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 Lo chiamavo Mike
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Gabriella Cuscinà
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LO CHIAMAVO MIKE



Oggi ho settant’anni e spesso penso ancora a lui, a quel ragazzino che chiamavo Mike.
Lo avevo conosciuto quando aveva circa undici anni ed era un mio alunno di prima media.
Quella era una scuola ben frequentata e quasi tutti i ragazzi vi arrivavano già abbastanza scolarizzati e preparati.
Michele Terzini invece, vi arrivò che a stento sapeva leggere e scrivere. In classe, non voleva sedere con gli altri compagni e spesso scappava, facendosi inseguire dai bidelli. Infatti quel primo anno non fu promosso e dovette ripetere la classe. Io avevo subito preso molto a cuore il suo caso e, proprio per aiutarlo, fui concorde con gli altri colleghi a fermarlo nel percorso della scuola media.
Circa un anno fa, ho incontrato il giudice Terzini. Non lo avrei mai riconosciuto. Era lui, era Michele, o meglio Mike, come io lo avevo sempre chiamato.
Era stato adottato a sei anni da una coppia senza figli. Due signori che lo avevano preso da un orfanotrofio dove i genitori naturali lo avevano abbandonato.
Quel primo anno di scuola media, lo aveva vissuto come un incubo. Non si adattava a niente, non andava d’accordo con nessuno. Sembrava più che altro un animaletto spaventato e pronto ad aggredire. Era un bel bambino, bruno, ricciuto, con gli occhi nerissimi e grandi. Avevo notato che era sensibilissimo alla dolcezza, addirittura restava a bocca aperta se provavo a fargli una carezza. Povero Mike! Non aveva mai avuto, nella sua vita di fanciullo, nessuno che gli dicesse una parola affettuosa.
La prima volta che affrontò una prova di scrittura, mi accorsi che, a malapena, riusciva a tenere la penna in mano. In questi casi noi insegnanti delle medie ci chiediamo cosa abbiano fatto e come abbiano operato i colleghi delle elementari. Con Michele avevano lavorato davvero male. Per questo, il ragazzo dovette ripetere la prima classe delle medie, proprio per recuperare le abilità di base, per riuscire a socializzare meglio con gli altri ragazzi, e per acquisire un metodo di studio efficace e valido per lui che era arrivato privo delle più elementari basi di partenza.
Quando fu ripetente, ebbe la fortuna d’incontrare dei nuovi compagni tutti molto ben disposti nei suoi confronti. Io raccontai subito ai miei nuovi allievi la storia di Michele, e quei ragazzi immediatamente mostrarono un atteggiamento di protezione verso di lui.Quella fu una delle migliori classi che abbia avuto nella mia lunga carriera d’insegnante. Fu merito loro se il ragazzo riuscì lentamente ad inserirsi e a socializzare nell’ambiente scolastico. Fu merito loro se oggi il giudice Terzini svolge egregiamente il suo lavoro. Infatti, a poco a poco Michele imparò a leggere e scrivere bene. Aveva anche imparato a narrare ai compagni le sue vicissitudini di bambino senza genitori. Raccontava che, all’orfanotrofio, gli altri ragazzi lo picchiavano sempre e lui non sapeva difendersi perché era troppo piccolo e nessuno si preoccupava di lui. Gli mettevano gli scarafaggi nelle tasche, gli sottraevano il cibo, gli facevano ogni sorta di angherie.
Quando raccontava in classe queste cose, gli altri compagni lo guardavano come se fosse un eroe e lui era soddisfatto di questo. Una volta, parlandomi della sua mamma adottiva mi disse: “Mia madre mi ha adottato perché lei figli non ne può avere che ci ha le ovaie bloccate.” Esordì così dinanzi a tutta la classe scatenando l’ilarità collettiva.Raccontava di ricordare suo padre, quello vero, un tipo ricciuto, che una volta gli aveva detto: ” Adesso ti porto a comprare i giocattoli.” E invece lo aveva portato in un istituto di suore e ve lo aveva lasciato per sempre. La madre però, non la ricordava affatto. Secondo me, ne aveva rimosso il ricordo.
All’istituto, insieme con lui, c’era anche una sorellina poco più piccola. Questa fu data in adozione ad un’altra coppia, con grande dolore di Michele che in lei trovava il suo unico affetto nella vita.
Fu promosso in seconda media e, quell’anno, fu felicissimo, come di una grande conquista. Aveva imparato a leggere scorrevolmente e, a poco a poco, evidenziava sempre più la normale intelligenza di un ragazzino della sua età. Solo nella matematica non riusciva a migliorare, ma non perché gli mancassero le capacità, ma piuttosto poiché non entrava in sintonia con l’insegnante.
Continuava ad essere vivacissimo, talora addirittura irrequieto ed iperattivo. Ma era divenuto sensibile ai richiami e, specialmente se le prediche gli venivano da me, subito chiedeva scusa e si mostrava mortificato.In quei casi, io gli sorridevo e vedevo spuntare la gioia nei suoi occhi da arabo. Spesso avevo dovuto trattenere le risa dinanzi a lui e agli altri compagni, poiché combinava sempre qualche marachella divertente. Una volta invece, ne combinò una proprio grossa. Durante l’ora di educazione fisica, spinse un compagno a terra, procurandogli la frattura di entrambi i polsi. Michele quando si rese conto di ciò che aveva procurato, restò atterrito, con la bocca spalancata e pallidissimo. Io temetti che stesse peggio del compagno fratturato.
Quell’esperienza gli valse però ad acquisire maggior senso di responsabilità e una maggiore consapevolezza in tutte le sue azioni.
Nonostante tutto, il suo carattere restava irrequieto e alcuni colleghi lo giudicavano insopportabile.
Povero Mike! Assetato d’affetto e di comprensione! Ti ho voluto bene in modo particolare. E tu te ne accorgevi. Mi cercavi sempre. Quando entravo io, in classe, notavo che avevi un sospiro di sollievo.
Durante una lezione di storia, quando gli chiesi quale fosse stata la carta costituzionale italiana precedente a quell’attuale, mi rispose, soddisfatto e convinto: ” Lo Statuto di Carlo Albertino.”
In casi come quello, io scoppiavo a ridere irrefrenabilmente, poiché davvero non riuscivo a trattenere le risa e poi perché sapevo che lui era in ogni caso felice di vedermi ridere.
Mi raccontava che voleva diventare fortissimo fisicamente in modo da non dovere mai più soccombere agli altri ragazzi. Infatti, il suo papà adottivo lo aveva iscritto ad una scuola di Karate e in una palestra di culturismo .Dopo due anni, già mostrava una muscolatura invidiabile. Tra l’altro, diventava sempre più bello ed attraente.
In seconda media, quando aveva tredici anni, s’innamorò di una compagna di classe di nome Roberta, molto graziosa e particolarmente studiosa. Ma non fu mai ricambiato. Michele le portava a scuola le rose, ma lei diceva di non volerle. Allora il ragazzo si rivolgeva a me e, deluso, mi chiedeva ad alta voce: ” Professoressa perché Roberta non mi vuole?” Quella era un’altra occasione d’ilarità, ma cercavo comunque di consolarlo dicendogli che le donne spesso fanno le preziose e allora bisogna lasciarle perdere. Era costante nei sentimenti però, e insisteva sempre per farsi apprezzare dalla compagna, ma con scarsi risultati e questo lo faceva avvilire.
“ Michele, ma non vedi quanto sei bello! Perché non cerchi un’altra ragazzina?” gli dicevo io.
“Un giorno diventerò importante professoressa, e allora tutti mi vorranno” mi rispondeva, mostrando ancora una volta la sua rabbia di ragazzo diverso dagli altri.
Quando facevamo le visite d’istruzione in giro per la città, dovevo sempre tenermelo vicino per evitare che ne combinasse una delle sue. Nonostante ciò, lui eludeva la mia sorveglianza e andava a guardare le vetrine con gli occhi spalancati. Poi faceva qualche guaio, mi guardava, ed esclamava: “Ma io non ho fatto niente professoressa!” Appunto questo discolparsi continuamente delle sue marachelle, era una nota dominante del suo carattere. Come se avesse acquisito, nella più giovane età, il bisogno di difendersi da tutto, una specie di lotta per la sopravvivenza.
Dinanzi all’evidenza più grande della sua colpevolezza, io esclamavo: ” Mike, che hai fatto!” e lui puntualmente rispondeva: “Non ho fatto niente io!”
“Ma come, ti hanno visto tutti!” e lui: ” Ecco! La colpa è sempre mia!”
A questo punto, bisognava fargli sentire più che mai l’affetto che lo circondava, e allora, sorridendo, io lo carezzavo e lo incoraggiavo: ” Non preoccuparti Mike, non voglio punirti, ma cerca di stare più tranquillo.”
Il suo sguardo allora diveniva adorante. Ho sempre supposto che all’istituto non facessero altro che punirlo e picchiarlo.
In seconda media fu nuovamente in pericolo di dover ripetere la classe, poiché non aveva del tutto raggiunto gli obiettivi minimi che, annualmente, il consiglio di classe programma e predispone per gli alunni. Quella volta, ricordo, mi battei fermamente per ammetterlo alla classe successiva, sostenendo che sarebbe stato molto peggio per Michele essere allontanato da quei compagni e vedersi costretto a restare indietro.
Riuscii nel mio intento, e fu ammesso in terza media. Quando apprese della promozione, la sua gioia fu indicibile. Non dimenticherò mai quella sua espressione di bambino che mi vuole abbracciare con slancio filiale, e, nello stesso tempo, l’atteggiamento dell’uomo che si frena per pudore.
Mi aveva spesso detto che, da grande, avrebbe voluto fare il giudice per mandare in carcere tutti quelli che, nel passato, lo avevano maltrattato: “ Farò il giudice professoressa, così li faccio arrestare a tutti, a tutti quelli che picchiano i bambini.”
“ Certo Mike, però dovrai studiare moltissimo, ricordalo”, rispondevo io.
In terza media, s’impegnò a fondo; sapeva che avrebbe dovuto sostenere gli esami, ed io mi accorgevo che ce la metteva tutta per imparare e memorizzare le lezioni. Anzi, talora apprendeva ogni cosa troppo mnemonicamente e con poca autonomia.
“ Mike, cerca di ripetere ciò che impari con parole tue e ragionando”, sollecitavo allora.
“ Sì professoressa” e invece studiava tanto che finiva sempre con l’imparare a memoria. Però se gli ponevo delle domande, mi accorgevo che ragionava e si era impadronito dei concetti. La matematica invece, rimaneva la sua eterna nemica e, dinanzi al professore della disciplina, si ammutoliva e non sapeva più fare nulla. Ho spesso sospettato che il collega di scienze matematiche gli ricordasse il padre.
Verso la fine del terzo anno, andammo in viaggio d’istruzione nel Veneto. Ero preoccupata al pensiero di dovermi occupare di Michele da sola e per sei giorni di seguito. Invece si dimostrò molto in gamba. In pulman prendeva la parola al microfono, e intratteneva i compagni cantando o raccontando barzellette. Poi, quando andavamo in giro per le città, si allontanava, ma mi diceva sempre dove stava andando. Restò affascinato da Venezia. Ricordo che guardando i palazzi sull’acqua, mi diceva: ” Professoressa, ma non possono essere veri!”
Superò senza difficoltà l’esame di licenza media, poiché rivelò capacità di sintesi e una certa preparazione, seppure un po’ stentata e frammentaria.
Anni fa, mi ritrovai a dover affrontare un problema giudiziario riguardante il condominio in cui abito. Mi recai al palazzo di giustizia poiché vi ero stata convocata per testimoniare. Non sapevo a chi rivolgermi e dove andare tra quel labirinto di corridoi. Quindi mi aggiravo come un’anima in pena. Improvvisamente fui avvicinata da un uomo bellissimo, alto e aitante, proprio un tipo virile come ormai, purtroppo, non se ne vedono più in giro. Mi guardava con occhi languidi e fare ammiccante. Ho sempre pensato di essere una signora piacente, ma niente di straordinario, tutto sommato. E poi quel tipo era molto più giovane di me. E allora perché continuava a guardarmi con insistenza? Cercavo di guardare altrove, ma lui inseguiva il mio sguardo. Decisi di allontanarmi, giacché cominciavo a preoccuparmi. Girai l’angolo del corridoio, e lui mi seguì. A questo punto non sapevo più cosa pensare ed ero addirittura spaventata. Mi rivolsi ad una guardia: ”Senta, quel tizio mi sta seguendo da un pezzo e sono preoccupata.”
Il poliziotto guardò il tipo che gli indicavo ed esclamò: ” Ma è il giudice Terzini, signora!”
“ Un giudice! E cosa vuole da me?”
Non aspettai molto per saperlo. Infatti, la persona in questione si stava avvicinando.
“Professoressa! Ma davvero non mi riconosce?”
“Perché? Dovrei? Mi dispiace ma non la conosco.”
Così dicendo mi sentivo più che mai professoressa e mi odiavo.
“Ma come! Sono Michele Terzini. Sono Mike professoressa!” E mi abbracciò con grande stupore del poliziotto. “Venga, andiamo nel mio ufficio, abbiamo tante cose da raccontarci, e poi mi dirà perché si trova qua e se ha bisogno di qualcosa.”
Il poliziotto era costernato, perché, come ho saputo più tardi, il giudice Terzini è un magistrato molto rigido e severo.
Adesso però lo riconoscevo. In quegli occhi neri da arabo e in quel fisico muscoloso riconoscevo il mio Mike. Ma chi l’avrebbe mai detto! No. Davvero non lo avrei mai ravvisato.
Mi condusse in un elegantissimo studio, pieno zeppo di carte e incartamenti vari.
“Questo è il mio mondo, professoressa, vede, ce l’ho fatta, sono divenuto magistrato, proprio come le dicevo, solo che non mi occupo di reati sui minori, ma di normali cause civili.”
“Mike, ancora stento a credere che sia tu! Non sai che piacere sto provando a rivederti! E quando ridi…. sì, sei proprio tu, Mike, il mio ragazzino ribelle e spaventato.”
“Lei è sempre la stessa, sa, l’ho riconosciuta immediatamente. Quante cose mi ha insegnato, professoressa! Innanzitutto mi ha insegnato a vivere avendo fiducia nel mio prossimo. Senza di lei, credo che non avrei mai superato gli anni della scuola media. Ricordo che ero troppo ignorante e spaventato. E quel che era peggio, me ne rendevo perfettamente conto.”
Sentirsi dire certe cose, attribuisce un altro significato alla giornata ed ai minuti che stai vivendo. Sembra retorica, ma è proprio così. A conti fatti, certe parole ti gratificano e ti consolano per tutta una vita di sacrifici e d’arrabbiature trascorsa in mezzo ai ragazzi.
“Ti sei sposato, Mike? Hai figli?”
“Si, qualche anno fa ho conosciuto la donna della mia vita, una collega. Abbiamo due figli maschi.
Mi creda, professoressa, faccio il possibile per rendermi sempre presente e vicino a questi bambini.
L’esperienza mi ha insegnato che i genitori sono la realtà più importante per delle creature.”
“E i tuoi genitori adottivi come stanno?”
“Oh, stanno bene! Sono felici di essere nonni e io sono felice per loro. Davvero sono stato fortunato! Delle persone buone e generose come loro è difficile trovarle.”
“Mike, ma ti ricordi come mi facevi impazzire?”
“E come posso dimenticarlo! Era come se volessi continuamente sfidarla, per mettere alla prova il suo affetto. Ma lei lo capiva e sopportava tutto, pur se si arrabbiava e mi rimproverava aspramente. Ma poi il momento più bello era quando mi sorrideva e mi passava la mano tra i capelli.! Cara la mia professoressa! Allora capivo che ero un bambino come tutti gli atri. Un alunno qualunque cui l’insegnante era affezionata!”
“No, non eri come tutti gli altri, eri di più, eri il mio Mike. Forse inconsapevolmente ti avevo adottato anch’io. Però non lo davo mai a vedere, né agli altri allievi, né ai colleghi.”
“Ma adesso perché si trova qui, professoressa?”
Gli spiegai dei problemi condominiali e il motivo che mi aveva condotto al palazzo di giustizia.
Inutile dire che me li risolse in men che non si dica. Bello avere come intimo amico un magistrato!
Così, oggi, a settant’anni, spesso penso ancora a lui, a quel ragazzino che chiamavo Mike.

Gabriella Cuscinà

   
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