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 Della pesca e del fiume
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massimo
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La mia prima canna da pesca

Non potrei, neppure volendo, ricordarmi il mio primo fiume, né la prima volta in cui sono andato a pescare. Il primo ricordo, che mi viene alla mente, è una canna da pesca. La mia prima canna da pesca.
Nonostante siano passati almeno quaranta anni, l’immagine è talmente nitida che, volendo, la potrei fotografare. La ricordo distintamente e con affetto. Era una cannetta fissa di bambù, in due pezzi, che si incastravano faticosamente l’uno nell’altro, poco più lunga di due metri. Il cimino era un po’ storto, piegato. La punta doveva essere stata rotta dal precedente proprietario, poiché si vedeva chiaramente che era stata rappezzata con un anello di fortuna. Il colore originario del bambù era diventato scuro, brunito dal sole, dal tempo, dalle intemperie di innumerevoli giornate di pesca
Mi pare di ricordare che fosse stata regalata a mio padre da un maresciallo della forestale, prossimo alla pensione, uno dei rari appassionati di pesca del nostro paese, ambasciatore di uno sport, che successivamente sarebbe diventato maggiormente popolare e diffuso.
Ricordo appena quelle prime battute di pesca. Ci recavamo a pescare in un torrente, il Mocogno, poco distante dal paese, tanto che talvolta lo raggiungevamo a piedi.
Era un fiumiciattolo con poca acqua, specialmente nei mesi estivi, con le rive alberate e cespugliose che lo rendevano non particolarmente adatto per la pesca. L’unico punto, dove si poteva tentare di pescare, era dove tre briglie in rapida successione, creavano delle pozze d’acqua più calma e profonda, abbastanza ampie, nella quali si radunavano branchi di pesciolini. Erano vaironi e cavedanelli, di piccole dimensioni, ma bastanti per essere catturati. Qui il maresciallo poteva insegnare i primi rudimenti della pesca a mio padre, felice di avere trovato un compagno con cui condividere la sua passione.
Andavamo a pescare nel Mocogno, perché adatto per iniziare e perché mio padre, in attesa di decidere se lo sport lo avrebbe appassionato, non aveva ancora fatto la licenza di pesca, ma quel torrente non era considerato degno di vigilanza da parte dei guardiapesca e pertanto vi si poteva andare in tutta libertà.
La realtà era che in quel periodo non ci si poteva permettere tutto ciò che si desiderava. I miei genitori, con tre figli da crescere ed una casa da finire di pagare, dovevano stare attenti a come si spendevano i soldi se volevano arrivare alla fine del mese. Devo dire che non ci hanno mai fatto mancare nulla, e che se potevano, cercavano di soddisfare i nostri desideri, probabilmente rinunciando ai loro, e che mai ci hanno fatto pesare i loro sacrifici. Ma questo l’ho capito solo molto tempo dopo.
Credo che mio padre inizialmente ritenesse la pesca un lusso che non poteva permettersi, così si era limitato a prendere quel poco di attrezzatura, l’indispensabile, un po’ di filo, qualche amo, un galleggiante a pallina colorato in bianco e rosso, una scatolina di piombi, usando la cannetta in bambù che il maresciallo gli aveva regalato.
Quelle prime volte io mi limitavo ad osservarli, fino a che, annoiato, mi mettevo a camminare lungo il greto del fiume, fermandomi poi a giocare con i sassi e con i rivoli d’acqua. Mi divertivo a costruire dighe con i sassi, e spesso, mi facevo dare qualche pesciolino da mio padre, e lo mettevo in quelle piccole pozze, passando il tempo ad osservarli. E’ in questo modo che ho cominciato ad amare il fiume, e credo che la passione per la pesca sia venuta di conseguenza, un motivo in più per frequentare luoghi che amavo.
A volte chiedevo a mio padre di farmi “fare una passata”, per provare l’ebbrezza di catturare un pesciolino. Mi ricordo che abbassava gli occhiali sul naso per vedere meglio mentre innescava sull’amo un paio di begattini, scelti con cura tra i più grossi e vivaci. Il primo veniva infilato per tutta la sua lunghezza, a coprire quasi totalmente il gambo, il secondo appena sulla punta e lasciato penzolare, perché, divincolandosi, avrebbe dovuto richiamare l’attenzione del pesce.
Mi ricordo i primi pesci che pescammo. Soprattutto erano vaironi, argentei e guizzanti nell’aria, prima di essere presi e riposti con cura nel retino. Ogni tanto capitava di prendere anche qualche cavedanello, che consideravamo allora una cattura di un certo pregio anche se non superavano mai quindici centimetri di lunghezza.
Per un paio di mesi pescammo in quei tre pozzi, spostandoci dall’uno all’altro, appena il pesce smetteva di mangiare. A volte andavamo di mattina altre di pomeriggio, a seconda degli orari del maresciallo. Mio padre, insegnante elementare, non aveva problemi perché era estate ed era in vacanza.
L’acqua era limpida e poco profonda. Questo ci consentiva di distinguere il fondo sassoso, e di vedere i branchi di pesciolini che nuotavano sotto di noi. Si pescava lanciando l’esca al limite della cascata e lasciando poi scivolare il galleggiante, portato dalla corrente, verso il fondo della pozza fino a dove l’acqua correva più velocemente ed il fondo era troppo basso per poter pescare. Il nostro sguardo era sempre fisso su quella pallina bianca e rossa che andava tremolante verso valle, pronto a cogliere qualunque segnale di abboccata.
Come descrivere l’attesa che segue al vedere il primo sussulto deciso, il primo “tocco”. Ancora due, tre volte, poi, se il pesce aveva abboccato, il galleggiante si inclinava e scendeva deciso sott’acqua. Era quello il momento giusto per ferrare. Un rapido movimento col braccio e, se eri stato bravo o più spesso fortunato, il cimino della canna si incurvava e prendeva vita. Bastava sollevarla verso l’alto, con un movimento continuo e senza strappi, e, sospeso nell’aria, un pesciolino si dibatteva, argenteo, luccicante.
Che emozione la cattura. Sentire la canna vibrare, col cuore il gola, perché il pesce può sempre slamarsi e ricaderti in acqua, lasciandoti la desolante sensazione del nulla.
Infine afferrarlo, mentre ancora si dibatte per sfuggire, slamarlo il più garbatamente possibile, per riporlo poi con cura nel retino. Questo per ogni cattura che riesci a fare.
Alla sera, stanchi e cotti dal sole, il maresciallo e mio padre confrontavano i retini, per misurare la loro abilità di pescatori. In genere il maresciallo ci dava il suo pescato per invogliarci, mangiandolo, a tornare a pescare. In realtà, dopo anni di catture, non era un cibo che lo attirasse particolarmente. Per la mia famiglia era invece una novità e lo mangiavamo volentieri. Pregustavamo il momento dell’arrivo a casa. Mia madre stendeva un vecchio giornale sul tavolo di cucina e vi rovesciava il contenuto del retino. Facevano sempre bella figura tutti quei pesciolini, più che sufficienti per la cena di noi cinque. Non sempre, alle sue parole di ammirazione per quanto fossimo stati bravi, rivelavamo che più della metà erano catture del maresciallo, e che la cena sarebbe stata piuttosto misera se solo con il nostro pescati.
I pesci erano presto puliti, lavati ed infarinati, quindi mia madre cominciava a friggerli. La cucina era inondata dal profumo di pesce fritto, ed il mio appetito aumentava di conseguenza. Che soddisfazione potere mangiare un cibo che non si poteva comperare in drogheria, ma che ci eravamo procurato. E come erano buoni quei pesciolini fritti. Croccanti, saporiti, sapevano solo di natura e di acque pulite, acque che ancora avresti potuto bere. Si prendevano per la coda, si toglieva la testa e si mangiavano in un paio di bocconi, masticando bene ed accompagnando con un pezzo di pane casalingo che aiutava a neutralizzare le lische più fastidiose.
Mio padre, dopo un po’ di volte e la soddisfazione delle prime catture, cominciò a prendere passione a quello sport, decise quindi che era venuto il momento di comperare un attrezzatura un po’ meno da principiante.
Un giorno prese l’auto, una Fiat 600 ed si recò a Pavullo dove c’era il negozio di pesca. Era gestito da Fabio, punto di riferimento per i pescatori della zona, e diventato quasi un’istituzione, sempre prodigo di consigli e vero appassionato, ma di lui avrò modo di parlarne in seguito.
Alle sera, tornato a casa, mi mostrò gli acquisti fatti. Innanzi tutto una canna da pesca, in bambù, poiché ancora non esistevano altri materiali, in tre pezzi, con il manico rifinito in sughero, dove, con due anelle in ottone, era possibile fissare il mulinello. Aveva comperato anche questo, un Mitchell, mi pare di ricordare, che allora era considerato uno dei migliori. Aveva poi preso uno scatolino con piombi di varie dimensioni, un paio di rotoli di bava da pesca di due diverse misure, un po’ di ami e l’immancabile sacchetto per tenere i begattini, segno distintivo del pescatore d’acqua dolce. Su consiglio di Fabio, aveva comperato anche un paio di galleggianti di sughero di forma più affusolata, certamente più adatti alla pesca a fiume. Le sue speranze di catture dovevano essere ben fondate, perché come ultimo acquisto mi mostrò un cestino di vimini, di quelli che si portano a tracolla, con la fessura nel coperchio per mettere il pescato, senza doverlo aprire.
La cannetta di bambù passò così a me, insieme al galleggiante a pallina bianco e rosso, ed al resto dell’attrezzatura che mio padre aveva preso precedentemente. Non vorrei sbagliare, ma tanto tempo è passato, ma ricordo che tutta la mia roba stava in una borsa di plastica, che si chiudeva con una cerniera. Quelle, per intenderci, che contenevano la saponetta, lo spazzolino, il dentifricio, e gli altri oggetti per l’igiene personale che si usavano solitamente nei viaggi. Mi sembra di ricordare che mio padre ne avesse rimediata una simile, solo più grande, in similpelle marrone.
Così potevamo andare a pescare tutti e due insieme, e non lo avrei più scocciato per “fare una passata”, né avrei avuto modo di annoiarmi stando ad osservarlo.
Decidemmo che il giorno dopo saremmo andati a pescare in Scoltenna. Ci mettemmo allora a preparare le lenze e mio padre mi insegnò a legare gli ami, contando ad alta voce i giri che il filo faceva per essere ben legato.
Quando fu tutto pronto ce ne andammo a letto, per alzarci presto alla mattina successiva. Non ricordo se dormii quella notte, probabilmente sì, avevo nove o dieci anni, e dormire ancora non era diventato un problema.

   
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