogni caso deve avere tutti gli ingredienti: ritmo, prosodia, espedienti formali, capacità di simulazione, invenzione, autobiografia, riferimenti culturali, citazioni, attualità, anche ironia e autoironia, tutti elementi difficili da reperire a uno a uno perché sono disseminati nel testo."

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Elena Fiorentini
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Conversazione con Titos Patrikios

Il poeta Titos Patrikios racconta in un'intervista il suo percorso poetico e politico.
Esponente di spicco della poesia greca contemporanea, è stato ospite della rassegna Padova Incontra la Poesia.

Da quest'anno la rassegna "Padova incontra la poesia", curata da Silvio Ramat per l'Assessorato alla Cultura, è divenuta internazionale.
Il primo ospite che ha letto i suoi testi davanti al numeroso e attento pubblico della Sala Rossini del caffè Pedrocchi è stato Titos Patrikios, il più celebre poeta greco contemporaneo, nato nel 1928 ad Atene, una vita densa di vicende umane e di importanti esperienze politiche e culturali che in gioventù lo hanno posto nelle file della Resistenza contro i nazifascisti che avevano invaso la Grecia.
La sua militanza politica all'interno della sinistra gli comportò il confino alle isole Macrònisos, dove conobbe il grande poeta Ghiannis Ritsos, il quale ne scoprì il talento e gli fece conoscere Neruda e Majakovskij.
Una volta libero, tornato ad Atene, il giovane Titos pubblicò la sua prima raccolta di poesie, esattamente cinquant'anni fa.

Alla Sala Rossini Patrikios ha letto in greco alcuni testi significativi tratti dal ciclo "L'epopea e i ritratti", affiancato nella versione italiana dal suo traduttore, l'editore italiano Nicola Crocetti, direttore della rivista "Poesia", che sta per pubblicarne un'antologia.
In perfetto italiano, il poeta greco ha subito chiarito quanto l'eredità della cultura ellenica sia stato un pesante fardello per la sua generazione: se da un lato infatti il mito e la tradizione arricchiscono, dall'altro impediscono di sentire il presente. "A suo tempo - spiega Patrikios - abbiamo dovuto rompere con l'antichità per trovare la nostra voce."

Lei ha militato nella sinistra, ha fatto la Resistenza ed è stato deportato. In che modo ritiene che la storia e il vissuto personale siano testimoni e giudici del presente?

Il passato e la storia fanno più ricca la nostra esistenza, senza memoria non possiamo esistere, ma sono assai pericolosi come giudici, poiché un giudizio molto severo può condannarci ad essere docili di fronte al passato.
Ma, come ci insegnano le avanguardie, i post-futuristi e i post- surrealisti che abbandonarono la metrica e la rima per cercare forme nuove, l'arte e la poesia non possono essere docili, la logica interna della poesia è una logica di estremi, non di mezzi termini.
Da una parte stanno la storia e la politica, dall'altra stanno l'arte e la poesia che sono fondamentali per la vita ma hanno logiche diverse. La logica dell'arte è quella dei rovesciamenti, delle rotture e degli estremi senza i quali non può continuare, diventa ripetizione. Noi possiamo sottostare al giudizio della storia senza essere docili: dobbiamo giudicare anche il giudice.

Si riferisce a una presa di posizione di tipo politico?

Una persona che parla in pubblico deve prendere posizione, non può nascondere quel che pensa, ma ciò non significa che debba essere inserito nell'ingranaggio, può anche essere indipendente rispetto alle formazioni politiche.
Nel secolo scorso c'è stata molta poesia politica, ma quest'impegno ha fatto prevalere il bersaglio politico rispetto alla scrittura, in tal modo la poesia perde la sua indipendenza e lo spirito critico. In ogni caso questo è sempre un grande dilemma: senza interesse politico la poesia diviene insipida, con troppo intento politico diviene linguaggio giornalistico, propaganda.

Negli anni Cinquanta, durante l'esilio, lei ha conosciuto il grande poeta Ghiannis Ritsos. Quanto ha significato questa amicizia?

Il legame con Ritsos mi ha influenzato molto, gli devo molto e gli sarò sempre riconoscente, ma, dopo un rapporto molto intenso con l'amico e maestro, ho avuto bisogno di uccidere simbolicamente il padre, una rottura che si è risolta dopo 25 anni, del resto io dovevo fare la mia strada.
Gli elementi biografici sono importanti ma non coincidono con la scrittura. Alcune mie poesie, ad esempio, sono state come delle premonizioni e sono andate davanti al mio vissuto, altre invece sono giunte in ritardo rispetto al mio vissuto.
L'importante è vedere il cammino che ha fatto un poeta, lasciare stare il passato e continuare. Stendhal diceva "Mi dà malinconia leggere i miei libri." E poi, più imparo la letteratura, più fatico a scrivere, non è come in gioventù che non ci pensi…
Adesso vedo tutti i problemi che ci sono nello scrivere, ma continuo, con una certa forma di autoironia che mi permette di vedere le mie straordinarie debolezze.

A tutta prima, le sue poesie sembrano facili e chiare, comprensibili. Come ci riesce?

La chiarezza è un risultato, non ci si arriva subito, io ho scritto anche poesie oscure. Spero che le mie poesie siano chiare ma non semplici, che abbiano molti livelli da scoprire.
Al campo, Ritsos mi ha insegnato che dovevo scrivere e riscrivere, anche cinque volte, e, se occorre, buttare via anche la metà del lavoro. Gli ultimi miei testi mitologici, ad esempio, sembrano semplici, ma sono stati rielaborati una ventina di volte, perché è difficilissimo mettere insieme due-tre parole e se le parole non sono messe in quel certo modo la poesia non tiene. Bisogna avere un notes per prendere appunti. Anche se non servono. Ma intanto bisogna prendere appunti.

Di cosa deve occuparsi la poesia?

La poesia risponde a questioni che ancora non sono poste in essere.
La grande poesia prevede le domande dando piacere, attraverso il piacere della lingua, come fa Dante che anticipa fin dai primi versi Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai in una selva oscura/ che la diritta via era smarrita…
La grande poesia prevede le domande, però mi piacerebbe dire che cosa non è la poesia, ma non ho abbastanza tempo per spiegarlo, intanto posso dire che non è psicologia né filosofia, dato che ci sono quelli che già vi si dedicano…

Maurizia Rossella

Edited by - Elena Fiorentini on 19/05/2004 18:54:50Vai a Inizio Pagina

   
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